La testa bronzea dell'imperatore Costantino ai Musei Capitolini |
Il grande successo commerciale delle
biografie (più o meno rigorose e documentate), rappresenta uno dei
divarii più cospicui fra la Cultura con la C maiuscola e le scelte
dei mass media. Alcune «Vite» sono in effetti compilazioni
affrettate, basate su dati — spesso notoriamente confutati —
desunti da testi scolastici, senza consultazione di archivi,
controllo di documenti o verifica della tendenziosità delle fonti.
Il personaggio che ne emerge è oggetto di curiosità per gli
aneddoti della sua esistenza, non perché rappresenti una classe o
una corrente culturale e politica; né perché sia stato, poniamo, il
promotore o il mediatore duna crisi. Non sfuggì a Plutarco, il
biografo per eccellenza, la differenza fra biografia e storia: «io
non faccio storia», precisò; «scrivo delle Vite». Era consapevole
che la storia riguarda la «longue durée» d’una nazione, mentre
la biografia si limita alle vicende d’un individuo.
Nella storiografia attuale, l’uomo
non è più né soggetto né protagonista. Cominciò l'evoluzionismo
a vederlo comportarsi come si addice a una creatura pervenuta a un
dato stadio del suo sviluppo biologico; la psicoanalisi lo ritiene
condizionato da stimoli sepolti nel subconscio; l’antropologia e lo
strutturalismo s’interessano dei comportamenti collettivi; il
materialismo storico addita nelle ragioni economiche i moventi del
divenire; la sociologia e la scuola delle «Annales» indagano su
indizi inavvertiti, su documenti indiretti, per mettere in luce la
mentalità, il costume della cosiddetta «maggioranza silenziosa».
Oggi, dunque, è quasi riposante
leggere qualche biografìa di vecchio stampo, nella quale campeggia
la figura umana, una biografia in cui l’autore segue il
protagonista passo passo dall'infanzia, lo ambienta nel suo tempo, lo
studia con diligenza anche se volentieri lo giustifica nei suoi
errori. Il racconto, comunque, stimola l’interesse per l’operato
d’un individuo, più che suscitare vasti interrogativi politici e
morali.
È il caso dell’ultimo volume d’
uno studioso tedesco di cui conoscevamo già un Giulio Cesare,
E-berhard Horst: Costantino il Grande (traduzione di Umberto
Gandini, Rusconi). L'imperatore Costantino è noto soprattutto per il
famoso compromesso storico del 313, l’Editto di Milano, con il
quale concesse libertà di culto ai cristiani; dopo quell’avvenimento
clamoroso, la Chiesa diventò sua stretta collaboratrice,
volenterosamente riconobbe nell'impero uno strumento della
Provvidenza e cominciò ad accumulare privilegi.
Privazioni forsennate
Ancora dolorante per le recenti
persecuzioni, la Chiesa dei primi due secoli si gloriava dei propri
martiri, moltiplicava le sue cellule, attirava gli umili con parole
di giustizia, le classi colte con il monoteismo e con l’etica
severa, le coscienze smarrite per la crisi dei valori con la sua
dottrina suggestiva e rassicurante. Come osservava acutamente Arnaldo
Momigliano, la sua maggior forza d’attrazione fu la solidarietà
umana aperta a individui smarriti inuno Stato troppo vasto –
sofferenti si direbbe oggi di alienazione – e il senso di
appartenere a una comunità nella quale trovare speranza nella vita
futura e assistenza nei bisogni materiali di questa terra.
A prescindere dal rapporto numerico fra
le due forze, è in genere la più antica e autorevole ad assimilare
quella nuova, fino a quel momento emarginata. Questa, a sua volta,
attenua la sua spinta eversiva e lentamente si snatura; il tempo
opera immancabilmente un assor-bimento reciproco, promosso non da
affinità ideali ma quasi da una necessità di assimilazione.
Il compromesso tra Stato e Chiesa, che
pure segno la fine delle persecuzioni —particolarmente terribili le
più recenti — non mancò di suscitare reazioni contrarie. Una di
queste fu il monachesimo. Ebbri di Dio, gli anacoreti si rifugiarono
nei deserti o nelle isole più inospitali, si incatenarono alle
rocce, si sottoposero a privazioni forsennate per provare che la
dedizione a Dio deve essere totale. In contrasto con la Chiesa,
sempre più condiscendente (il Concilio di Elvira-Granada, decretò
la scomunica a chi gettava le armi per obiezione di coscienza, cosa
che i Padri della Chiesa seguitarono a predicare per tutto il
secolo), gli asceti negarono ogni diritto alla propria sostanza
corporea: scarmigliati, scheletrici, quegli «autonomi» della fede
contestarono insieme Chiesa e Governo, contrapponendo le nude
spelonche alle chiese che si andavano ricoprendo di marmi e di
mosaici.
I vescovi intanto conquistavano
privilegi. Già nel 319 l’imperatore esentò gli addetti al culto
dalle prestazioni obbligatorie: l'amministrazione dei comuni —
funzione gravosissima e ereditaria—la manutenzione delle opere
pubbliche; poi li esonerò dal servizio dei templi, poi da quello
militare. I vescovi furono inoltre abilitati a giudicare nei
Tribunali ecclesiastici e le loro sentenze non prevedevano appello;
presenziavano in chiesa alla «manumissio», la liberazione
dello schiavo. I preti ottennero sgravi fiscali.
Un altro aspetto del rifiuto fu
dottrinario: le eresie. Dietro al dissenso teoretico, esse celavano
la resistenza di menti avvezze al pensiero greco e incapaci di
accettare il «credo quia absurdum»; nascondevano soprattutto
antiche animosità etniche e sociali. Costantino, che aveva sperato
di raggiungere quell’unità religiosa da lui ritenuta premessa
indispensabile all'unanimità dei consensi, si trovò coinvolto nel
dissidio tra ariani — negatori della sostanza divina di Gesù pari
a quella di Dio — e ortodossi. La sua aspirazione a un dominio
totale lo poneva nella posizione di arbitro supremo; eppure,
consultato dai contendenti, confessò di non essere in grado di
giudicare, essendo lui stesso bisognoso di lumi: il suo cristianesimo
era infatti un deismo intriso di platonismo e ancora memore del culto
del Sole. Fondò una monarchia teocratica, mentre i sudditi
sopportavano una situazione economica disastrosa, salari da fame, una
grave svalutazione monetaria, e si creò un'aureola da ispirato.
Già nel 310, nelle Gallie — come
racconta uno dei suoi panegiristi —aveva avuto la visione radiosa
di Apollo. Poi ebbe il sogno della croce fiammeggiante con la scritta
famosa: In hoc signo vinces («in questo segno vincerai») e
vinse la battaglia di Ponte Milvio, nella quale si liberò dell
ultimo dei suoi competitori al trono, tutti sterminati (e tutti suoi
parenti stretti). Nell'Arco di Trionfo — che apparteneva a Traiano,
come è evidente dai medaglioni e dai superbi Daci che lo sormontano
— la dedica parla del giovane imperatore che avrebbe sgominato il
«tiranno», titolo immancabile del sovrano ritenuto illegittimo, per
ispirazione della divinità: Instinctu divinitatis — ma non
si precisa quale fosse.
L'immagine di Costantino I nei mosaici della Basilica di Santa Sofia a Instambul |
I sette colli di Bisanzio
La testa, la mano marmoree conservate
nel cortile del Museo capitolino riflettono la sua aspirazione a un
dominio addirittura cosmico: un uomo che vuol essere rappresentato in
dimensioni così macroscopiche nutriva certo ambizioni smisurate.
La costruzione della seconda capitale,
la nuova Roma, sul Bosforo, fu una pugnalata per i conservatori
romani. Si era temuto che Cesare volesse riedificare Troia, che
Antonio trasferisse la capitale in Egitto e Tito, per amore di
Berenice, a Gerusalemme — non per nulla Livio fa dire da Camillo a
quelli che volevano trasferire la capitale a Veio la frase famosa:
«Qui resteremo ottimamente» (hic manebimus optime) e
Virgilio rassicurò i romani: Troia non sarà mai ricostruita.
Costantino, quasi guidato da una voce soprannaturale; tracciò con la
lancia il perimetro della città, che comprendeva, come Roma, sette
colli; vedeva se stesso come l’immagine di Dio in terra, il simbolo
del potere cosmico e tutti i suoi atti dovevano essere impregnati di
sacralità. La città — Bisanzio — si trovava in una posizione
privilegiata per bellezza e per i traffici marittimi; nell’ippodromo,
già costruito da Settimio Severo, depose i trofei d’una doppia
tradizione cristiana e romana: il Palladio, la pietra nera (il
meteorite che rappresentava la Madre degli dèi) il paniere della
moltiplicazione dei pani e dei pesci: il che significava trasferire a
Costantinopoli le fortune di Roma. Sua madre, intanto, ritrovava in
Palestina i frammenti della croce.
L'imperatore ha deposto la lorica del
legionario e la toga del magistrato; è ispirato da Dio. Immobile
come un'icona, si esibisce al centro di un abside ai sudditi ammessi
alla genuflessione, tra i fumi dell'incenso; la sala del trono si
trasforma in basilica, il cerimoniale della Corte passa al vescovo di
Roma, i perseguitati diventano persecutori. Lo scambio dei connotati
è compiuto.
“la Repubblica”, 18 dicembre 1987
Nessun commento:
Posta un commento