“Posto” qui
l'articolo politico-vegetariano che il mio amico e compagno Maurizio
Fratta ha pubblicato su “L'Altra pagina”, una bella rivista
altotiberina, in preparazione del convegno La parabola del cibo
(Città di Castello, 12-13 settembre), sperando che provochi
riflessione e dibattito. (S.L.L.)
Guido Viale, in un
articolo pubblicato su il manifesto lo scorso mese di maggio,
ha messo a fuoco, in maniera sintetica ed efficace, quanto sia
contraddittoria, al limite del grottesco, la parola d’ordine
nutrire il pianeta con la quale l’Expo si è presentato
all’attenzione del mondo.
Come e a quali costi sia
possibile far nutrire il pianeta dalle multinazionali
dell’agrobusiness che hanno privatizzato l’acqua e la terra, che
controllano il materiale genetico di animali e di semi delle
piante,che producono un cibo avvelenato da pesticidi e da
fertilizzanti chimici trattandolo come una merce e che, incuranti del
cambiamento climatico e dell’inquinamento ambientale, impongono un
paradigma di sfruttamento e di alienazione all’intero pianeta
dovrebbe essere chiaro ai più.
Ed invece, come nota
anche Viale, la società dello spettacolo e della promessa ha il
sopravvento riducendo sempre più l’Esposizione Universale ad
un’«infilata senza fine di ristoranti etnici, accompagnata da
edifici costosi e caduchi e da una coreografia in gran parte
virtuale».
E Carlin Petrini,
fondatore di Slow Food presente all’Expo in maniera critica,
constatando appunto che a Milano «chi nutre il pianeta non c’è»,
ha lanciato un appello per far sì che migliaia di contadini
africani, asiatici, latinoamericani, provenienti da 170 paesi di
tutto il mondo possano - loro che il cibo lo producono davvero –
essere accolti negli ultimi giorni dell’Expo proprio per dare un
senso al futuro della alimentazione per il pianeta.
In un modo inatteso e
sorprendente ancorché carico di speranze sembra ora che, agli inizi
del XXI secolo, quegli stessi soggetti che nel lungo processo di
accumulazione capitalistica erano stati cacciati dalle loro terre,
«quei produttori rurali,quei contadini la cui espropriazione ed
espulsione dalle terre costituiva - come scrive Marx – il
fondamento di tutto il processo», possano riprendere la parola per
raccontare di come si coltiva senza usare pesticidi, di quanti orti
comunitari sorgono nel mondo, di come si organizzano i mercati
contadini.
Sono infatti trascorsi
quasi due secoli da quando nell’Inghilterra di metà Ottocento
l’industria laniera in formazione aveva messo le mani sulle terre
comuni recintando e destinando al pascolo le campagne che avevano
garantito la sussistenza autonoma per larghe masse di uomini che ora
venivano condannate alla fame e costrette a trasformarsi in forza
lavoro numerosa e a basso costo.
E c’è un espressione
che correva nelle campagne inglesi riportata per primo da Tommaso
Moro e poi largamente ripresa dagli storici che descrive
sinteticamente ed efficacemente quel primo capitolo della storia del
capitalismo: le pecore hanno mangiato gli uomini. Un capitolo
che non si è affatto chiuso se pensiamo al sistema nella forma
matura ed assoluta con la quale il capitalismo si presenta oggi agli
occhi del mondo.
E non soltanto perché la
produzione capitalistica è dilapidatrice di uomini, dissipatrice di
vita e di salute ma soprattutto perché le aziende
agrarie,programmate e gestite come in un vero processo industriale,si
sono completamente sovrapposte alle catene di approvvigionamento
globale della industria manifatturiera ed il sistema di produzione
della carne è ormai totalmente dipendente dalle esigenze
dell’agrobusiness e della grande distribuzione.
Si stima che oggi siano
più di sessanta i miliardi di animali che costituiscono annualmente
la materia prima per un‘industria che, dalla macellazione alla
trasformazione, dalla standardizzazione alla ottimizzazione fino alla
distribuzione, ha messo a punto un sistema che sembra espandersi in
tutto il pianeta. Negli ultimi anni l’incremento di terreni
agricoli destinati all’industria della carne ha raggiunto
percentuali inimmaginabili soprattutto se pensiamo che per ottenere
un chilo di carne occorrono otto chili di cereali e che un chilo di
frumento ha bisogno soltanto di 556 litri d’acqua rispetto ai più
di diecimila che servono per produrre altrettanta carne.
Per far fronte alla
imponente domanda di carne più della metà delle terre fertili viene
oggi destinata
alla coltivazione dei
cereali e di quant’altro serve per alimentare gli animali allevati,
con un uso crescente di erbicidi,fertilizzanti,pesticidi,con sprechi
di energia derivante dai combustibili fossili e spreco di quella
derivante dalla trasformazione da vegetali a proteine animali e con
la produzione di milioni di tonnellate di deiezioni inquinanti.
Ma gli effetti più
devastanti si misurano sul piano climatico con la deforestazione che
nel corso di un paio di decenni ha annientato milioni di ettari di
foresta pluviale.
Secondo i dati elaborati
dalla FAO (2014) la superficie forestale mondiale è diminuita di
circa 5,3 milioni di ettari l’anno nel periodo dal 1990 al 2010 con
la più grande perdita in termini assoluti nelle aree tropicali
dell’America Latina,il continente che ha conosciuto le pratiche più
sconvolgenti
proprio a causa
dell’impatto dell’industria zootecnica.
In Terra Viva, il
manifesto realizzato da Navdanya (Nove Semi) International,
l’organizzazione fondata da Vandana Shiva per proteggere la
biodiversità, in difesa dei contadini e promuovere l’agricoltura
biologica, si legge: «Il secolo scorso è stato dominato da un
modello uscito dall’industria bellica e incentrato sull’uso di
sostanze chimiche e sui combustibili fossili. Tale modello ha
distrutto il suolo, sradicato gli agricoltori, generato malattie,
creato rifiuti e sprechi a tutti i livelli, compreso quello del 30%
del cibo. E’ il principale responsabile della distruzione e della
erosione di acqua, terra e biodiversità, ed è la principale fonte
di diffusione dei gas serra e della disoccupazione su larga scala.
Estrae la fertilità del suolo, il valore creato da contadini ed
agricoltori e dalle comunità rurali, e non restituisce niente in
cambio. Gli agricoltori sono costretti a spendere più di quanto
riescono a guadagnare, usando una forma di energia molto superiore a
quella prodotta sotto forma di cibo. Questo ha condotto alla crisi i
piccoli coltivatori e contadini, generando debiti e suicidi.
L’agricoltura industriale non è più un sistema per produrre cibo,
ma un sistema di produzione di merci, nel quale i cereali sono sempre
più spesso utilizzati per la produzione di biocarburanti e come
mangime per gli animali».
Non è possibile
comprendere appieno questo processo se non se ne risale alle cause.
Vale a dire l’imposizione
dell’Agricoltura Industriale da parte degli Stati Uniti avvenuta
alla fine del secondo conflitto mondiale, a partire dall’adozione
del Piano Marshall, che segnò la fine in Europa dell’agricoltura
tradizionale e l’introduzione di pratiche totalmente dipendenti dal
petrolio e dalla industria chimica, ed arrivare al sistema attuale
dove i diritti delle persone vengono sostituiti da quelli delle
Multinazionali che possono intentare cause agli Stati così come
prevedono i Trattati Transatlantici per il Commercio e gli
Investimenti tra L’Unione Europea e gli Usa ( TTIP ).
Come opporsi a tutto ciò?
Possono bastare gli
appelli,la raccolta di firme, le mobilitazioni più virtuali che
reali, per evitare che diritti e sovranità degli stati siano
sacrificati sull’altare delle politiche neoliberiste?
O non bisogna piuttosto
interrogarsi sulle nostre scelte quotidiane in tema di cibo ed
alimentazione?
Ma forse, ancor prima,
bisognerebbe convincersi che la cucina è politica, che questo
non è soltanto uno slogan ma la più efficace parola d’ordine per
contrastare le menzogne e le manipolazioni che stanno dietro la
luccicante facciata dell’Expo e riflettere sul fatto che, come
scrive l’insigne studioso dell’antichità greca, arcaica e
classica, Marcel Detienne «fin dagli albori della nostra civiltà e
per una decina di secoli un rituale che in terra greca aveva a che
fare con l’alimentazione perimetrò i confini dell’umano
inscrivendosi nel cuore stesso dello spazio politico,ossia nella vita
pulsante della polis».
E se «il
macellatore-cuoco-sacrificatore stabiliva che, dopo la cremazione
delle parti imputrescibili della vittima riservate agli dei e
l’arrostitura dei visceri destinata ad officianti e dignitari, le
carni bollite dovessero venire equamente distribuite tra i cittadini
maschi, unici detentori dei diritti politici, segno stesso della
appartenenza alla città egualitaria», parimenti politica era la
scelta anche di chi non si riconosceva nell’ordine culinario della
polis e aveva dato vita a pratiche alternative.
L’astinenza da cibi
carnei propugnata da ambienti orfici e pitagorici non aveva come
unica ragione il rispetto per la vita di ogni essere senziente ma
«rilevava le coordinate generali della protesta fissando la
posizione in rapporto al sistema politico religioso dominante ».
O più opportunamente
bisognerebbe ricordare, come acutamente sosteneva il filosofo
Massimo Bontempelli, che fu la proposta politica indicata da
Pitagora, fondata soltanto apparentemente su un comportamento
virtuoso ed individuale ma in realtà aperta a tutta la polis,
a far sì che Crotone, per non soggiacere alla dittatura della
moneta, alla rete dei commerci e delle importazioni imposte dalla
potenza imperiale di Sibari, si ponesse anche l’obiettivo di
eliminare l’alimentazione carnea proprio per evitare di importarla
da Sibari che, tra allevamenti e pascoli impiantati nella valle del
Crati, aveva espropriato da quelle terre i non greci.
L'altra pagina,
luglio-agosto 2015
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