12.8.15

La cucina è politica (Maurizio Fratta)

“Posto” qui l'articolo politico-vegetariano che il mio amico e compagno Maurizio Fratta ha pubblicato su “L'Altra pagina”, una bella rivista altotiberina, in preparazione del convegno La parabola del cibo (Città di Castello, 12-13 settembre), sperando che provochi riflessione e dibattito. (S.L.L.)

Guido Viale, in un articolo pubblicato su il manifesto lo scorso mese di maggio, ha messo a fuoco, in maniera sintetica ed efficace, quanto sia contraddittoria, al limite del grottesco, la parola d’ordine nutrire il pianeta con la quale l’Expo si è presentato all’attenzione del mondo.
Come e a quali costi sia possibile far nutrire il pianeta dalle multinazionali dell’agrobusiness che hanno privatizzato l’acqua e la terra, che controllano il materiale genetico di animali e di semi delle piante,che producono un cibo avvelenato da pesticidi e da fertilizzanti chimici trattandolo come una merce e che, incuranti del cambiamento climatico e dell’inquinamento ambientale, impongono un paradigma di sfruttamento e di alienazione all’intero pianeta dovrebbe essere chiaro ai più.
Ed invece, come nota anche Viale, la società dello spettacolo e della promessa ha il sopravvento riducendo sempre più l’Esposizione Universale ad un’«infilata senza fine di ristoranti etnici, accompagnata da edifici costosi e caduchi e da una coreografia in gran parte virtuale».
E Carlin Petrini, fondatore di Slow Food presente all’Expo in maniera critica, constatando appunto che a Milano «chi nutre il pianeta non c’è», ha lanciato un appello per far sì che migliaia di contadini africani, asiatici, latinoamericani, provenienti da 170 paesi di tutto il mondo possano - loro che il cibo lo producono davvero – essere accolti negli ultimi giorni dell’Expo proprio per dare un senso al futuro della alimentazione per il pianeta.
In un modo inatteso e sorprendente ancorché carico di speranze sembra ora che, agli inizi del XXI secolo, quegli stessi soggetti che nel lungo processo di accumulazione capitalistica erano stati cacciati dalle loro terre, «quei produttori rurali,quei contadini la cui espropriazione ed espulsione dalle terre costituiva - come scrive Marx – il fondamento di tutto il processo», possano riprendere la parola per raccontare di come si coltiva senza usare pesticidi, di quanti orti comunitari sorgono nel mondo, di come si organizzano i mercati contadini.
Sono infatti trascorsi quasi due secoli da quando nell’Inghilterra di metà Ottocento l’industria laniera in formazione aveva messo le mani sulle terre comuni recintando e destinando al pascolo le campagne che avevano garantito la sussistenza autonoma per larghe masse di uomini che ora venivano condannate alla fame e costrette a trasformarsi in forza lavoro numerosa e a basso costo.
E c’è un espressione che correva nelle campagne inglesi riportata per primo da Tommaso Moro e poi largamente ripresa dagli storici che descrive sinteticamente ed efficacemente quel primo capitolo della storia del capitalismo: le pecore hanno mangiato gli uomini. Un capitolo che non si è affatto chiuso se pensiamo al sistema nella forma matura ed assoluta con la quale il capitalismo si presenta oggi agli occhi del mondo.
E non soltanto perché la produzione capitalistica è dilapidatrice di uomini, dissipatrice di vita e di salute ma soprattutto perché le aziende agrarie,programmate e gestite come in un vero processo industriale,si sono completamente sovrapposte alle catene di approvvigionamento globale della industria manifatturiera ed il sistema di produzione della carne è ormai totalmente dipendente dalle esigenze dell’agrobusiness e della grande distribuzione.
Si stima che oggi siano più di sessanta i miliardi di animali che costituiscono annualmente la materia prima per un‘industria che, dalla macellazione alla trasformazione, dalla standardizzazione alla ottimizzazione fino alla distribuzione, ha messo a punto un sistema che sembra espandersi in tutto il pianeta. Negli ultimi anni l’incremento di terreni agricoli destinati all’industria della carne ha raggiunto percentuali inimmaginabili soprattutto se pensiamo che per ottenere un chilo di carne occorrono otto chili di cereali e che un chilo di frumento ha bisogno soltanto di 556 litri d’acqua rispetto ai più di diecimila che servono per produrre altrettanta carne.
Per far fronte alla imponente domanda di carne più della metà delle terre fertili viene oggi destinata
alla coltivazione dei cereali e di quant’altro serve per alimentare gli animali allevati, con un uso crescente di erbicidi,fertilizzanti,pesticidi,con sprechi di energia derivante dai combustibili fossili e spreco di quella derivante dalla trasformazione da vegetali a proteine animali e con la produzione di milioni di tonnellate di deiezioni inquinanti.
Ma gli effetti più devastanti si misurano sul piano climatico con la deforestazione che nel corso di un paio di decenni ha annientato milioni di ettari di foresta pluviale.
Secondo i dati elaborati dalla FAO (2014) la superficie forestale mondiale è diminuita di circa 5,3 milioni di ettari l’anno nel periodo dal 1990 al 2010 con la più grande perdita in termini assoluti nelle aree tropicali dell’America Latina,il continente che ha conosciuto le pratiche più sconvolgenti
proprio a causa dell’impatto dell’industria zootecnica.
In Terra Viva, il manifesto realizzato da Navdanya (Nove Semi) International, l’organizzazione fondata da Vandana Shiva per proteggere la biodiversità, in difesa dei contadini e promuovere l’agricoltura biologica, si legge: «Il secolo scorso è stato dominato da un modello uscito dall’industria bellica e incentrato sull’uso di sostanze chimiche e sui combustibili fossili. Tale modello ha distrutto il suolo, sradicato gli agricoltori, generato malattie, creato rifiuti e sprechi a tutti i livelli, compreso quello del 30% del cibo. E’ il principale responsabile della distruzione e della erosione di acqua, terra e biodiversità, ed è la principale fonte di diffusione dei gas serra e della disoccupazione su larga scala. Estrae la fertilità del suolo, il valore creato da contadini ed agricoltori e dalle comunità rurali, e non restituisce niente in cambio. Gli agricoltori sono costretti a spendere più di quanto riescono a guadagnare, usando una forma di energia molto superiore a quella prodotta sotto forma di cibo. Questo ha condotto alla crisi i piccoli coltivatori e contadini, generando debiti e suicidi. L’agricoltura industriale non è più un sistema per produrre cibo, ma un sistema di produzione di merci, nel quale i cereali sono sempre più spesso utilizzati per la produzione di biocarburanti e come mangime per gli animali».
Non è possibile comprendere appieno questo processo se non se ne risale alle cause.
Vale a dire l’imposizione dell’Agricoltura Industriale da parte degli Stati Uniti avvenuta alla fine del secondo conflitto mondiale, a partire dall’adozione del Piano Marshall, che segnò la fine in Europa dell’agricoltura tradizionale e l’introduzione di pratiche totalmente dipendenti dal petrolio e dalla industria chimica, ed arrivare al sistema attuale dove i diritti delle persone vengono sostituiti da quelli delle Multinazionali che possono intentare cause agli Stati così come prevedono i Trattati Transatlantici per il Commercio e gli Investimenti tra L’Unione Europea e gli Usa ( TTIP ).
Come opporsi a tutto ciò?
Possono bastare gli appelli,la raccolta di firme, le mobilitazioni più virtuali che reali, per evitare che diritti e sovranità degli stati siano sacrificati sull’altare delle politiche neoliberiste?
O non bisogna piuttosto interrogarsi sulle nostre scelte quotidiane in tema di cibo ed alimentazione?
Ma forse, ancor prima, bisognerebbe convincersi che la cucina è politica, che questo non è soltanto uno slogan ma la più efficace parola d’ordine per contrastare le menzogne e le manipolazioni che stanno dietro la luccicante facciata dell’Expo e riflettere sul fatto che, come scrive l’insigne studioso dell’antichità greca, arcaica e classica, Marcel Detienne «fin dagli albori della nostra civiltà e per una decina di secoli un rituale che in terra greca aveva a che fare con l’alimentazione perimetrò i confini dell’umano inscrivendosi nel cuore stesso dello spazio politico,ossia nella vita pulsante della polis».
E se «il macellatore-cuoco-sacrificatore stabiliva che, dopo la cremazione delle parti imputrescibili della vittima riservate agli dei e l’arrostitura dei visceri destinata ad officianti e dignitari, le carni bollite dovessero venire equamente distribuite tra i cittadini maschi, unici detentori dei diritti politici, segno stesso della appartenenza alla città egualitaria», parimenti politica era la scelta anche di chi non si riconosceva nell’ordine culinario della polis e aveva dato vita a pratiche alternative.
L’astinenza da cibi carnei propugnata da ambienti orfici e pitagorici non aveva come unica ragione il rispetto per la vita di ogni essere senziente ma «rilevava le coordinate generali della protesta fissando la posizione in rapporto al sistema politico religioso dominante ».
O più opportunamente bisognerebbe ricordare, come acutamente sosteneva il filosofo Massimo Bontempelli, che fu la proposta politica indicata da Pitagora, fondata soltanto apparentemente su un comportamento virtuoso ed individuale ma in realtà aperta a tutta la polis, a far sì che Crotone, per non soggiacere alla dittatura della moneta, alla rete dei commerci e delle importazioni imposte dalla potenza imperiale di Sibari, si ponesse anche l’obiettivo di eliminare l’alimentazione carnea proprio per evitare di importarla da Sibari che, tra allevamenti e pascoli impiantati nella valle del Crati, aveva espropriato da quelle terre i non greci.


L'altra pagina, luglio-agosto 2015

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