E' un vero e proprio
J'accuse l'articolo di Giancarlo
De Cataldo, il giudice-scrittore; scritto alcuni mesi fa è
ancora più attuale oggi. Da leggere. (S.L.L.)
Amanda Knox |
A un cittadino che è
intervenuto sul blog di un noto quotidiano, la nuova legge sulla
responsabilità civile dei magistrati sta bene perché «non voglio
più vedere un processo come quello di Meredith». Il riferimento è
all’omicidio di Meredith Kercher, vicenda per la quale gli imputati
sono stati prima condannati, poi assolti, poi nuovamente condannati
dopo annullamento della Cassazione. Il cittadino esprime il suo
sdegno per decisioni contrastanti, ed è sicuro che con la nuova
legge tutto questo non accadrà più. A tanto sdegno si potrebbe
ovviare, in chiave di stretta logica, con due soluzioni fra loro
alternative: a) vietare la custodia cautelare; b) condannare sempre e
comunque chiunque sia arrestato. Conseguenze paradossali, e contrarie
al più elementare buon senso: i delinquenti pericolosi vanno fermati
e gli innocenti assolti. È ovvio che tutto questo non ha niente a
che vedere con la responsabilità dei magistrati. La giustizia è
fatta di ricorsi, appelli, corti supreme e decisioni fisiologicamente
contrastanti fra loro. L’appello e la Cassazione servono proprio a
questo: a rimediare a potenziali errori di giudizio. È chiaro,
allora, che il cittadino di cui sopra non ha la benché minima idea
di ciò di cui sta parlando.
Il diritto è un campo
vasto, complesso, contraddittorio, talora così sofisticato da
sfidare la razionalità. Se il cittadino è incolpevole, non
altrettanto può dirsi di quanti, disponendo degli adeguati strumenti
tecnici, sono intervenuti, nel tempo, con dichiarazioni tendenziose,
strumentali, menzognere. Si è detto: finalmente una legge sulla
responsabilità civile.
Eppure, ne esisteva già
una, e sin dal 1987. Si è detto: da oggi il giudice che sbaglia
paga, come tutti gli altri cittadini. Eppure, come già accadeva, a
pagare è in prima battuta lo Stato, e contro il magistrato si opera
una rivalsa che già era prevista. Le uniche novità sul punto sono
due: aumenta l’entità del risarcimento e lo Stato è obbligato ad
agire contro il magistrato.
Si è detto: ce lo impone
l’Europa. Eppure, l’Europa si era limitata a chiedere
l’estensione del diritto al risarcimento alle violazioni della
legge europea. Il legislatore italiano è andato ben oltre, e alle
classiche ipotesi di dolo e colpa grave (il giudice corrotto, quello
incapace, distratto, superficiale, negligente) ha aggiunto una
responsabilità per “travisamento del fatto e della prova”.
Chiunque mastichi della materia (e in Parlamento avvocati, giudici e
laureati in legge non mancano) sa che “travisamento del fatto e
della prova” è il classico motivo di ricorso che punta a
invalidare la tenuta logica di una decisione controversa.
Una petizione che suona
come “hai letto male la catena logica degli atti, rileggi e dammi
ragione”. Cioè: cambia la decisione precedente. Giusto ciò che
accade, quotidianamente, nella fisiologia della giustizia: i giudici
interpretano la legge, ed è logico che pervengano a decisioni
difformi. L’interpretazione è da sempre il nodo più controverso
dell’attività giudiziaria. Se le leggi fossero chiare, si sente
ripetere, non ci sarebbe bisogno di interpretarle. I giudici si
limiterebbero ad “applicarle”. Sta di fatto che nei secoli alcuni
provarono a bloccare l’interpretazione, dall’imperatore Adriano
con l’Editto Perpetuo ai rivoluzionari giacobini, per i quali il
giudice doveva essere “bocca della legge”. Bocca, e non cervello.
Gli esiti furono catastrofici. Il diritto non può essere
cristallizzato in formule: vive di interpretazione.
Ma le autentiche vittime,
purtroppo, non saranno i meno di diecimila magistrati italiani, i
quali, dal loro canto, hanno reagito con amarezza, lamentando una
legge punitiva nei loro confronti. Per quanto l’uomo della strada,
il cittadino twittatore, possa non rendersene conto, a pagare il
prezzo più alto sarà proprio lui. Da un lato, è prevedibile che le
sentenze si orienteranno in chiave difensiva, attestandosi sulla
difesa dell’esistente, ultimo baluardo di giudici intimiditi e
gravati da un’organizzazione dei servizi strutturalmente
deficitaria. Un po’ come accade per i medici, terrorizzati dalle
azioni risarcitorie: ti prescrivo un mare di analisi perché “non
si sa mai”. A farne le spese, in ultima analisi, la sanità
pubblica. Dall’altro, la legge sulla responsabilità non va letta
come un fatto isolato, ma è destinata a “fare sistema” con una
serie di altre innovazioni.
Il Jobs Act, per esempio,
che ridisegna la disciplina dei rapporti di lavoro di fatto
ridimensionando il ruolo dei giudici. Giudici estromessi dal
controllo sui licenziamenti disciplinari, possibili quando il datore
di lavoro provi un fatto materiale ancorché incolpevole: sei
arrivato in ritardo perché il tram ha avuto un incidente? Sei fuori.
In cambio, qualche mensilità e l’alternativa di una causa lunga,
con il giudice relegato al ruolo di comparsa.
I fautori del nuovo
accusano i loro detrattori di avere qualche problema con la
modernità. Che le poderose riforme messe in campo faranno ripartire
l’economia e cambieranno l’Italia. Ah, che ci siano profondi
cambiamenti è indubbio. Ma di che segno? La nostra Costituzione
insegna che padrone e lavoratore non sono uguali. Il contratto fra
loro non è un libero incontro di volontà, perché non c’è
libertà vera dove il potere sta da una sola parte. Da qui tutele
rafforzate, da qui lo Statuto dei Lavoratori, ferrovecchio rottamato,
da qui il processo speciale del lavoro. Per capire cos’era un
ambiente di lavoro prima dello Statuto, quando i giudici non
mettevano il becco e i sindacati erano sostanzialmente fuorilegge, si
potrà leggere Storia di chi fugge e di chi resta di Elena
Ferrante. Segnatamente, nella parte in cui il padrone di un
salumificio esercita lo ius primae noctis sulle giovani
operaie. Che non osano ribellarsi perché l’alternativa è una e
una sola: disoccupazione, fame.
E per capire che cosa
significhi un sistema che si regge su giudici conniventi o
intimiditi, assenza del sindacato, strapotere dell’imprenditoria,
si potrà leggere l’ultimo, devastante romanzo di John Grisham, I
segreti di Gray Mountain. A Grey Mountain, laggiù nell’America
profonda, per estrarre il carbone usano una tecnica particolare. Si
chiama strip mining e consiste nello scotennare la montagna
per portare alla luce le vene carbonifere: deturpa il territorio e fa
morire la gente di una terribile malattia nota come “polmone nero”.
Ma la questione non interessa Big Coal, il potente cartello dei
produttori. Big Coal compera i terreni da piccoli proprietari
felicissimi di vendere, perché altrimenti ne ricaverebbero solo guai
e nessun utile. I minatori malati sono licenziati con liquidazioni
irrisorie e se vanno in Tribunale per chiedere i danni, vengono
impietosamente bastonati da corti composte da giudici nominati dal
potere politico ovvero eletti. E siccome le elezioni si vincono con
le campagne elettorali, che costano, quei giudici sono, di fatto,
impiegati di Big Coal. Quanto ai sindacati, riflette amaramente uno
dei personaggi del romanzo, un vecchio minatore morente, «li hanno
fatti fuori vent’anni fa, e da allora nessuno più ci difende».
Ecco il sistema: il top della modernità.
D’altronde, secondo la
Banca Mondiale, la giustizia che funziona è, né più né meno,
quella che dà rapidamente ragione all’impresa: quanto al resto, è
un optional. Democrazia compresa.
L'Espresso, 12 marzo 2015
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