Questo ricordo di Giuseppina Saija detta Pucci, che fu la compagna di
vita di Raniero Panzieri, è stato pubblicato nel sito del Centro
studi Franco Fortini di Siena nel giugno scorso, subito dopo la sua
morte. (S.L.L.)
Raniero Panzieri e Pucci Saija a Palermo (1951) |
Ho incontrato per la
prima volta Pucci Saija Panzieri nel pomeriggio del 24 settembre del
2004, nella sua casa di via Sei Ville, a Torino. Da pochi mesi avevo
cominciato a occuparmi di suo marito, Raniero Panzieri, per una tesi
di dottorato sul rapporto tra intellettuali e Partito socialista.
Avevo 26 anni e Pucci stava per compierne 87. In borsa avevo un
registratore, e l’intenzione di farle un’intervista. L’incontro
prese da subito una piega diversa. Non ho mai registrato le nostre
chiacchierate e abbiamo parlato di Raniero, sì, ma anche di lei e –
soprattutto – di me, delle mie idee, delle mie aspettative, delle
mie preoccupazioni.
Ci siamo incontrate poche
altre volte, prima che la vita mi travolgesse con i suoi cambiamenti,
allontanandomi da Torino e rendendo più difficile andare a trovarla.
Tutte le volte che ho parlato con lei l’ho fatto come avrei potuto
fare con un’amica che conoscevo da molto tempo. Se ripenso a lei
oggi, se cerco un’immagine, una sola, è quella di lei che mi
aspetta sulla tromba delle scale mentre salgo a trovarla, e che dalle
stesse scale mi saluta quando vado via.
Mi piace pensare che
Pucci mi abbia accompagnato molto oltre quel pianerottolo, in un
momento della vita in cui cominciavo a fare le scelte che mi
avrebbero reso la donna che sono oggi. Con la sua forza carica di
serenità («armonia», ha detto la figlia Susanna qualche giorno fa,
al suo funerale) mi ha indicato una direzione possibile, un modello
di femminilità capace di tenere insieme la politica, il lavoro
intellettuale, la famiglia e l’amore, senza bisogno di fare appello
al sacrificio o alla rinuncia di sé.
Pucci Saija è stata la
moglie di Raniero Panzieri, il suo sostegno e il suo interlocutore
privilegiato (basti rileggere le lettere tra i due pubblicate nel
volume Raniero Panzieri, Lettere 1940-1964, a cura di Stefano
Merli e Lucia Dotti, Marsilio, Venezia 1987), e certamente è così
che le piacerebbe essere ricordata. Tuttavia, Pucci è stata anche
una militante appassionata, un’insegnante molto amata e una fine
germanista, traduttrice di testi come Tre novelle di Eduard
Mörike (Utet, 1947), Scritti politici di Martin Lutero (Utet,
1949), Comandante ad Auschwitz di Rudolf Höss (Einaudi,
1958), Breviario di Sören Kierkegaard (Il Saggiatore, 1959,
con Domenico Tarizzo), Hiroshima, il giorno dopo di Robert
Jungk (Einaudi, 1960), Storia del Giappone moderno di William
Gerald Beasley (Einaudi, 1969), Uscire dall’utopia di Ralf
Dahrendorf (Il Mulino, 1971), Critica illuministica e crisi
sociale della civiltà borghese di Reinhart Koselleck (Il Mulino,
1972), Vita nobiliare e cultura europea di Otto Brunner (Il
Mulino, 1972), La società di corte, La società delle
buone maniere e La società degli individui di Norbert
Elias (Il Mulino, 1980, 1982 e 1990). Ha inoltre tradotto, insieme al
marito (pur non comparendo ufficialmente tra i traduttori), i due
volumi del Libro Secondo del Capitale di Karl Marx (Edizioni
Rinascita, 1953).
Quando uscii da casa sua
la prima volta, piena di emozioni, mi fermai su una panchina in via
Villa della Regina e cominciai a trascrivere su un foglio di carta le
informazioni e le sensazioni che mi turbinavano in testa. Tornata a
casa, rielaborai tutto sul computer.
Queste sono le mie parole
di allora.
Torino, 24
settembre 2004
Ore 16,00
Supero il cancello,
chiedo di lei, e arrivo davanti al portone. Pucci è lì, sul
balcone, che aspetta e mi invita a salire. Apre la porta con un
sorriso, di quelli che ti entrano nel cuore, subito, senza diffidenze
o distanze: è un sorriso che riscalda, soprattutto in questo
pomeriggio di pioggia fitta, umido, che annuncia l’eterno autunno
torinese.
La casa – la stessa
nella quale è vissuta con Raniero dal 1959 – è grande e
confortevole. È un po’ buia, a dire il vero. Pucci mi spiega che è
colpa delle piante, che sono cresciute a dismisura, la scorsa
primavera, dopo le piogge. Mi porta sul balcone e mi mostra una
bellissima magnolia, che la fa impazzire perché toglie luce al
salotto. A lei, che già ci vede così poco. È una malattia, mi
spiega, che si chiama “maculopatia” (così le ha detto il suo
amico oculista, che abita nel palazzo di fianco): la sua è una forma
senile, abbastanza diffusa, che l’ha colpita una decina di anni fa.
Non può più leggere, né scrivere. Se scrive in stampatello, dice,
non riesce a non lasciare spazi troppo ampi tra le lettere. Se scrive
in corsivo, la sua grafia è troppo brutta per essere comprensibile.
Mi fa accomodare sul
divano, di fianco a lei. Mi sorride continuamente. I suoi occhi,
tutt’altro che ciechi, sono vivi e giovani. Non è vecchia, Pucci.
È come se la vita le fosse corsa velocemente davanti agli occhi,
accecandola e invecchiandola senza che lei avesse il tempo di
accorgersene. A 87 anni, è ancora una splendida ragazza che ama il
tedesco, il francese, e la musica classica. Davano la Nona di
Beethoven, ieri sera, su Radio3. A lei piace tanto, e avrebbe voluto
ascoltarla. Ma erano le undici di sera, e la Nona va ascoltata
a pieno volume, e non ha voluto disturbare i vicini. Non importa,
l’ha sentita molte volte, negli anni passati, quando ancora andava
a teatro. E incontrava Maria Laura Gardoncini, che ci ha fatto
conoscere: lei seduta nelle prime file, perché già non ci vedeva,
Maria Laura un po’ più indietro, finché ha potuto. Ora è quasi
completamente sorda, e non va più neppure lei. Sono vecchie, e si
devono rassegnare.
Sospira, Pucci, non ha
voglia di parlare. Ha voglia di ascoltare. Ha parlato tanto negli
ultimi mesi: una vecchia compagna dei «Quaderni rossi» le ha
chiesto il permesso di registrarla mentre raccontava la sua vita con
Raniero. In occasione del quarantesimo anniversario della sua morte,
che cadrà il 9 ottobre di quest’anno, alcuni compagni hanno
pensato di pubblicare un contributo collettivo alla sua memoria, e le
hanno proposto di collaborare con loro, per scrivere di Raniero
“uomo”, in famiglia, al di là e oltre la politica. Lei avrebbe
voluto rifiutare, non ne aveva molta voglia, ma a una compagna non ha
saputo dire di no, e poi capisce l’importanza di ricordare,
scrivere, testimoniare. Ma è stanca. Stanca di parlare, stanca di
ricordare. Mi pare di intravedere un luccichio particolare nei suoi
occhi, mentre mi dice questo. Desisto immediatamente dall’idea di
farle troppe domande, e di accendere il registratore.
Raniero è morto nel
1964, ma è come se fosse una ferita fresca, mai rimarginata. Quando
l’ho chiamata al telefono, qualche giorno fa, mi ha accennato: «Gli
anni con mio marito sono stati anni meravigliosi. Peccato siano stati
così pochi. Quando l’ho conosciuto, ho deciso che dovevo essere
sua moglie. Avevamo un’intesa straordinaria, una comunione politica
totale. Dopo essere stata con lui, non ho potuto nemmeno immaginare
di poter stare con un altro uomo».
Si erano conosciuti a
Roma, alla fine degli anni Quaranta. Lei, nata ad Alessandria nel
1917, era cresciuta su e giù per l’Italia, alla rincorsa di un
padre statale non fascista e per questo malvisto e continuamente
trasferito: Sicilia, Sardegna, Toscana… il ginnasio e il liceo li
ha fatti a Gorizia, città che ricorda viva e aperta. Le ragazze
erano molto belle, e libere: ha ancora qualche amica, lassù, che
sente ogni tanto. L’università, invece, l’ha fatta a Torino.
Lingue e letterature straniere. Le sarebbe piaciuto fare storia, ma
erano gli anni del fascismo, e i professori migliori, antifascisti o
ebrei, erano stati allontanati dalle loro cattedre. Ricorda di averne
incontrato uno, per strada, una volta, ebreo (forse Arnaldo
Momigliano), e di averlo salutato. Anni dopo, lui la ringraziò: era
rimasto stupito che, in quei giorni così difficili, una sua allieva
lo salutasse in pubblico. «Pensa – mi dice – per così poco…».
Momigliano era
severissimo, ricorda. Costringeva gli studenti a portare Tucidide ed
Erodoto in greco antico. Era molto giovane, ma molto severo.
Finita l’università,
con una tesi su due frammenti di Hölderlin («Sei pazza?» – le
chiede il suo professore: di Hölderlin non esisteva nulla di
tradotto in italiano e il suo nome non era citato nemmeno nelle
principali antologie della letteratura tedesca), ha vinto una borsa
di studio di due anni presso l’Istituto di Studi Germanici di Villa
Sciarra, a Roma. Una grande fortuna. A Villa Sciarra, per di più, i
professori era quasi tutti antifascisti: Ernesto Sestan di storia,
Giuseppe Gabetti di letteratura tedesca…
Roma era bellissima, e
Pucci ricorda di aver trascorso due anni meravigliosi: ogni mattina,
da piazza Fiume, prendeva la bicicletta e andava sul Gianicolo, dove
si trova Villa Sciarra. Roma le piaceva così tanto che ha deciso di
tornarci al più presto possibile: nel dopoguerra è andata da
qualcuno, al Partito socialista, a Milano, a chiedere se avevano un
lavoro per lei a Roma. Le hanno detto che c’era bisogno di qualcuno
che facesse lo spoglio delle riviste straniere. Allora è partita per
Roma, ma alla sede del Partito non c’era spazio né per lei né per
le riviste: così, l’hanno mandata all’Istituto di studi
socialisti, che Rodolfo Morandi aveva appena aperto. E lì ha
incontrato Raniero, che era collaboratore di Morandi e segretario
dell’Istituto. Nel settembre 1948 si sono sposati, civilmente,
mentre Pucci era già incinta della figlia Susanna (seguiranno, negli
anni successivi, due figli maschi, Davide e Daniele). Raniero era di
famiglia ebrea, Pucci di famiglia cattolica. Entrambi erano tuttavia
atei, e non hanno fatto battezzare i loro figli. Ricorda che Raniero
era completamente estraneo alla comunità ebraica di Roma e solo in
occasione della morte del padre ebbero qualche contatto con dei
parenti praticanti. Durante il fascismo, perché ebreo, Raniero aveva
dovuto studiare all’Università del Vaticano, per poi laurearsi,
dopo la Liberazione, ad Urbino. Lui le raccontava sempre che, durante
l’Università, faceva già attività politica e spesso, per colpa
delle riunioni, tornava in collegio dopo il coprifuoco. Ma i preti,
in fondo, lo tolleravano. Hanno salvato tanti ebrei, in quegli anni.
Pucci ricorda che un
giorno, dopo la guerra, camminando per strada, lei e Raniero hanno
visto un manifesto che invitava i giovani ebrei che durante il
fascismo non avevano fatto il militare ad iscriversi alle classi di
leva: crede di non aver mai visto Raniero ridere così tanto come
davanti a quel manifesto.
Nel 1949 l’Istituto di
studi socialisti chiude, e quel periodo si conclude. Pucci e Raniero
si trovano entrambi senza lavoro. Per fortuna, Raniero incontra
Galvano della Volpe, che lo invita a Messina, alla cattedra di
Filosofia del diritto. Si trasferiscono in Sicilia, dunque, e Raniero
prosegue ed intensifica il suo lavoro politico, stando al fianco dei
braccianti nelle loro battaglie per l’occupazione delle terre.
Pucci ricorda che molti di questi compagni morivano letteralmente di
fame: Raniero, allora, li portava a casa e lei preparava delle grandi
pastasciutte, o più semplicemente patate e burro, come si fa a
Torino. Alcuni compagni siciliani, recentemente, le hanno detto che
questo piatto piemontese è rimasto nelle loro abitudini alimentari,
da allora. La ama molto la Sicilia, Pucci, ne parla con un affetto
straordinario. Soffre nel vederla devastata e misconosciuta. Dice di
aver conosciuto persone straordinarie, compagni e amici che non può
dimenticare, che erano molto vicini a lei e a suo marito.
Mentre Raniero insegnava
filosofia del diritto, anche lei per tre anni è assunta a Messina
come docente di letteratura tedesca, in assenza del docente
incaricato. Poi, però, devono trasferirsi a Palermo.
Pucci ferma il suo
racconto, mi guarda, mi sorride. Vuole sapere un po’ di me, adesso.
Dove vivo, che cosa faccio, che cosa fanno i miei genitori, se ho
fratelli o sorelle. Le rispondo, confusamente come mio solito. Ma mi
sento a mio agio con lei, come se la conoscessi da tempo. E forse, in
fondo, davvero la conosco. Ho letto le sue lettere, conosco suo
marito forse meglio di tante persone che vedo tutti i giorni. Per più
di un anno, quotidianamente, ho letto i suoi scritti e spulciato tra
le sue carte, senza interruzione. Conosco la sua grafia, il suo
stile, le sue manie. So che tardava sempre a rispondere alla
corrispondenza, so dove andava in vacanza, so quali erano i suoi
amici e quali le persone che non gli piacevano. Sarei in grado di
riconoscere un suo scritto da una parola, da una locuzione, dalla
costruzione di una frase.
E adesso sono qui, seduta
nel suo salotto, a parlare con sua moglie, guardando fuori dalla
finestra, come avrà fatto anche lui chissà quante volte. Guardo la
pioggia, quella pioggia che tanto lo deprimeva nei suoi primi mesi a
Torino, come scriveva agli amici. Il trasferimento da Roma è stato
un dolore per tutti, mi dice Pucci, soprattutto per Raniero. Uno dei
suoi figli, a scuola, una volta, dovendo scrivere un tema sulla
chiesa della Gran Madre, scrisse: «La Gran Madre di Torino non ha
niente a che vedere con il Pantheon di Roma». Si capisce. Come
negarlo?
Si alza, mi fa vedere
delle foto. Non le riconosce, in effetti. Una è un ingrandimento
della famosa foto di lei e Raniero davanti ai cancelli della Fiat.
Raniero ha dei volantini in mano, e sembra in procinto di andare via.
«Erano le sei del mattino», mi ricorda. Si andava all’alba,
davanti alle fabbriche, quando gli operai entravano per il turno
diurno.
In un’altra ci sono
loro due, giovanissimi, con una signora. In camera, più tardi, vedrò
la loro prima foto insieme, e una foto scattata al matrimonio di
Bianca Beccalli. Il fotografo aveva scambiato Pucci per la sposa,
perché era vestita di bianco. Li trovo bellissimi. Lui, alto,
elegante, magnetico. Lei, bellissima, «una delle donne più belle
che abbia mai visto», come mi ha detto Maria Laura Gardoncini.
Mi chiede se voglio un
tè, e ci spostiamo in cucina.
Si muove con sicurezza,
nel suo buio, Pucci. Anche se per quella civetteria tipica degli
anziani dice di barcollare e sbandare un po’. La cucina è
semplice, quasi demodé. Una finestra è aperta sulla collina, e
sulla nebbia che ormai avvolge il circondario.
Accende il gas, cerca i
biscotti, tira fuori due bellissime tazze da nonna. Racconta,
intanto. Parla di Nenni, che in fondo considera un brav’uomo,
nonostante Raniero sia stato sempre mal visto all’interno del
Partito. E di Basso, che era una persona fredda e antipatica. E di
Giovanni Pirelli, che ha fatto quella fine così orribile, morto
bruciato…
Le chiedo di Fortini, non
resisto. «Franco era un uomo strano», mi dice. Veniva qui, cenava e
poi stavano ore, con Raniero, a discutere, anche molto animatamente.
Lei, ad un certo punto, se ne andava a dormire, e li lasciava da
soli. A volte, quando smettevano di parlare, era così tardi che
Fortini doveva fermarsi a dormire da loro. Erano grandi uomini,
quelli. Anche a Roma, hanno avuto la fortuna di conoscere Bassani,
Pasolini, e molti altri artisti… Primo Levi, poi, a Torino, che era
un uomo dolcissimo. E Calvino, così strano, a cui lei una volta
regalò un elaborato sul Barone rampante fatto dai suoi
allievi. Ne aveva tre copie, e fu costretta a dare via anche la sua:
la vollero anche Bobbio ed Einaudi, presenti alla cena. Avevano
scritto che il senso del libro era la «ricerca della libertà»,
dice fiera. È certamente stata un’insegnate meravigliosa, e molto
amata.
Le parlo della mia
ricerca, degli archivi che sto consultando: appena faccio cenno a
Siena, mi parla di Luca Baranelli, e mi dice che lo devo
assolutamente conoscere. Lui e sua moglie Fiamma sono persone
deliziose, degli amici preziosi.
Il licenziamento di
Raniero dalla casa editrice Einaudi del 1963 è un argomento
particolarmente doloroso, me ne rendo conto. Non c’è più rancore,
ma c’è un rifiuto a comprendere immutato nel tempo. L’hanno
licenziato (insieme a Renato Solmi) per motivi politici, con il
pretesto della discussione sul libro di Fofi. Quando è arrivata la
lettera, Raniero era a Roma; quando è tornato, è stata Pucci a
comunicarglielo. L’anno seguente è stato un anno terribile, di cui
non ama parlare, dice: meno male che aveva qualche traduzione da
fare. Letteralmente, quando Raniero è morto, non aveva di che
pagargli il funerale. Sono venuti tanti compagni a trovarlo, quel 9
ottobre. C’erano tutti. È venuto anche Giulio Einaudi, con le
lacrime agli occhi. Lei non avrebbe voluto aprirgli, ma poi, che
vuoi, l’ha fatto lo stesso.
Prendiamo il tè, e Pucci
fuma una sigaretta. Le faccio compagnia. Il medico le ha detto che
dovrebbe smettere ma lei, ad 87 anni, non ci pensa nemmeno. Ha un po’
diminuito, ma non riesce a stare al di sotto delle dieci sigarette al
giorno: che le importa, in fondo?
Mi descrive gli anni di
lavoro all’Istituto di studi socialisti: ci tiene a raccontarmi che
solo allora la “iniziarono” al caffè, che non aveva mai bevuto.
Lì, i compagni e le compagne lo bevevano continuamente, e anche lei
ha preso il vizio. Mi dice di Rodolfo Morandi, che era un uomo
grande, intenso, l’unico per il quale abbia mai visto piangere
Raniero, quando è morto. È morto a causa di una setticemia seguita
a un’operazione all’intestino, improvvisamente. Le dico di aver
letto nel diario di Gianni Bosio che Panzieri era uno dei pochi che
Morandi aveva voluto vedere nelle ultime ore della sua vita,
raccomandandogli di tenere d’occhio Nenni. Pucci aggiunge che gli
chiese: «Abbiamo fatto bene a fare tutte le cose che abbiamo
fatto?». E Raniero gli rispose di sì.
Nello stesso periodo,
Pucci ha lavorato anche nella redazione di «Noi Donne», con altre
compagne. Per aiutarmi a capire il clima del periodo, mi racconta di
come, una volta, dovendo scrivere la didascalia di una foto che
rappresentava un bambino che si era salvato per un pelo
dall’investimento di un tram, Pucci scrisse «salvato
miracolosamente». Qualche ora dopo, Nilde Iotti e Rosetta Longo la
rimproverano, dicendole: «Noi siamo atei, e il comunismo rifiuta i
miracoli!». Lei andò su, dagli altri, e fece ridere le sue
colleghe. Erano così, certi “capoccia”.
Mi chiede ancora di me,
mentre aspira la sigaretta, fino al fondo, fino al filtro, come una
ragazzina. Chiede di Pisa, come mi trovo, se è sempre bella come se
la ricorda…
Mi dice di non desistere,
di fare quello che amo. Di tenere duro, di provare fino in fondo.
Anche suo nipote Francesco, che ha solo sedici anni, ama la storia,
ed è lo “storico” della famiglia. Suo fratello maggiore, Jacopo,
quando ha qualche dubbio sull’argomento, si fa aiutare da lui. Lui,
invece, ha finito adesso il liceo, e si è iscritto a fisica. Quando
l’ha saputo, Pucci avrebbe voluto scrivere a Margherita Hack, che
sente spesso parlare alla radio e trova una donna molto intelligente…
ma poi si è detta: perché dovrei scriverle? Che cosa dovrei
chiederle?
Li ama molto i suoi
nipoti, Pucci. Questo aneddoto lo dimostra, in tutta la sua
semplicità. Ne parla con amore, e con ammirazione: sono tutti bravi,
tutti “speciali”, soprattutto Francesco, che legge tanto, divora
i libri, come quest’estate, che ha letto la Storia di Roma di
Tacito.
Si fa buio, su Torino.
Piove sempre più forte, e siamo avvolte in un tempo quasi surreale,
come se fossimo fuori dal mondo. «Mica mi starai dando del lei?»,
mi chiede, offesa. Con uno sforzo, cerco da quel momento in poi di
darle del tu. Sento che per lei è importante, naturale.
Mi porta nella sua camera
da letto, mi mostra i libri di Raniero, e il lato del letto in cui
dormiva. «Raniero dormiva di qua, e io dormo ancora dall’altra
parte», dice, carezzando il copriletto. Ci sono i «Quaderni rossi»,
le raccolte degli scritti di Raniero, il volume delle sue lettere:
dice che le dispiace di avere solo una copia dei «Quaderni rossi»,
di non averne conservate altre… so che me le regalerebbe, se le
avesse. Sono cose che si capiscono al volo, in una persona. La
generosità, per lei, non è nemmeno una virtù: è un qualcosa di
connaturato, di spontaneo, di irrinunciabile.
È arrivato il momento
che vada, sono le sei, e non la voglio stancare. Mi porta sul
balcone, si vedono i Cappuccini, dietro la nebbia, come in un sogno,
e la Mole, e la collina. Fuma un’altra sigaretta, e parla ancora di
Raniero. Di come tutti gli volessero bene, soprattutto i giovani
compagni dei «Quaderni rossi». Ancora oggi lo ricordano come se
fosse ancora vivo. Raniero è stato tanto per Torino, a volte se ne
rende conto. Una volta, davanti alla scuola di uno dei suoi figli,
mentre facevano il servizio d’ordine per controllare che non
venissero picchiati dai fascisti (negli anni Sessanta), una signora,
sentendo il suo cognome, le manifestò tutta la stima e l’ammirazione
che aveva per lui, e lei quasi se ne stupì.
Sospira, e fuma un’altra
sigaretta. Mi ringrazia di essere venuta a trovarla: «Altrimenti,
dice, non avrei mai saputo della tua esistenza». Mi ringrazia,
perché parlare con i giovani le riempie il cuore e perché sente che
fra noi c’è un’intesa, qualcosa di profondo, che si sente a
pelle. Una «visione delle cose», dice, «delle idee».
Ora devo proprio andare,
anche se non vorrei farlo. La ringrazio, le dico che è stata una
cosa che non dimenticherò mai. Ma le prometto che tornerò a
trovarla, quando verrò a Torino da Pisa.
Mi addolora non poterle
scrivere. Mi addolora uscire da quella porta, e sapere che non potrò
tornare domani. Anche se lei ne sarebbe felice. Ma sento che è nato
un legame, un qualcosa, un’amicizia.
Mi avvio a tornare a
casa. Sulla porta, mi aggiusta il colletto della camicia, e mi
abbraccia. Esce sul pianerottolo e mi parla ancora mentre scendo le
scale. È un’emozione fortissima, che mi scuote.
Per fortuna, prima di
arrivare nel traffico della città, devo camminare un po’ qui,
oltre Po, e attraversare il fiume. Piove, e fa freddo. Penso
velocissimamente, mi fermo su una panchina e scrivo, sperando di
dimenticare il meno possibile.
Dal sito “L'ospite
ingrato” del Centro Studi Franco Fortini, 19 giugno 2015
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