Sara Simeoni, chi è
stato per lei Pietro Mennea?
«Io e Pietro si può
dire che siamo cresciuti insieme. Ci siamo conosciuti ad una edizione
dei campionati giovanili, a Parigi, eravamo. Abbiamo condiviso la
solitudine della pista, ci facevamo forza a vicenda. Con lui se ne è
andato un pezzo della mia vita».
In fondo, insieme
avete trasformato non solo l’atletica, ma tutto lo sport italiano.
«Sì. Anche in passato
c’erano stati campioni importanti, ma noi abbiamo segnato
indubbiamente un cambiamento. I suoi risultati non c’è bisogno di
ricordarli; con i miei ho contribuito, credo, a rendere più popolare
lo sport femminile».
Che uomo era?
«Simpatico, ma anche un
po’ chiuso in se stesso. Ci si trovava dal massaggiatore, finito
l’allenamento, ed era brillante, socievole. Poi però se ne stava
molto sulle sue, non sprecava molte parole».
E come atleta?
«Non era certo bello da
vedere come Carl Lewis, o come oggi Usain Bolt. Ma aveva una
determinazione enorme, feroce, che gli consentiva di raggiungere
traguardi eccezionali. Gli dispiaceva andarsene dalla pista dopo gli
allenamenti: aveva sempre il dubbio di non aver fatto abbastanza».
A Mosca toccaste il
vertice insieme.
«Sì, furono le nostre
Olimpiadi. Dopo anni di fatiche, il coronamento di una carriera. A
quei tempi non c’erano tante occasioni: le Olimpiadi, gli Europei,
i mondiali. Per fortuna quei due ori non ce li facemmo scappare».
Come li
festeggiaste?
«Allora non c’era
tanto bisogno di celebrazioni. Era un’atletica diversa, non sempre
sotto i riflettori come accade oggi. Io e Piero non gareggiavamo
insieme, in pista non ci incontravamo sempre. Lui non si faceva
vedere tanto in giro, ognuno si concentrava per conto suo. La cosa
più bella fu forse ascoltare due volte Fratelli d’Italia:
prima non si sentiva mai, invece servì a rompere la monotonia dei
soliti inni che dominavano ai Giochi».
Oggi l’atletica
italiana sembra rinascere: fra i giovani vede dei nuovi Mennea, delle
nuove Simeoni?
«Vedo che giovani di
oggi hanno tanta voglia di fare, di emergere, ed è una fortuna. Io e
Pietro vivemmo anche in un momento magico, nel quale dirigenti e
atleti si spronavano a vicenda. Basti ricordare uno come Nebbiolo,
che aveva sempre un’idea, una trovata. “Dobbiamo essere come il
calcio”, ripeteva».
Né lei né Mennea
avete avuto una grande carriera dirigenziale: come mai?
«I nostri risultati
forse facevano ombra a qualcuno».
Mennea affrontò
anche il doping alla sua maniera, con una provocazione.
«Il doping è una
malattia che c’è sempre stata. Pietro aveva capito che stava
diventando sempre più estesa e grave. E’ una lotta difficile, chi
bara lo fa in maniera sempre più sofisticata».
Che cosa resterà
di Mennea?
«Spero l’esempio. La
sua grinta, la sua fatica. Il fatto di non arrendersi nei momenti
difficili, di reagire e tornare in fretta anche dopo un infortunio.
Non tutti possono diventare campioni, ma con la volontà si può dare
il meglio di se stessi. In fondo è la vera lezione dello sport».
Dal blog “Curiosi di
sport”, 22 marzo 2013
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