Federico Halbherr |
È il 9
giugno 1899. L’acqua dell’Egeo splende sotto il sole del mattino.
Un’accoglienza calda quanto il clima attende Federico Halbherr al
suo ingresso nel porto di La Canea: è la prima volta che il grande
epigrafista sbarca a Creta nella veste ufficiale di capo della
Missione Archeologica Italiana, dopo avervi compiuto per quindici
anni esplorazioni e scavi da indipendente. Anche se bastano le dita
di una mano a contare i componenti della spedizione (con Halbherr, ci
sono lo storico Gaetano De Sanctis e l’archeologo Luigi Savignoni
cui si aggiungerà il venetista Giuseppe Gerola), la creazione della
Missione è un momento di gioia e di gloria nella storia
dell’archeologia italiana. Più di ogni altra cosa però, è il
risultato - e il giusto riconoscimento - dell’instancabile attività
di ricerca del Kyrios Phederikos («Signor Federico», così i
cretesi chiamano Halbherr), il gentiluomo esploratore, uno dei
personaggi più singolari e affascinanti della composita élite
europea residente nelle città della Creta settentrionale, che ha
girato tutta l’isola, come scrive Gaetano De Sanctis,
«acquistandovi una popolarità quasi leggendaria, sicché si parlava
di lui, delle sue cavalcate, delle sue scoperte, dai contadini
dell’interno cretese con ammirazione sconfinata, e al nome di
Phederikos si aprivano tutte le porte».
È già dal 1884,
infatti, che Halbherr attraversa Creta a cavallo in lungo e in largo
perché il suo maestro, Domenico Comparetti (grecista, latinista,
fennologo, studioso di tradizioni popolari), avendo compreso
l’importanza degli studi epigrafici per la storia delle civiltà
classiche, lo ha spinto a compiere un viaggio alla ricerca di
iscrizioni prima nelle Cicladi e poi a Creta; approdato nella più
grande e misteriosa delle isole greche, il giovane allievo, dotato di
un intuito geniale e aiutato da un pizzico di «fortuna del
principiante», ha scoperto quasi subito la «regina delle iscrizione
greche»: l’epigrafe di Gortina.
Un muro intero recante
inciso un codice giuridico del V. sec. a.C., un testo di eccezionale
importanza per lo studio della civiltà greca, non solo dal punto di
vista giuridico, ma anche da quello linguistico e antiquario. Quando
Halbherr si imbatte nell’epigrafe, questa gli appare come un orlo
di muro sporgente dal letto di un canale: lo studioso passa ore e ore
con le gambe immerse a metà nell’acqua a pulire e copiare il
testo, gran parte del quale, però, è ancora sepolta. Informato
subito Comparetti del ritrovamento fortunoso e straordinario, decide
insieme a lui che deve assolutamente trovare il modo di restare a
Creta. Nel 1885 accetta così l'incarico, affidatogli dal Sillogo
Culturale di Iraklion, di scavare l’Antro Ideo, la grotta sul monte
Ida che secondo il mito era stata la culla di Zeus neonato;
l’assunzione di tale impegno non è che il mezzo per potersi
dedicare a ciò che davvero gli preme: l’iscrizione di Gortina.
Ad essa continua a
lavorare pur se tra molte difficoltà, prima tra tutte l'ostilità
dei proprietari del campo dove sorge il muro iscritto che, stanchi
delle «invasioni» dell’italiano, arrivano anche ad aprire la
chiusa del canale mentre egli sta proseguendo la copiatura del testo:
solo le braccia robuste del suo attendente cretese, Manolis Iliakis,
sportosi dalla sponda a sollevarlo, impediscono che sia travolto
dall’erompere delle acque. Ma la passione per la ricerca è più
forte della corrente di un canale. Non ottenendo dalle autorità
cretesi l’esproprio del terreno, riesce però a convincere i
proprietari a venderlo e lo acquista grazie ad un finanziamento
privato del generoso Comparetti. Così può procedere allo scavo di
Gortina, dove ritrova anche un tempio dedicato ad Apollo Pizio, e termina di
portare allo scoperto la «Grande Iscrizione» (8,71 m. di lunghezza
per 1,705 di altezza) di cui cede l’onore della pubblicazione al
maestro.
Uno dei blocchi dell'epigrafe di Gortina. Contiene una legge. |
Del tutto alieno dalla
lotta per il prestigio accademico, Halbherr offre la pubblicazione
dei bronzi rinvenuti nell’Antro Ideo al collega Paolo Orsi; sembra
che egli senta quanto ancora ci sia a Creta da portare alla luce e
che solo questo gli importi: esplorare e trovare, godere l’incognita
della ricerca e l’appagante conferma della scoperta. È un caso
unico tra gli studiosi. Grazie alla straordinaria portata dei suoi
ritrovamenti epigrafici (oltre a quella di Gortina, ha individuato
più di 160 altre iscrizioni disseminate per l’isola), l’università
di Roma nel 1889 istituisce una cattedra di Epigrafica Greca e gliela
affida.
Nonostante il nuovo
impegno accademico, l’esploratore non abbandona Creta; l’isola è
vastissima e quasi del tutto sconosciuta dal punto di vista
archeologico; il lavoro da fare è enorme. Egli continua a recarvisi
quasi ogni anno, anche se con una sospensione forzata tra il 1889 e
il 1892: in quel periodo, infatti, Creta diventa quasi inaccessibile
per via dei disordini civili provocati dall’odio secolare dei
cretesi verso i dominatori turchi. Ristabilita una relativa calma,
Halbherr può tornare a riprendere i lavori grazie ad un
finanziamento dell’Archelogical Institute of America, consapevole
di non essere un archeologo in senso stretto, chiama a sé i giovani
nomi emergenti dalla Regia Scuola Nazionale di Archeologia di Roma
(Lucio Mariani, Luigi Savignoni, Antonio Taramelli, tra gli altri),
con i quali inizia un’indagine archeologica dell’isola che porta
alla individuazione del sito del palazzo minoico di Festòs. Nel 1897
nuovi tumulti costringono il gruppo di Halbherr a un abbandono
precipitoso dei lavori e di Creta stessa, ma gli sviluppi della
rivolta imprevedibilmente facilitano la posizione degli italiani
nell’isola e creano le basi politiche per la costituzione della
Missione Archeologica Italiana di Creta: l'Italia, infatti, fa parte
della coalizione europea che interviene sul fronte cretese del
conflitto greco-turco e che decreta l’indipendenza di Creta
dall’impero ottomano.
Così gli italiani,
sentiti dai cretesi come i liberatori dal dominio turco, nel giugno
1899 sono ricevuti con tutti gli onori sia dalla popolazione che
dalle autorità: il principe Giorgio di Grecia, reggente di Creta per
conto della coalizione europea, riceve i componenti della Missione il
giorno dopo il loro arrivo a La Canea e dà ad Halbherr la
concessione di scavo, oltre che per Gortina e Festòs, anche per
Priniàs e Axos, e lo autorizza a compiere saggi nei luoghi che
ritiene archeologicamente interessanti, purché non assegnati già ad
altre missioni. Con la ratifica ufficiale e l’insediamento stabile,
i lavori della Missione Italiana si organizzano e si dà inizio ai
primi scavi sistematici, a cominciare da Gortina - che si è rivelata
essere una vera e propria città - e dall’ultimo promettente sito
identificato, quello del palazzo di Festòs. Dal 1900, Halbherr
inizia a portarlo alla luce con l’aiuto di Luigi Pemier, brillante
allievo della Scuola di Roma, nonostante siano subito evidenti
l’entità dello scavo e l’importanza del palazzo, la Missione,
però, viene presto a soffrire della mancanza di fondi che tormenta
gli istituti pubblici italiani. Tale mancanza risalta in modo più
stridente al confronto con i mezzi di cui dispongono invece gli
inglesi che scavano in grande stile a Cnosso, in contemporanea - e in
concorrenza - con gli italiani.
Il baronetto Arthur
Evans, oltre ad essersi assicurato la concessione di scavo per le
zone più importanti della Creta centrale e orientale, ha comprato
l’acropoli dove sorgono i resti del palazzo di Cnosso per 11.000
sterline, ed ha alle sue dipendenze un centinaio di operai cretesi
nonché quaranta esperti inglesi. Anche gli Americani, non sono da
meno: la fondatrice della loro missione, Harriett Boyd, la
«pasionaria» dell’archeologia, prima donna al mondo a dirigere
uno scavo, nel 1901, per i lavori a Goumià assume oltre novanta
operai, più una decina di ragazze solo per lavare le ceramiche. Il
Kyrios Phederikos è solo. Dopo gli esordi quasi trionfali del primo
anno, deve continuamente sollecitare da Roma l’invio di
finanziamenti e di collaboratori, ottenendo, quando va bene, qualche
migliaio di lire e il ritorno di Pemier, e può permettersi di
assumere al massimo una decina di operai. Ad ogni necessità della
Missione provvede sempre lui personalmente: è lui che acquista tutto
l’occorrente, a Roma come a Candia, dalla carta da disegno allo
squadro per i rilievi, dai lettini da campo alle coperte, alle tende.
E, senza alcuna sovvenzione, talvolta affiancato dal solo Perrier,
riprende la via, avventurosa al limite del pericolo, delle cavalcate
attraverso l’aspra Creta dell’interno «a cercare un altro luogo
dove metter la zappa in terra», come scrive nelle lettere a
Comparetti. Ma è in una di queste spedizioni solitarie che scopre,
non lontano da Festòs, le rovine di un altro palazzo più piccolo,
la cosiddetta villa di Haghia Triada, dove dal 1902 inizia gli scavi
e trova reperti meravigliosi, tra cui il famosissimo sarcofago
dipinto, uno degli esempi più alti dell’arte pittorica minoica.
Una foto ricordo degli scavi a Festòs (1909) |
Per tutto il primo
decennio del ’900, anche se con il problema costante della
precarietà economica, i lavori della Missione proseguono intensi e
fruttuosi sia a Haighia Triada che a Festòs; qui il palazzo che
viene portato alla luce, si rivela grandioso quanto quello di Cnosso
e restituisce splendidi manufatti tra cui il particolarissimo disco
d’argilla inciso, detto appunto «disco di Festòs», i cui
pittogrammi costituiscono ancora adesso imo degli enigmi più
affascinanti per gli studiosi. Anche a Priniàs, dove la terra smossa
dalle arature rivelava da tempo iscrizioni greche, nel 1906 si
comincia a scavare e si scopre un tempio ellenico arcaico.
Nel 1909, esattamente
dieci anni dopo la creazione della Missione, ancora grazie all’opera
di Halbherr, viene fondata la Scuola Archeologica Italiana di Atene:
da questo momento in avanti, i lavori della Missione di Creta si
legano alle iniziative della Scuola di Atene (il primo direttore è
Luigi Pemier) e gli scavi cretesi diventano ad un tempo l’attività
primaria della Scuola e la palestra per i suoi giovani allievi. Dopo
tanti risultati, ottenuti con generoso impegno e pochissimi mezzi, il
Kyrios Phederikos,
comunque, non riposa: continua a dedicarsi alla Missione e alla gente
di Creta (non avendo avuto figli, nel 1920 adotta una ragazzina
cretese del villaggio vicino a Gortina) ed ogni estate è nell’isola
per le campagne di scavo, anche dopo aver compiuto da tempo i
settant’anni, fino alla sua morte nel 1930. Di fronte ad una figura
così importante e piena di fascino, stupisce l’oblio che
l’avvolge: molti tra gli stessi esperti di antichità classiche
ignorano il nome di Halbherr, mentre quello di Evans è familiare
anche agli studenti di liceo nei cui libri è citato come lo
scopritore dell’arte minoica. Eppure proprio Evans non ha esitato a
restaurare il palazzo di Cnosso con ricostruzioni arbitrarie per
offrire all’occhio del visitatore una visione scenografica da
kolossal holliwoodiano, mentre Halbherr ha lasciato il palazzo di
Festòs tale e quale lo veniva scoprendo, limitandosi ad un restauro
solo conservativo, sì che la nuda bellezza di Festòs risplende oggi
intatta sulla collina che domina la pianina della Messarà.
il manifesto, venerdì 2
luglio 1999
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