Autore di pionieristici
studi sul ruolo della Gestapo nella società tedesca durante il Terzo
Reich, Gellately prosegue e amplia il suo percorso di ricerca
finalizzato a valutare le dimensioni e la qualità del consenso della
popolazione tedesca verso il regime. Il suo nuovo libro (Robert
Gellately Il popolo di Hitler, Longanesi,
Milano 2002) si apre con la recisa affermazione che il regime
perseguì in primo luogo il consenso della popolazione, oltre e più
che la repressione del dissenso; e - secondo l’autore - tale
risultato venne largamente raggiunto. Si trattò di un consenso
“fluido piuttosto che solido, attivo piuttosto che passivo,
diversamente articolato a seconda del contesto e delle questioni in
gioco, e costantemente in fieri”. La prospettiva di analisi rompe
con uno degli assunti principali delle teorie del totalitarismo,
secondo le quali le dittature riuscirono a mantenere la coesione
sociale attraverso massicce dosi di repressione - l’uso del terrore
- e di manipolazione.
Robert Gellately |
Certo, Gellately non
disconosce l’incidenza di questi fattori, ma mette in primo piano
la consonanza fra regime e popolazione su molte questioni. Una
consonanza cementata nella primissima fase dai successi conseguiti
sul terreno economico: l’eliminazione della disoccupazione di
massa, percepita fra il 1930 e il 1933 come una enorme piaga sociale,
aprì a Hitler un credito da parte della gente. Gellately dimostra il
suo assunto servendosi - con piena padronanza - di fonti
archivistiche provenienti da varie regioni del Reich e
prevalentemente di origine poliziesca. Ma qui, più che alla Gestapo,
l’autore dedica la sua attenzione alla Kripo, la polizia criminale,
di cui dimostra la consonanza con il sentire della gente: i
provvedimenti per assicurare l’ordine e la legalità dopo il
caotico triennio 1930-1933 ottennero un largo consenso da parte della
popolazione, così come i molteplici interventi discriminatori ai
danni di tutte le categorie di marginali, dai sinti e rom agli
omosessuali, dai giovani appassionati di musica jazz agli ebrei.
La grande maggioranza
della popolazione era attratta dalla promessa di realizzare una
“società libera dai conflitti”. Per raggiungere tale obiettivo
si era disposti a rinunciare alle garanzie dello stato di diritto.
Non solo; ampliando la portata della sua precedente analisi sulla
delazione, Gellately dimostra quanto fosse diffusa fra la gente la
disponibilità a collaborare con gli organi di polizia, ben sapendo
che questi ultimi operavano con procedure straordinarie. La
collaborazione attiva della gente divenne tanto più necessaria dopo
lo scoppio della guerra, allorché i corpi di polizia sul suolo del
Reich dovettero essere sguarniti per controllare i territori
occupati.
Gellately mette in luce
il radicalizzarsi dello stato poliziesco negli anni della guerra,
parallelamente al consolidarsi della collaborazione di molti
tedeschi, spinti - nel compiere il loro dovere di cittadini delatori
- da molteplici motivi, solo parzialmente riconducibili
all’ideologia. Un punto cruciale dell’analisi di Gellately è
quello della pubblicità delle azioni repressive del regime. A
differenza di quanto si è portati a credere (suffragati dalla
storiografia), i provvedimenti coercitivi, come l’istituzione di
campi, i processi e le esecuzioni capitali comminati dai famigerati
Tribunali del popolo, non erano tenuti segreti alla gente, ma
ampiamente divulgati. Lo stesso vale per la politica antiebraica, che
si svolgeva alla luce del sole, almeno fino alla fase finale dello
sterminio. Anche se la vera e propria operazione di eutanasia venne
messa in atto nel segreto, il suo contesto ideologico aveva avuto una
larga divulgazione, con decine di migliaia di assemblee pubbliche;
divenne anche oggetto di insegnamento nelle scuole. A questo
proposito, Gellately avanza la tesi secondo la quale l’operazione
di eutanasia non sarebbe stata bloccata dalle reazioni negative del
clero cattolico e di settori dell’opinione pubblica; semplicemente,
essa avrebbe raggiunto il suo scopo, fissato dallo stesso Hitler:
70.000 persone dovevano essere eliminate e 70.000 furono
effettivamente le vittime.
Al di là della dubbia
validità di quest’ultima affermazione, che Gellately non suffraga
con prove indiscutibili, lo storico americano è invece in grado di
dimostrare efficacemente l’interazione fra azioni repressive e
discriminatorie del regime e reazione della gente. I
nazionalsocialisti non operavano assecondando ciecamente i propri
principi ideologici, ma tenevano conto delle reazioni della gente.
Questa interazione sfociò in una radicalizzazione, nel corso della
guerra: il trattamento delle popolazioni nei territori occupati, e
dei lavoratori coatti, soprattutto orientali, fu anche l’effetto di
una larga collaborazione fra autorità e “tedeschi comuni”.
Capovolgendo tesi largamente diffuse nella storiografia, secondo le
quali i cittadini si dimostravano tolleranti nei confronti dei
lavoratori coatti, anche perché (soprattutto nelle campagne) il loro
lavoro era essenziale, Gellately dimostra l’entità della
collaborazione fornita alle politiche repressive e oppressive del
regime; e conclude: “Quest’atmosfera delatoria avvolgeva l’intero
paese”.
Nella fase conclusiva
della guerra, a partire dal tardo autunno del 1944, quando divenne
evidente che la guerra era persa, si scatenò un’orgia di violenze
contro gli stessi tedeschi, intesa a
punire qualsiasi tentennamento.
Gellately
offre una serie di elementi nuovi su questa fase, poco studiata dalla
storiografia, evidenziando come, accanto a un crescente “tirarsi
indietro” da parte della gente, non siano mancati casi di piena
collaborazione. Considerato che le sorti belliche erano ormai
segnate, ciò dimostra ulteriormente gli assunti del lavoro di
Gellately. “Tirando le somme, una maggioranza della popolazione
sembrava disposta a convivere con l’idea di una società posta
sotto sorveglianza”. Le stesse pratiche repressive attuate dal
regime, infatti, conquistarono ben più consensi di quanto abbiano
invece contribuito a nutrire distacco e opposizione. In conclusione,
il libro di Gellately offre una prospettiva di analisi e di
interpretazione largamente innovativa, che, pur non essendo sempre
pienamente corredata da adeguati riscontri, apre nuove piste di
ricerca in merito al nodo cruciale del consenso e —
conseguentemente - ripropone in termini nuovi la questione della
“colpa collettiva” del popolo tedesco.
“L'Indice”, dicembre 2002
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