La leggenda popolare del
bandito Salvatore Giuliano ha percorso la storia della Sicilia quasi
per un cinquantennio.
Per dissolversi almeno in
parte, sono state necessarie le aperture di alcuni archivi americani
e italiani e la desecretazione - da parte del Parlamento - delle
carte che riguardavano la strage di Portella della Ginestra del primo
maggio 1947, in cui vennero uccisi undici siciliani, tra braccianti e
bambini, che festeggiavano il lavoro e la vittoria della sinistra
nelle elezioni regionali del 15 aprile appena trascorso.
Così oggi si può
finalmente dire che il bandito Giuliano, prima del 2 settembre 1943,
data in cui uccise durante un controllo di legge il carabiniere
Antonio Mancino, era stato soltanto uno dei piccoli contrabbandieri
dell’isola non in regola con la legge che, negli anni di guerra, si
arrangiava con piccoli traffici per sopravvivere.
Ma da quel giorno
incominciò ad uccidere (il 24 dicembre 1943 avrebbe fatto fuoco con
il mitra un altro carabiniere che voleva arrestarlo) e poi a formare
una banda che da Montelepre si muoveva per razziare e devastare in
giro per tutta la Sicilia occidentale.
Tra il 1945 e il 1947 si
svolse in Sicilia uno scontro accanito tra un’anima democratica che
era riuscita persino a instaurare alcune repubbliche popolari e
un’anima arcaica e reazionaria che era ostile a ogni riforma
agraria e si alleava con la mafia per difendere lo statu quo.
Giuliano si rese conto
del grande gioco politico che si svolgeva nell’isola e, venendo da
una formazione maturata nel regime fascista, si legò ai separatisti
di Finocchiaro Aprile e al sogno di unire la Sicilia agli Stati Uniti
come 49mo stato di quella grande democrazia.
Venne accolto con tutti
gli onori in quella effimera forza politica che aveva legami forti
con l’associazione mafiosa siciliana.
E basta leggere le
lettere che Giuliano scriveva al presidente Truman e al giornalista
Mike Stern che era venuto nell’isola per intervistarlo per rendersi
conto delle sue ambizioni politiche.
Al comando militare
americano il bandito scriveva una lettera significativa sulle sue
intenzioni e sulla lotta che intendeva condurre. «Giorni or sono ho
mandato un giovane per informarvi della mia effettiva posizione, la
quale al ritorno mi ha informato di qualche cosa ma nulla di
concreto: non credete che io sia quel tale bandito che il governo
italiano naturalmente dovrà chiamarmi e mi credetti tali di poter
lottare anch’io quei vili rossi, vi prego di venire qualcuno a
prendere qualche appunto in Sicilia che io stesso le illustrerò».
E, in un’altra lettera
di quel periodo, parla del ministro dell’Interno Mario Scelba:
«Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo di
fargli gravare grande responsabilità che gli possono distruggere
tutta la sua carriera politica e financo la vita. Ho aiutato la
democrazia perché la riconoscevo come la democrazia delle altre
nazioni. I monarchici li ho aiutati per obblighi personali e non per
idea politica».
Nei sette anni in cui
scorrazza in tutta l’isola con la sua banda, Giuliano ha rapporti
amichevoli con i capi del corpo speciale inviato dal governo in
Sicilia per debellare il banditismo: dal colonnello Luca
all’ispettore di PS Verdiani e al capitano Perenze.
E dal processo di Viterbo
emergerà con chiarezza che la banda, legata strettamente alla mafia,
disponeva di permessi e di altri documenti di libero passaggio che
erano stati dati a Giuliano e ai suoi luogotenenti Pisciotta e
Ferreri proprio da quei militari e poliziotti incaricati di
catturarli e assicurarli alla giustizia.
Passeranno ancora molti
anni prima che la commissione antimafia presieduta dall’on. Carraro
stendesse, ma questo avviene soltanto nel 1976, una relazione precisa
e circostanziata che denunciava la collusione che si era verificata
in quegli anni tra i banditi e gli organi repressivi dello Stato.
Alla base di quella
collusione c’era, per la prima volta, la guerra fredda e il
reclutamento dei banditi di Giuliano dalla parte del blocco
occidentale in funzione anticomunista.
Di quella partita faceva
parte anche la mafia, prima di Calogero Vizzini e poi di Genco Russo,
che aveva favorito lo sbarco angloamericano aveva messo i suoi
picciotti al servizio della battaglia contro le forze di sinistra che
stavano vincendo a livello elettorale in Sicilia e minacciavano i
latifondi dei grandi proprietari terrieri tradizionalmente vicini
all’associazione criminale.
I separatisti, a loro
volta, costituirono, durante gli ultimi anni della guerra e
nell’immediato dopoguerra la forza politica legata alla mafia che
accreditò Giuliano e la sua banda in funzione anticomunista.
Il partito cattolico, che
sarebbe divenuto in seguito il partito di governo, era ancora agli
inizi ma avrebbe sostituito i separatisti dopo l’approvazione della
repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
La parabola di Giuliano e
della sua banda si sarebbe conclusa alcuni anni dopo il 5 luglio 1950
quando il bandito, ormai abbandonato dai suoi seguaci, sarebbe stato
ucciso di notte in circostanze assai oscure nel paese di
Castelvetrano mentre era in corso il suo ultimo tentativo di
raggiungere la salvezza e la libertà espatriando negli Stati Uniti.
La relazione di
maggioranza della commissione parlamentare dell’on. Luigi Carraro
esaminò nel 1976 le tre diverse versioni che erano state avanzate
per spiegare quella morte e concluse con alcune frasi problematiche
che vale la pena riprodurre: «La Commissione non ha potuto reperire
sul punto nuovi elementi di prova che servissero a chiarire, in tutti
i suoi particolari, le vicende che portarono all’eliminazione di
Giuliano. Gli ostacoli maggiori su questa via sono venuti dal ritardo
e dall’incompletezza che hanno caratterizzato la pubblicazione dei
documenti relativi alle vicende di quegli anni. Come si è accennato,
la stessa Commissione non ha trovato in questo settore la necessaria
collaborazione delle autorità governative e non è stata messa in
grado di approfondire fino in fondo il rapporto tra mafia e
banditismo».
Sul piano del giudizio
storico, pur nella impossibilità di ricostruire tutti i particolari,
è evidente che alla uccisione notturna del bandito collaborarono la
mafia e le forze dell’ordine.
Gaspare Pisciotta, il
luogotenente di Giuliano, ebbe sicuramente parte nella vicenda
finale, anche se non si può sostenere che la sua confessione, cioè
di aver ucciso da solo Giuliano rispecchiasse effettivamente la
realtà.
Ma Pisciotta conosceva il
segreto di quella morte e non a caso venne ucciso in carcere qualche
anno dopo perché non potesse cambiare la versione data all’inizio
che copriva con ogni probabilità la responsabilità di altri.
l'Unità 9 dicembre 2009
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