5.7.12

Pellegrini in armi. Sguardi nuovi sulle Crociate (di Marina Montesano)

Sembra impossibile, oggi, che ci siano stati tempi relativamente recenti durante i quali il tema delle crociate veniva considerato, tutto sommato, di scarsa rilevanza storiografica. Nel frattempo, numerosi specialisti in Europa, negli Stati Uniti e in Israele conducevano le loro ricerche senza troppa pubblicità facendo avanzare le conoscenze in materia.
Poi, d'un tratto, le cose sono cambiate: nel 1999, in occasione del novecentenario della presa di Gerusalemme, occasione per molti studiosi dell'argomento di riunirsi in convegni per riflettere e confrontarsi, si sono levate molte richieste affinché Giovanni Paolo II «chiedesse scusa» per le crociate; si trattava del riemergere di controversie vetuste, che trovavano origine nella polemica illuminista contro le crociate nel nome della tolleranza religiosa (una polemica largamente malintesa e piuttosto pretestuosa) e che avevano fatto sì che le crociate fossero state considerate, a torto, antenate delle guerre di religione e delle guerre ideologiche.

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Una rinnovata mobilità sociale
Due anni più tardi, l'attentato delle Twin Towers e in seguito l'invasione di Afghanistan e Iraq hanno riproposto quel vecchio cliché, solo rovesciandolo di segno: nell'atavico «scontro di civiltà» fra Occidente e Oriente, fra Cristianità e Islam, le crociate finivano per assumere invece una valenza positiva. Tanti storici improvvisati si sono quindi volti a scrivere di un periodo del quale niente sanno, se non alcuni poveri luoghi comuni invecchiati e sorpassati dalla storiografia. Non i crociati, dunque, erano violenti e aggressori, ma l'Islam che minacciava l'Europa sino a indurne la reazione armata: come se far storia altro non fosse che assegnare ragioni e torti, ruoli di buoni e cattivi.
Fra questi improvvisatori un posto d'onore spetta al sociologo Rodney Stark, prolifico esperto di qualsiasi argomento serva a celebrare i meriti del cristianesimo e/o dell'Occidente (per lui sono la stessa cosa): il suo God's Battalions: The Case for the Crusades (prontamente tradotto in italiano: Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate) ha persino goduto di buona stampa negli Stati Uniti, grazie ai molti che hanno confuso una rozza compilazione a tesi, che si serve di bibliografia datata, che non è in grado di maneggiare le fonti se non in traduzione inglese, con un libro nuovo in quanto «politicamente scorretto»; mentre si tratta in realtà dell'ennesimo cumulo di sciocchezze. Eppure le sintesi sul tema aggiornate e a portata dei lettori non specialisti non mancano.
In tal senso si può salutare il volume di Alain Demurger, Crociate e crociati nel medioevo (Garzanti 2010, euro 28, pp. 326), medievista noto soprattutto per i suoi scritti sull'Ordine dei Templari, nel quale le ragioni delle spedizioni verso Gerusalemme vengono correttamente contestualizzate più nella situazione interna europea che in quella della Terrasanta, com'è opinione consolidata nella storiografia contemporanea. La rinnovata mobilità sociale e lo slancio demografico dell'XI secolo, le campagne militari contro i saraceni in Sicilia e in Spagna, la riappropriazione dello spazio mediterraneo da parte delle città marinare italiane avevano portato verso la fine del secolo all'avvio di un movimento del quale tuttavia, sul momento, nessuno fu in grado di misurare la portata effettiva.

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Sotto la bandiera di San Pietro
Lo stesso nome «crociata» è tardo e nella sua formulazione definitiva non risale a prima del Duecento. In realtà, sembra che il movimento sia nato quasi per caso, e che solo in un secondo tempo la Chiesa abbia pensato a teorizzarlo in qualche modo. La crociata non è una «guerra santa», perché la religione cristiana, pur ritenendo in qualche caso (quando siano, ad esempio, di difesa) giuste le guerre, non accorda a nessuna di esse un carattere santo. Essa rappresenta semmai un'originale fusione di guerra e di pellegrinaggio (ai crociati venivano accordati i privilegi spirituali che la Chiesa riconosceva ai pellegrini), nata sul modello delle spedizioni antimusulmane di Spagna, di Sicilia e d'Africa meridionale, durante le quali effettivamente si era andata profilando una sorta di sacralizzazione della guerra contro l'infedele, il cui clima si respira nelle Chansons de Geste. In Spagna, in Sicilia e in Africa il pontefice aveva assegnato ai capi cristiani la bandiera di san Pietro (simbolo di rapporto feudale, ma anche di benedizione); le cronache di quelle imprese parlano di interventi divini e di miracoli a favore dei combattenti della fede.
Inoltre, nel corso dell'XI secolo l'abbazia di Cluny si era fatta promotrice dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela. Essi sarebbero serviti infatti, si pensava, a propagandare le guerre cristiane di riconquista contro i musulmani di Spagna. I grandi centri di pellegrinaggio della Cristianità erano ormai Roma, Santiago de Compostela e naturalmente Gerusalemme: controllata dagli abbasidi ma visitata da un crescente numero di pellegrini occidentali.

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L'appello di Clermont
Il movimento del pellegrinaggio, del resto, non era soltanto «popolare», «subalterno». A esso partecipavano parecchi nobili, che magari si proponevano con le armi di scortare e difendere i viandanti inermi. In questi ceti superiori, il pellegrinaggio poteva anche essere espressione di un certo disagio sociale. In gran parte d'Europa, per i figli cadetti dell'aristocrazia non si prevedevano assegnazioni ereditarie, per cui essi avevano soltanto la scelta fra carriera ecclesiastica o avventura guerriera. Questo aiuta a spiegare l'afflusso di cavalieri venuti un po' da ogni parte della Cristianità occidentale, ma soprattutto dalla Francia, in quelle guerre combattute contro i musulmani nella penisola iberica. Su ciò fece leva papa Urbano II, il quale nel 1095, in un concilio tenuto a Clermont in Alvernia, sollecitò l'aristocrazia francese uscita dalla lunga crisi costituita dalle guerre feudali ad accorrere in aiuto dell'impero di Costantinopoli minacciato dai turchi selgiuchidi.
L'appello di Clermont va letto nel senso della normalizzazione della vita in Francia e in tutto l'Occidente, dopo la crisi delle guerre feudali e della lotta fra papato e impero. A una aristocrazia riottosa, violenta, che si era largamente compromessa appoggiando i nemici della riforma della Chiesa e che risentiva anche delle mutate condizioni economiche le quali - con la rinascita dei commerci e quindi la più vorticosa circolazione monetaria - erano spesso svantaggiose per i ceti feudali, il papa consigliava di pacificare l'Europa liberandola per un po' di tempo della sua presenza, mentre il soldo e il bottino conquistato con il servizio militare avrebbe potuto forse rimetterla in sesto.
È vero anche che l'imperatore di Costantinopoli inviava talvolta suoi ambasciatori per reclutare in Occidente i guerrieri «franchi» (come bizantini e saraceni chiamavano gli europei occidentali) pesantemente armati e che una ambasceria di questo genere si era vista nel 1095 a un concilio che aveva preceduto di poco quello di Clermont, cioè a Piacenza. L'offerta dell'imperatore bizantino era però un ingaggio, non una richiesta di aiuti; e sul tappeto vi erano anche altre questioni: le aggressioni dei normanni italomeridionali, alleati del papato, contro Bisanzio e lo scisma tra le due Chiese apertosi nel 1054.

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Imprevisti entusiasmi
A Clermont papa Urbano giocò forse sui termini di tale offerta, in modo da sollecitare l'ambizione, l'avidità e lo spirito d'avventura dei cavalieri occidentali. Parlò anche di «aiuto ai cristiani orientali», per quanto ormai in quegli anni nulla minacciasse quelle comunità. Il suo appello fu accolto da una serie di grandi feudatari europei che si apprestarono a partire, fra 1095 e 1096, con tutto il loro seguito. Intanto però la notizia della spedizione che si andava preparando si propagò con una rapidità stupefacente in tutto l'Occidente cristiano, suscitando entusiasmi che Urbano II non aveva previsto.
Un elemento importante del successo della spedizione, nonostante l'ignoranza della geografia e della climatologia vicino-orientale (i contingenti transitarono per il deserto altipiano anatolico in piena estate) e la litigiosità fra i capi, fu l'obiettivo fattore sorpresa: gli emirati d'Anatolia e di Siria, a loro volta del resto ostili tra loro, non potevano certamente pensare che si potesse essere così pazzi da affrontare gli eccessi estivi o invernali di un clima continentale tra i più duri.
E un altro fattore di successo fu proprio la confusione tattica e strategica dei crociati, la loro mancanza di un obiettivo chiaro: erano abili e coraggiosi guerrieri, ma indisciplinati, privi di un piano comune, incapaci di coordinare le loro forze. I turchi erano abituati alle periodiche controffensive bizantine e alla presenza, anche se mai numericamente tanto massiccia, di mercenari occidentali: ma non potevano rendersi conto del fatto che ci si trovava dinanzi a un fatto nuovo, un pellegrinaggio armato diretto a Gerusalemme.

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Una narrazione datata
Questa orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente seminermi, induriti dal lungo viaggio, inferociti dalle privazioni e preda di un repentino fanatico entusiasmo si abbatté su Gerusalemme tra la primavera e l'inizio dell'estate 1099; la città fu espugnata d'assalto il 15 luglio di quell'anno. I «franchi» dilagarono nella città massacrando quasi tutti gli abitanti musulmani ed ebrei: se prima dell'inizio dell'assedio il governatore saraceno non avesse espulso dalla città i cristiano-orientali, dei quali non si fidava, probabilmente anch'essi avrebbero fatto la stessa fine, dal momento che è dubbio che gli occidentali riuscissero a riconoscerli.
La città fu ripopolata dai cristiano-orientali che ne erano stati espulsi e da altri loro correligionari siriaci e armeni: almeno in un primo tempo, difatti, fu proibito a musulmani ed ebrei di soggiornarvi. Un evento sanguinoso descritto in tutta la sua crudezza dalle stesse fonti occidentali e oggi riproposto quale evento culmine della spedizione dallo storico inglese Conor Koslick (L'assedio di Gerusalemme, Il Mulino, 2010, euro 26, pp. 276), che al tema crociato ha dedicato numerosi studi, e che in questo sceglie un modulo narrativo piuttosto che problematico, come lui stesso sottolinea nella postfazione: una scelta a forte rischio di soggettivismo, che finisce per presentare una delle possibili versioni di una vicenda assai complessa, senza offrire al lettore molte possibilità di riflessione critica; è forse un altro segno dei tempi che, dopo decenni di discussione storiografica sui metodi, dopo il linguistic turn che arrivava a chiedersi se esistesse una storia (e soprattutto una possibilità di attingerla) oltre il testo narrativo, si sia tornati a narrarla non poi tanto diversamente da quanto faceva Steven Runciman quasi sessant'anni orsono.

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Nel segno dell'Apocalisse
Invece, anche e soprattutto a proposito dei massacri che accompagnarono la crociata, è necessario non banalizzare e attualizzare gli eventi. Il mondo cristiano dell'XI secolo non può essere giudicato alla luce di quei valori connotati da un forte umanitarismo che possono essere sì considerati cristiani, ma che si sono sviluppati e affermati solo in tempi più recenti attraverso la riflessione sulla centralità del Vangelo in un processo che in Occidente parte da Francesco d'Assisi (magari anticipato da qualche pagina di Agostino e di Anselmo d'Aosta) per arrivare a Teresa di Calcutta. Ma i cristiani che conquistarono Gerusalemme nel luglio del 1099 vivevano e pensavano la loro fede in modo ben diverso, ispirato principalmente al Vecchio Testamento e all'Apocalisse.
Non resta dunque che da ribadire quanto, in fondo, già sapevamo: che le crociate non sono mai state «scontri fra civiltà» e «guerre di religione»; che ogni appiattimento della storia sull'attualità è sempre metodologicamente indebito; e che la comprensione del presente non passa, a sua volte, da gratuiti e facili ripescaggi del passato.

"il manifesto", 20 febbraio 2011 

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