Una foto di Franco Antonicelli negli anni Cinquanta del 900 |
Così
il 24 maggio del 1929 Benedetto Croce, in un suo discorso poco
ricordato anche nell'Italia repubblicana, intervenne alla seduta del
Regio Senato, che aveva all'Ordine del giorno la ratifica del
Concordato con il Vaticano: “Come che sia, accanto o difronte agli
uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali
l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di
Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla
storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero
mancati, o le mancassero!”.
La
stampa di regime non pubblicò brani del discorso, ma non tacque la
notizia del voto contrario del Croce e pochissimi altri, anzi ne
approfittò per scagliare insulti e contumelie contro il filosofo
liberale e contro tutta la vecchia classe dirigente liberale,
nostalgica del “vieto anticlericalismo”. Non è escluso che la
campagna fosse legata alla richiesta di una più decisa
fascistizzazione dell'Università e della stampa, attraverso quella
che era chiamata “ripulitura degli angolini”, cioè
l'allontanamento di figure legate alla tradizione liberale. A Torino,
per iniziativa di Franco Antonicelli, fu inviata una lettera di
solidarietà a Croce, assai polemica con il regime. A firmarla furono
soprattutto giovani antifascisti di sentimenti liberali come lo
stesso Antonicelli, Massimo Mila e Ludovico Geymonat, ma anche il
professore Umberto Cosmo, cattolico e prestigioso dantista, per molti
– incluso Gramsci - un maestro.
Antonicelli,
che aveva appena 21 anni, fu arrestato subito, il 31 maggio, e
condannato dal Tribunale speciale a un mese di carcere e tre anni di
confino, poi condonati. La reazione sproporzionata a un episodio
marginale di dissenso, che di certo non poteva avere seguito, si
spiega con un attacco diretto a Mussolini presente nella lettera. Il
Duce aveva partecipato in prima persona alla campagna contro Croce:
con argomenti che ricordano quelli che i renzisti di oggi usano
contro l'intellettualità lo aveva accusato di non volere la
conciliazione tra gli italiani, di non desiderare il progresso della
nazione (oggi si direbbe “gufare”), di opporsi per difendere i
privilegi dei vecchi; lo aveva bollato come un “imboscato della
storia”.
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