Marilisa Merolla,
ricercatore e docente di Storia contemporanea presso la facoltà di
sociologia della Sapienza a Roma, nel libro Rock’n’roll
Italian Way-Propaganda americana e modernizzazione nell’Italia che
cambia al ritmo del rock 1954-1964 (Coniglio ed., 2011) traccia
un quadro approfondito e vitale dell’impatto politico e sociale
avuto dal rock’n’roll di origine statunitense nel nostro paese,
anche nelle sue ambiguità. Il rock da un lato accelerava il processo
di laicizzazione della società nazionale, dall'altro fungeva da
strumento della colonizzazione Usa. La stessa diffusione della nuova
musica, peraltro, procedeva con alcuni inevitabili compromessi
all’italiana. “Alias” ha estratto dal libro le pagine che qui
riprendo. (S.L.L.)
1961 - Adriano Celentano con "I ribelli" |
1954
Dalla base Nato di Bagnoli si propaga il germe di una rivolta sonora che attraverserà l’Italia. Dc e Pci furono colti impreparati da Celentano e mille altri ribelli.
Dalla base Nato di Bagnoli si propaga il germe di una rivolta sonora che attraverserà l’Italia. Dc e Pci furono colti impreparati da Celentano e mille altri ribelli.
In Italia il rock’n’roll approda nel 1954, con l’arrivo dei marinai Usa alla base Nato di Napoli appena installata nella baia di Bagnoli dove in poco tempo sorgono a ogni angolo bar e locali notturni. Qui i ritmi viscerali e frenetici di una musica dalla matrice afroamericana affascinano borghesi e scugnizzi partenopei. Non erano certo gli ufficiali e le alte cariche militari ad acquistare i dischi di attualità, ma i tanti soldati e marinai acquirenti entusiasti dei vinili di rhythm’n’blues e di rock’n’roll dai rivenditori d’oltreoceano che garantivano tempi brevissimi di spedizione e prezzi assai ridotti rispetto ai listini di mercato.
Nella città partenopea
il binomio musica Usa-presenza militare non era una novità; risaliva
al 15 ottobre 1943 quando i V-disc, i padelloni in vinile contenenti
i temi di swing e di jazz suonati dalle orchestre
statunitensi e trasmessi dalle stazioni di Radio Napoli, si erano
imposti sul ritmo monocorde di marce e inni fascisti per annunciare
l’imminente vittoria e evocare l’avvento della libertà e della
democrazia. La presenza dei militari americani non si era esaurita
con la fine della seconda guerra mondiale, né tanto meno si era
arrestata la corrente dei nuovi suoni provenienti da oltreoceano.
Anzi, subito dopo la liberazione Napoli era stata ufficialmente
riconosciuta l’ovvia sede del quartier generale dell’Allied
Forces Southern Europe, organismo creato il 19 giugno 1951 come
principale comando subordinato, responsabile della difesa del fianco
destro della Nato contro la Cortina di ferro.
Con lo scoppio della
guerra fredda - vera e propria guerra psicologica tra le due
superpotenze, la cui vittoria passava anche per la «conquista degli
spiriti» delle popolazioni europee - la musica divenne una vera arma
strategica della propaganda Usa. Ne era consapevole il dipartimento
di stato americano che si impegnava a sostenere l’industria
discografica a scopo militare, individuando nel jazz l’arma sonora
del governo Usa. La scelta non era casuale e aveva due obiettivi, uno
interno e uno esterno: servirsi dei musicisti neri in una delicata
operazione di politica internazionale significava riconoscere alla
cultura afroamericana uno spazio nella storia ufficiale della nazione
in un momento di forti tensioni razziali, esplose soprattutto negli
stati americani del sud. I vantaggi sul piano internazionale erano
altrettanto importanti perché si sperava di rimuovere la percezione
esterna che gli Stati Uniti fossero una società razzista, assestando
un duro colpo alla propaganda comunista che accusava, ad esempio,
l’industria di Hollywood di incarnare «i mali del capitalismo».
There’s Music in the
Air at the Bagnoli Post era insomma il messaggio che la Sixty
Fleet Band, la Cincsouth’s Band o la Naples U.S. Navy Band
diffondevano attraverso le centinaia di esibizioni in tutto il
litorale campano in occasione di anniversari degli organismi della
Nato, cerimonie ufficiali, parate per il 4 di luglio ecc. D’altronde,
la musica era uno degli strumenti privilegiati per promuovere il
«People to people program»: il processo di integrazione dei
militari con le popolazioni locali per sponsorizzare il programma di
amicizia degli americani nei paesi d’oltreoceano. Numerosissimi
erano quindi i gemellaggi - non solo parate militari ma le tante
feste da ballo, ricevimenti ufficiali, lotterie di beneficenza o le
più frivole sfilate e di moda - in cui i militari americani
suonavano insieme anche alle bande dell’arma italiana, ma non solo.
Gusti e consumi
statunitensi si trasmettevano soprattutto ai giovani, di certo i più
pronti a recepire quanto in termini di libertà emodernizzazione
potesse offrire la «american way of life». Maschi o femmine,
napoletani o americani, tutti impazzivano per le band di rock’n’roll
fatte in casa, come Willy and The Internationals il gruppo composto
da studenti della Sherman School e tre universitari
napoletani, che aveva
conquistato un contratto discografico con la casa discografica Vis
Radio e un’apparizione in televisione grazie a una indiavolata
versione di Lucille, l’hit del rocker nero Little
Richard. Tra i ragazzi ogni barriera era già superata grazie al
nuovo vocabolo teenager, che gli adolescenti avevano sentito
molto spesso pronunciare dai coetanei statunitensi per indicare un
reciproco riconoscimento; la cui traduzione letterale non era
chiarissima, ma palese appariva il concetto che veicolava: la
consapevolezza di appartenere a una categoria che grazie alla giovane
età, consentiva di scavalcare nazionalità, lingua, estrazione
sociale, fede religiosa e politica.
Nel cuore della città, a
pochi passi della centralissima piazza Municipio, nascevano l’Uso
Club e il Bluebird Enlisted Men’s Club locali che con il motto «A
home away from home», accoglievano membri delle forze armate,
elementi della Sesta flotta, accompagnatrici e ospiti; e le centinaia
di soldati americani provenienti da ogni parte del mondo e di
passaggio a Napoli. Il manager dell’intrattenimento, Vincent
Colucci faceva arrivare nella città partenopea le grandi celebrità
della musica leggera americana: Platters, Four Aces, Everly Brothers.
Balli mascherati, «international night», «thanksgiving
parties» erano le tante occasioni per dimenarsi al ritmo della
musica suonata dai fiammanti juke box appena giunti dalla madre
patria o dal vivo con formazioni improvvisate con batteria, chitarra,
cantante e un «basso finto»: quest’ultima una vera qualifica per
i musicisti partenopei che offrendosi di compensare con la propria
voce l’assenza di qualche strumento musicale, iniziavano a suonare
o meglio a cantare, il cosiddetto rocche’n’rollo. Tra
questi un giovanissimo, Renzo Arbore.
Lontano dalla minaccia
razziale esplosa negli Stati Uniti, il rock perdeva il suo carattere
eversivo; appariva solo una moda un po’ esotica da non vietare
neanche nell’etere. Nel maggio 1963, il centro di produzione della
Rai di Napoli ospitava nei propri studi e sulle proprie frequenze
locali il programma Good morning from Naples!, uno spazio
quotidiano in lingua inglese. Capitava che i napoletani accendendo la
radio ricevessero un Good morning Naples!, mentre il fine
settimana - divenuto weekend - era accompagnato dalle note di
twist, surf, country, rock’n’roll
lanciate dal disc jockey Wild Willy, il quale
scavalcando ogni controllo e censura del governo italiano,
riproponeva fedelmente i brani presenti nelle classifiche americane
di Billboard.
Solo a Napoli come negli
Stati Uniti, poteva insomma succedere che il famoso pezzo con cui il
giovane Bob Dylan inaugurava la sua svolta elettrica, potesse essere
inizialmente conosciuto nella sua originaria e rarissima versione in
due parti perché troppo lunga per la radio americana: Like a
Rolling Stone part 1 and part 2.
Dal golfo di Napoli, il
rock’n’roll in un lampo risaliva la penisola e invadeva
l’intera Italia che nel pieno del miracolo economico cambiava pelle
al ritmo del rock; il cinema faceva il resto. Tra juke box,
sfavillanti copertine dei nuovi 45 giri e colorati mangiadischi, il
rock’n’roll diventa la colonna sonora della «grande
trasformazione». Erano appunto i teenager, le ragazze e i ragazzi
che si affacciavano all’età adulta in un’Italia più
democratica, i più pronti a recepire i ritmi del nuovo benessere,
sintetizzato nell’«American way of life», entrata come
simbolo nell’immaginario collettivo fin dagli anni Cinquanta.
Infatti, non era solo il miraggio di migliori condizioni di vita e di
lavoro, ma anche le immagini sfavillanti e le nuove sonorità,
trasmesse da vecchi e nuovi media, a spingere milioni di giovani a
lasciare il sud agricolo e socialmente arretrato per raggiungere il
nord, patria dello sviluppo industriale e della modernizzazione. In
questo flusso di migranti che segnava la vigilia del boom, le
diversità, le incomprensioni, le stesse sofferenze si stemperavano
nella collettiva fascinazione per la nuova musica, emblema di
libertà, di rottura con la tradizione, di promessa per il futuro, ma
soprattutto strumento per esprimere la propria identità anche nelle
più difficili condizioni.
Con la diffusione del
rock, anche in Italia la canzone acquistava i connotati di
bene-simbolo delle nuove generazioni; si trattava delle ragazze e dei
ragazzi che, a differenza dei padri e dei fratelli maggiori, non
avevano vissuto i traumi del secondo conflitto mondiale e della
guerra civile di cui solo i ventenni potevano tutt’al più avere
vaghissimi ricordi. In molti casi avevano trascorso parte della
propria infanzia nelle fila delle organizzazioni sportive e
ricreative dei partiti o delle parrocchie; ma, ancora per la maggior
parte, al di fuori da qualsiasi militanza partitica, non avevano
assorbito - per il momento - la cultura dello scontro ideologico che
negli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta aveva avvelenato
l’atmosfera politica italiana.
In Italia i ritmi
sincopati e scomposti del rock’n’roll non si limitavano a
scandire, ma contribuivano ad accelerare il processo di laicizzazione
in corso; per la classe dirigente il rischio era una modernizzazione
troppo rapida della popolazione che rompendo così velocemente tanti
legami con il passato minacciava di allontanare i cittadini dalle
culture tradizionali, cattolica e socialcomunista. Era innanzi tutto
la Dc, impegnata in questi anni in un faticoso dialogo con i
socialisti per un primo governo di centrosinistra, a cercare di
correre a i ripari. D’altronde sin dal 1954, con la nascita della
televisione il partito di maggioranza relativo era già impegnato con
successo in una politica culturale di «Italian way» alla
modernizzazione, volta a riadattare format e tendenze americane in
una più rassicurante chiave nazionale.
A differenza del nuovo
elettrodomestico d’oltreoceano, il rock’n’roll era
tutt’altro che il prodotto ufficiale dell’America superpotenza
capitalistica e, dunque, più difficile da imbrigliare. Certo
risalendo la penisola la nuova moda musicale aveva già subito un
primo fisiologico adattamento al contesto nazionale, che non sembrava
aver però del tutto devitalizzato la carica «esplosiva» di questi
ritmi dalla radice afroamericana. Lo dimostravano i disordini
riportati dalla stampa locale e nazionale che attribuiva al dilagare
della nuova febbre musicale il moltiplicarsi di episodi di teppismo
giovanile.
Che si trattasse di un
fenomeno del tutto inedito era emerso con chiarezza il 18 maggio del
1957, quando i celerini abituati a fronteggiare scioperi e
manifestazioni dalla chiara matrice socialcomunista, si erano invece
ritrovati del tutto impreparati a gestire ragazzi scalmanati che si
accalcavano anche oltre i cancelli del palazzo del Ghiaccio a Milano,
impazienti di partecipare al primo festival del rock’n’roll,
dove a debuttare con il pezzo Ciao ti dirò, erano I Rocky
Boys, formazione composta da Adriano Celentano, Enzo Jannacci,
Giorgio Gaber e Luigi Tenco.
Spettava quindi alla Rai
democristiana e a parte dell’industria discografica il compito di
patrocinare un vero e proprio rock nazionale provvisto di idoli e hit
più vicini a una più rassicurante tradizione melodica nostrana. Un
rock provinciale che finiva per diventare accettabile anche per le
sinistre. Alta pressione era, non a caso, il titolo del
programma musicale in onda sul neonato secondo canale televisivo
della Rai, che nel 1962 si rivolgeva ai «giovani» senza la
tradizionale pretesa pedagogica della tv originaria, ma trasformando
il piccolo schermo in una sala da ballo per un pubblico di teenager,
incantati di danzare insieme a star già affermate della canzone e
tra queste, gli appena sedicenni Rita Pavone e Gianni Morandi.
Chiudeva il ciclo di
trasmissioni Adriano Celentano lanciando un nuovo brano, che sin dal
titolo sintetizzava a pieno non solo la missione del programma, ma
l’intera politica democristiana: una via nazionale alla
modernizzazione che non si discostasse dai valori tradizionali,
innanzi tutto cattolici; si trattava del pezzo del cantante nero Ben
E. King Stand byMe, che perdendo ogni promiscuità del testo
in lingua inglese diveniva nella versione italiana di Celentano
Pregherò.
Non era solo la Dc a
occuparsi dei pericoli associati alla diffusione del rock’n’roll;
la questione toccò anche il Pci, in questo periodo scosso dal
«terribile 1956» che aveva portato in Italia alla rottura con il
Psi ormai proiettato verso un accordo con la Dc. La prospettiva di un
isolamento politico a sinistra obbligava a una revisione
dell’identità comunista per salvaguardare le radici del Pci nella
società italiana avviata a un processo di cambiamento inarrestabile
di cui il rock’n’roll era uno dei sintomi. Un genere
musicale che era appunto l’emblema del «nemico americano» e
soprattutto uno strumento privilegiato nella diffusione del suo
modello culturale in tutto il mondo compresi i territori del blocco
sovietico. Se persino in Russia e nei paesi satelliti le autorità
comuniste non riuscivano a sbarrare l’ingresso al jazz, in
Italia era evidente l’impotenza del Pci nel contrastare la
diffusione del rock’n’roll, col rischio di alienarsi le simpatie
di ragazze e ragazzi allevati nelle organizzazioni giovanili del
partito, attirati dalla nuova musica.
Non era una caso che,
nella stampa comunista, le inchieste e la polemica sulla nuova moda
musicale – ritenuta insieme al cinema e alle ultime diavolerie Usa
come una delle cause scatenanti dei tanti episodi di devianza
minorile - stridessero con le sfavillanti e patinate copertine che la
rivista della Fgci “Nuova generazione” e il rotocalco comunista
“Vie nuove” dedicavano alle dive hollywoodiane, e con gli
articoli sui giovani e italianissimi idoli della canzone che,
rivisitando alla radio e in tv i ritmi americani in chiave nostrana,
mettevano in difficoltà i divi della canzone tradizionale. Anche il
mondo comunista, se voleva mantenere il passo con la società del
miracolo economico non poteva, seppur solo in superficie, non tendere
una mano alla modernità e alle sue molteplici seduzioni; in fondo
anche il rock’n’roll una volta imbrigliato nella sua
«Italian way», pur tra le proteste dei militanti più
anziani, poteva essere suonato e ballato nei circoli comunisti o alle
feste dell’Unità.
Insomma, nell’Italia
che cambia al ritmo del rock non sono solo le ragazze ad essere
rovesciate dai propri partner sulle piste da ballo, ma è lo stesso
sistema di valori dell’Italia del secondo dopoguerra che rischia di
essere ribaltato. Dalla capacità della classe politica - maggioranza
e opposizione - di contenere e interpretare l’irrefrenabile ondata
di trasformazione dipende la natura stessa del ’68 italiano; di
movimento «antisistema» di contestazione generazionale, come nel
resto del mondo occidentale, o di profonda crisi politica in grado di
mettere in discussione l’apparato stesso dei partiti di
integrazione di massa che nel secondo dopoguerra hanno fondato
l’Italia repubblicana e democratica.
“alias – il
manifesto”, 26 marzo 2011
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