21.8.14

Mark Twain, il prosaico contro il poetico (Italo Calvino)

Del proprio ruolo di scrittore d'intrattenimento popolare, Mark Twain fu non solo cosciente ma anche fiero. «Io non ho mai cercato in nessun caso di rendere colte le classi colte - scrive nel 1889 in una lettera a Andrew Lang. - Non ero attrezzato per farlo: me ne mancavano sia le doti naturali sia la preparazione. Ambizioni in questo senso non ne ho avute mai, ma sono sempre andato a caccia d'una selvaggina più grossa: le masse. Raramente mi sono proposto d'istruirle, ma ho fatto il mio meglio per divertirle. Divertirle e basta avrebbe già soddisfatto la mia massima e costante ambizione».
Come professione d'etica sociale dello scrittore, questa di Mark Twain ha almeno il merito d'essere sincera e verificabile, più di tante altre le cui ambiziose pretese didascaliche ottennero e persero credito negli ultimi cent'anni: uomo di massa lui lo era davvero, e gli è completamente estranea l'idea di doversi chinare da un gradino più alto per parlare al suo pubblico. E oggi riconoscendogli il titolo di folk-writer o contastorie della tribù - quella tribù moltiplicata su immensa scala che è l'America provinciale della sua giovinezza - non è solo il merito di divertire che gli si attribuisce ma quello d'aver messo insieme uno stock di materiali di costruzione del sistema mitologico e fabulatorio degli Stati Uniti, un arsenale di strumenti narrativi di cui la nazione aveva bisogno per darsi un'immagine di se stessa.
Come professione estetica, invece, smentirne il filisteismo dichiarato risulta più difficile, e anche i critici che hanno innalzato Mark Twain al posto che merita nel pantheon letterario americano danno per scontato che al suo talento spontaneo e un po' sgangherato mancava solo un interesse per la forma. Eppure, la grande riuscita twainiana resta una prova di stile, e di portata storica addirittura: l'ingresso nella letteratura del linguaggio parlato americano, con la stridula voce recitante di Huck Finn. Si tratta d'una conquista inconsapevole, d'una scoperta cui è arrivato per caso? Tutta la sua opera, sia pur ineguale e indisciplinata, sta a indicare il contrario, come può risultar chiaro oggi che le forme della comicità verbale e concettuale - dal motto di spirito al nonsense - sono oggetto di studio in quanto meccanismi elementari dell'operazione poetica, e l'umorista Mark Twain ci si presenta come un instancabile sperimentatore e manipolatore di congegni linguistici e retorici. A vent'anni, quando non aveva ancora scelto il suo fortunato pseudonimo e scriveva su un giornaletto dello Iowa, il suo primo successo era stato il linguaggio tutto strafalcioni ortografici e grammaticali delle lettere d'un personaggio caricaturale.
Proprio perché doveva scrivere a getto continuo per i giornali, Mark Twain è sempre in caccia di nuove invenzioni formali che gli permettano di cavare effetti umoristici da qualsiasi tema, e il risultato è che se oggi la sua storiella del Jumping Frog ci lascia freddi, quando egli la ritraduce in inglese da una traduzione francese, ci diverte ancora.
Giocoliere della scrittura, non secondo un'esigenza intellettuale ma secondo la sua vocazione d'entertainer d'un pubblico tutt'altro che raffinato (e non dimentichiamo che la sua produzione scritta s'affianca a un'intensa attività di conferenziere e pubblico conversatore itinerante, pronto a misurare l'effetto delle sue trovate sulle reazioni immediate degli ascoltatori), Mark Twain segue procedimenti che non sono poi tanto dissimili da quelli dell'autore d'avanguardia che fa letteratura con la letteratura: basta mettergli in mano un testo scritto qualsiasi e lui si mette a giocarci finché non salta fuori un racconto. Ma dev'essere un testo che con la letteratura non abbia nulla a che fare: una relazione al ministero su una fornitura di carne in scatola al generale Sherman, le lettere d'un senatore del Nevada in risposta ai suoi elettori, le polemiche locali dei giornali del Tennessee, le rubriche d'un giornale agricolo, un manuale tedesco d'istruzioni per evitare i fulmini, e perfino la dichiarazione dei redditi per le imposte.
Alla base di tutto c'è la sua scelta del prosaico contro il poetico: tenendosi fedele a questo codice, egli riesce per primo a dar voce e figura alla sorda corposità della vita pratica americana - soprattutto nei capo lavori della saga fluviale Huckleberry Finn e Life on the Mississippi - e d'altra parte è portato - in molti dei racconti - a trasformare questo spessore quotidiano in un'astrazione lineare, in un gioco meccanico, in uno schema geometrico. (Una stilizzazione che ritroveremo, trenta o quarantanni dopo, tradotta nel muto linguaggio del mimo, nelle gags di Buster Keaton).


Dalla prefazione a Mark Twain, L'uomo che corruppe Hadleyburg, Einaudi, 1972

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