Ho trovato questa
recensione di una mostra ai Musei Capitolini su un vecchio “alias”
e mi è sembrata nella sua brevità assai ben fatta, giacché riesce
a dare agilmente conto di una questione centrale nella storia
dell'arte antica e a suggerirne le implicazioni teoriche. E per di
più invoglia ad una visita (o, per chi legge in ritardo, la fa
rimpiangere).
In rete ho poi scoperto
che al tempo dell'articolo Mascolo aveva 22 anni. Mi sono commosso.
Da vecchio, pedante professore ho notato qualche giovanile
intemperanza stilistica, e la cosa mi aveva tirato fuori una
lacrimetta; ora l'intenerimento addirittura mi fa sperare: se ci sono in giro ragazze così brave, non tutto è perduto. (S.L.L.)
Ritratto di Caracalla |
«Le fotografie possono
raggiungere l’eternità attraverso il momento» (H.
Cartier-Bresson). Anche il ritratto di qualsiasi individuo,
nell’antichità greca e romana, si presta a essere interpretato
come un manifesto per l’eternità e come un mezzo per sconfiggere
la morte attraverso la salvaguardia della fisionomia. Non va però
trascurata la fondamentale funzione dell’effigie con il personaggio
ancora in vita; basti pensare allo scopo celebrativo dei ritratti
degli imperatori, che, sparsi e riconoscibili in tutto l’impero,
veicolavano una sorta di biografia «facciale» autorizzata del
dinasta, aspetto affrontato anche dalla mostra I ritratti Le tante
facce del potere, ai Musei Capitolini fino al 25 settembre (a
cura di Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce).
Ma cosa si intende per
ritratto? Tre le condizioni fondamentali stabilite a suo tempo da B.
Schweitzer e in parte ancora condivisibili: la raffigurazione di un
personaggio specifico, la riconoscibilità dello stesso nella sua
unicità e la riproduzione non solo fisionomica, ma anche
caratteriale del soggetto (del resto Cicerone considerava il volto
«lo specchio dell’anima»).
Il ritratto romano si è
da sempre configurato, nell’ambito dell’antichistica, come uno
dei temi più dibattuti: già J. Wickhoff vi riconobbe una delle
forme artistiche più originali e autonome dell’arte romana; da
tale premessa gli studi degenerarono in considerazioni razziali sulla
presunta genuinità, tutta autoctona, dei volti della Roma
repubblicana (IV-I secolo a.C.). La consistenza delle presunte
energie indigene è stata però da tempo sconfessata, mentre maggiore
attenzione si è prestata di recente ai processi di rielaborazione o
semplificazione dei modelli greci.
Così la sezione iniziale
della mostra «Egitto, Grecia, Roma» consente un eccezionale, per
quanto complesso (per archeologi e non), accostamento tra la
ritrattistica dell’Italia centrale in terracotta, bronzo e marmo e
diverse creazioni greche, come il ritratto del commediografo
Menandro: ben si comprende allora come le formule fisionomiche e
formali elaborate in Grecia vengano recepite con prontezza sul suolo
italico. Un’altra erronea tendenza ha riconosciuto nel ritratto
antico un’evoluzione rettilinea, con esordi «ideali» culminati
nel «naturalismo»/«verismo» dei tratti (termini spesso usati come
sinonimi, senza che lo siano).
Eppure, non si può
essere schematici nel tracciarne la storia e non lo si può fare con
i nostri parametri di giudizio; che errore, infatti, considerare un
ritratto «ideale» come non individuale (e di converso, pensare che
qualche ruga basti a rappresentare con fedeltà un personaggio!);
piuttosto, i due poli sono tra loro comunicanti, a volte persino
sovrapposti. L’ossessione di ricercare la verosimiglianza in questi
volti è poi tutta moderna: d’altronde, già Plinio il Vecchio
denunciava il crollo di popolarità del ritratto somigliante…
Semmai, le ricerche attuali tendono a cavillare – eccessivamente? –
sull’aspetto formale, vivisezionando ogni disposizione di
capigliatura mediante una precisa conta dei riccioli per
l’individuazione dei tipi degli imperatori come dei «privati».
Iper-reazione ai tentativi psicologizzanti di un tempo?
Se è meglio non cadere
in facili equazioni (una bocca serrata nel III d.C.? Ovvio, è un’età
d’angoscia!), le letture solo analitiche di queste immagini
consentono sì una precisa datazione al quarto di secolo, ma
rischiano di trasformarsi in studi esangui e di trascurare l’impatto
dei ritratti sugli spettatori antichi. Nel catturare i tratti
individuali di qualsiasi personaggio la realtà si intreccia alla
finzione, l’arte alla mimesi; i piani si amalgamano a tal punto da
non consentire più una lucida distinzione tra i diversi intenti. La
maschera «pirandelliana» ben si applica specie sui volti dei
potenti: la bocca serrata di un Traiano corrisponde a un
atteggiamento reale che fu dell’Optimus, o è piuttosto un
piglio energico costruito ad arte, quasi a mo’ di spot elettorale?
O ancora, l’«espressiva volgarità» di Vespasiano ricalca i
tratti di un provincialotto asceso alla porpora o mira a marcare quei
requisiti di praticità e concretezza necessari dopo la caduta del
vanesio Nerone?
A proposito di maschere.
È proprio da quelle in cera degli antenati, tanto efficacemente
descritte da Polibio – altrimenti sconosciute per via archeologica,
se non in pallidi riflessi –, che l’esposizione prende avvio,
snodandosi poi attraverso altre sezioni tematiche. Possono principi e
privati uniformarsi agli dèi, almeno sul piano figurativo? Come si
ricostruiscono le fisionomie di illustri predecessori e celebri
personaggi (Omero, Esiodo etc.) senza che se ne conoscano i precisi
tratti? Quale il linguaggio dei corpi, delle vesti e degli attributi?
Le teste che spesso ci paiono mozzate vanno infatti ricollocate su
statue stanti in varie pose, in abiti civili, loricate o nude;
ciascuna tipologia comunicava uninsieme di messaggi che consentivano
allo spettatore antico di interpretare
l’immagine senza – o
quasi – margine d’errore. Ancora: la tendenza a copiare le mode
dei vip (ossia, i membri della famiglia imperiale) si riscontra anche
nel mondo romano: l’adesione ai modelli è tanto entusiasta da non
limitarsi, in alcuni casi, a soli prestiti d’acconciatura, ma da
estendersi persino alle stesse fisionomie. Ecco dunque perché tanti
piccoli Traiani di ogni ceto sfilano in mostra, assecondando una
tendenza che oggi avrebbe dell’inquietante: basti immaginare ogni
cartellone pubblicitario con i volti calcati su quello del leader
politico di turno…
Una Vanity Fair è infine
assicurata dalle matrone romane, algide e belle come dee, pettinate
con vistose ed elaborate acconciature che si spingono fino al kitsch
estremo (per il nostro gusto): sensuali corpi divini – replicati da
statue di Afrodite, ad esempio – in un curioso patchwork possono
infatti abbinarsi a teste persino di anziane.
In conclusione, la mostra
funziona sul piano estetico/scientifico, e il voluminoso catalogo si
pone come un prezioso vademecum non solo per l’allestimento, ma
anche per l’intero stato della questione.
“alias – il
manifesto”, 2 luglio 2011
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