20.8.14

Con Pio La Torre. Vita e lotte di Giuseppina Zacco (Michela Schillaci)

Giuseppina Zacco
Amava le ginestre Giuseppina Zacco, fiori tenaci e profumati, che come un miracolo in primavera invadono il suolo arido e desertico dei campi siciliani,e si impongono coi loro colori sgargianti e il loro dolce profumo a una natura arsa e inesorabile. Fiore semplice e tenace come la sua gente, come i contadini delle Madonie o dell’entroterra palermitano che insieme al marito Pio La Torre Giuseppina guida, durante il secondo dopoguerra, nell’occupazione delle terre.
Eppure, con quel mondo, Giuseppina non aveva avuto fino ad allora molto in comune. Era nata in città, il 25 ottobre 1927 da una famiglia della nobiltà palermitana. Il padre Francesco Zacco era ufficiale medico dell’esercito e la madre, Carmela Vullo, donna di grande cultura, parlava correntemente il francese, e apparteneva a un’antica e nobile famiglia di Palermo.
La decisione di Giuseppina di iscriversi al Partito Comunista, inusuale per una giovane donna siciliana e di buona famiglia non passò certo inosservata. Giuseppina voleva impegnarsi, dare il suo contributo a quell’Italia che stava cercando di lasciarsi alle spalle la guerra e il ventennio fascista. Quella mattina tiepida di ottobre del 1948, quando esce di casa, bella ed elegante nel suo cappotto nero per recarsi al circolo del tennis, Giuseppina non sa che le cambierà la vita. Cambia programma e si reca alla Federazione del PCI per iscriversi al partito. Il giovane che le apre la porta della Federazione è Pio La Torre. Giuseppina rimane colpita da quel giovane che anziché darle la tessera, prende da uno scaffale il libro L’emancipazione delle donne e le dice di ritornare solo dopo averlo letto. La Torre rimane affascinato da quella bella ragazza bionda dagli occhi chiari, le chiede di poter accompagnarla fino a casa. Non si lasceranno più.
Pio era stato costretto a lasciare la casa del padre dopo l’ennesima intimidazione. I mafiosi della borgata non tolleravano che si parlasse di salario contrattuale e che si fossero aperte ben tre sezioni del PCI. Era andato a vivere a casa del segretario della Federazione Pancrazio De Pasquale e pranzava a casa di Giuseppina. Decisero quindi di accelerare le nozze. Si sposarono presto, appena un anno dopo essersi conosciuti, il 29 ottobre del ’49 in un polveroso ufficio dello stato civile di Palermo.
Una lunga militanza condivisa, fin da quando, costretti a rinunciare al piccolo viaggio di nozze a Capri, rientrano a Palermo per preparare l’occupazione delle terre in risposta alla strage di Melissa in Calabria. Nel piccolo borgo rurale, nel corso di un’occupazione simbolica delle terre, “la Celere” (un corpo speciale di polizia creato dal ministro Scelba per contrastare gli scioperi), sparò sui contadini già in fuga uccidendone tre, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, e ferendone quindici alle spalle.
La strage suscitò una forte indignazione in tutto il Paese, mentre nel Mezzogiorno si scatenò una nuova ondata di scioperi e di occupazioni di feudi incolti. Giuseppina e Pio si buttarono a capofitto nell’organizzazione della lotta per la terra, riuscendo a dare, come lo stesso La Torre ricorderà in un’intervista rilasciata nel 1991 «una direzione consapevole ad un movimento spontaneo. Furono mesi di lotte memorabili, che ebbero conseguenze e implicazioni sociali, politiche, istituzionali rilevanti».
Insieme alle altre dirigenti del Pci di Palermo, Anna Grasso, Gina Mare, Giuseppina Vittone, Lina Colajanni, Giuseppina era sempre in prima linea: a bordo di qualche malandata automobile percorrevano le impervie strade che conducevano ai paesini dell’entroterra per partecipare alle lotte e alle occupazioni delle terre.
All’interno del movimento per la riforma agraria le donne ebbero un ruolo di primo piano e questo fu dovuto senz’altro al lavoro organizzativo e propagandistico portato avanti da Giuseppina Zacco e dalle compagne della sinistra. Alla fine degli anni Quaranta le iscritte al PCI, alle camere del lavoro e alla Federterra in Sicilia erano 24.000.
Alla fine del 1949 erano stati occupati decine di feudi per circa 10.000 ettari e col grano raccolto erano stati seminati circa 3.000 ettari di terra. Lottavano fianco a fianco coi contadini preparando azioni di tipo propagandistico, ma impegnandosi anche nel lavoro dei campi. Le donne erano sempre la prima fila dei lunghi cortei, facendo da barriera umana alla forza pubblica per scoraggiarla ad intervenire.
L’attività di Giuseppina proseguì anche dopo l’arresto del marito il 10 marzo del 1950, in seguito all’occupazione delle terre a Bisacquino. La Torre, accusato falsamente di aggressione, scontò all’Ucciardone la pena di un anno e mezzo di reclusione in condizioni durissime. In carcere apprese della morte della madre, ma gli venne negato anche l’ultimo saluto. Per Giuseppina, in attesa del loro primo bambino, fu un periodo di grande sofferenza e umiliazione: dovette assistere al processo farsa contro il marito, imbastito di sana pianta sulle false dichiarazioni dei poliziotti. Non ebbe neanche il sostegno del partito, che accusava La Torre insieme al suo amico segretario della federazione di Palermo, Pancrazio De Pasquale di “frazionismo”. Dal carcere La Torre le scriveva: «In cella siamo in quattro e tre sono assassini». Alla nascita di Filippo, le fu negato persino di incontrare il marito e mostrargli il figlio: le venne concesso solo di attendere negli uffici del carcere mentre una guardia mostrava dal cortile il bambino al padre. Al suo sostentamento e a quello del bambino provvedeva intanto la sua famiglia.
La lotta per la terra era anche lotta contro la mafia. Alla repressione poliziesca si affiancava l’azione violenta e prepotente della mafia che in quelle zone esercitava un potere assoluto e che avvertiva come una concreta minaccia l’azione di rivendicazione dei contadini e il diffondersi degli organismi sindacali. La più feroce reazione contro gli sforzi organizzativi dei contadini passò nel giro di pochissimo tempo dalle intimidazioni alle minacce e infine all’assassinio. I capomafia si resero conto immediatamente che il pericolo maggiore alla sopravvivenza dei loro metodi non proveniva dalle forze di polizia, ma piuttosto dall’azione dei contadini e dal diffondersi dei sindacati. Furono almeno 45 i dirigenti sindacali assassinati in quegli anni.
La lotta alla mafia sarà sempre presente nella vita e nell’azione politica di Giuseppina Zacco e seguirà di pari passo la lotta per i diritti dei lavoratori. Al fianco di Pio La Torre aveva seguito lo svolgimento politico-criminale ed economico della mafia, ne conosceva gli uomini, gli interessi e il sistema di relazioni, il modo di agire e di pensare.
Sostenne il marito e si impegnò personalmente nella lotta per l’acqua, per il piano regolatore, per il saccheggio delle aree edificabili, denunciando le connivenze mafiose, senza mai indietreggiare di fronte alle minacce.
Dalle campagne alle città, il decennio successivo vide Giuseppina Zacco e Pio La Torre girare in lungo e in largo la Sicilia, per le battaglie civili e politiche che li videro impegnati insieme, dal sindacato al partito.
Nel 1952 si fanno promotori di una raccolta di firme per la campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma lanciato dal movimento internazionale che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Nel 1956 nasce il secondo figlio, Franco.
Gli anni Sessanta sono gli anni del “Sacco di Palermo”. Giuseppina partecipa alla battaglia condotta dal partito e dal marito in prima persona contro Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici al Comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo fino al 1975.
Giuseppina condivise con il marito passione e lotte, impegno ed ideali, anche quando Pio venne chiamato ad assumere incarichi lontano dalla famiglia.
Nel 1969, dopo aver ricoperto gli incarichi di segretario della CGIL e del PCI siciliano, di deputato all’Assemblea Regionale Siciliana, La Torre venne chiamato a Roma alla Direzione Centrale del partito.
Giuseppina si trasferì a Roma con i figli e negli anni in cui La Torre rilanciava la battaglia contro la mafia dal Parlamento, nel quale era stato eletto nel 1972, Giuseppina non esitò ad abbandonare, non senza sofferenza, la militanza attiva, affinché il marito potesse trovare almeno in famiglia un porto sereno dove rifugiarsi dopo le battaglie quotidiane.
Nel 1979, La Torre chiese al partito di rientrare a Palermo. Gli venne affidata nuovamente la segreteria regionale, non per nostalgia, come ricorderà Giuseppina in un articolo su «Repubblica» del 1994, ma perché intuisce che «in Sicilia si giocava la partita fondamentale per l’ esistenza stessa della democrazia italiana. Aveva capito che avere il potere in Sicilia significava averlo nel Paese, condizionare tutti i poteri dello Stato, disporre a piene mani di una potenza economica e di ricatto persino internazionale. Parlò al vento, nessuno comprese. E venne il trenta di aprile».
Il 30 aprile 1982 Pio La Torre venne assassinato, insieme al collaboratore Rosario Di Salvo. “Cosa nostra” non gli perdonò la sua proposta di confisca dei beni dei boss: per la prima volta si minava alla base l’enorme potere delle cosche, se ne intaccava l’immenso patrimonio.
Giuseppina pianse con dignità e fermezza il compagno di una vita, ma dopo una prima fase in cui si chiuse nel dolore e nel silenzio, raccolse il testimone del marito e riprese senza esitazione il suo impegno politico e sociale.
Diede vita e partecipò a numerose iniziative sia in Sicilia che sul territorio nazionale, e divenne l’anima di un nuovo movimento antimafia che si fece promotore di denunce sempre più documentate e circostanziate, insieme ad un gruppo di coraggiose donne, come le vedove Costa, Mattarella, Terranova.
L’impegno contro la mafia la portò a riprendere l’attività politica in prima persona, insieme a Rita Bartoli Costa venne eletta all’assemblea Regionale Siciliana nelle fila del PCI/PDS. Furono anni di intenso lavoro, si impegnò per rivalutare la commissione Regionale antimafia ma, come ricorderà Simona Mafai, visse l’esperienza da parlamentare regionale in maniera piuttosto isolata. In Sicilia la rappresentanza femminile nei centri del potere politico è sempre stata esigua; quelle che arrivano ai posti più importanti sono solo di passaggio, nel club della politica le donne sono ammesse solo temporaneamente, non hanno il tempo di accumulare esperienze e contatti.
Fu alla testa del movimento antimafia negli anni delle stragi Falcone e Borsellino, presidentessa dell’associazione Donne contro la mafia, al fianco del movimento antiracket che dai piccoli centri dei monti Nebrodi si diffuse rapidamente in tutta l’isola. Alla vedova dell’agente Vito Schifani ucciso con Falcone a Capaci, Giuseppina raccomanda di tenere vivo il ricordo del marito: «Mi chiedi un consiglio. Io ti consiglio di leggere, leggere, leggere. Dalle cose più elementari ai giornali. Io ho fatto così. Ho cominciato a studiare mafia e politica per capire questa società malata. Prima mi è mancato il mondo attorno, poi ho capito di avere un debito nei confronti di mio marito che non ha avuto giustizia dai processi».
Seguì con amarezza il lento scorrere del processo per l’assassinio del marito e del segretario Rosario Di Salvo denunciando depistaggi, omissioni, interferenze che hanno condizionato l’attività dei giudici.
Manifestò più volte la sua delusione su come le ragioni del sacrificio e dell’impegno di La Torre, fossero state «marginalizzate, strumentalizzate, ed alla fine, forse, anche dimenticate e tradite».
Chiese alla giustizia e al suo partito la verità politica su quel delitto, una verità secondo lei mai cercata che si poteva costruire autonomamente dalla verità giudiziaria.
Due anni dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, nel pieno dell’offensiva dello Stato contro la mafia, la sua analisi sui risultati raggiunti e sui metodi utilizzati è lucida e a tratti profetica: «La questione della liberazione dalla mafia è stata e rimane fondamentale. Sono le modalità, gli obiettivi, gli strumenti che hanno fatto difetto. Non si è capito che in Sicilia c’era e c’è un blocco sociale forte, consolidato, attorno a interessi piccoli e grandi che fanno della illegalità e della discrezionalità dei poteri le condizioni primarie e necessarie della propria esistenza. Un blocco che non potrà mai venire giù solo con l’ azione repressiva e giudiziaria dello Stato. Qui doveva intervenire la sinistra e la politica, con un’azione istituzionale, sociale e sindacale che doveva mettere al centro i diritti della gente, la liberazione dal bisogno di migliaia e migliaia di cittadini».
Le spaccature interne al Partito, l’esistenza di correnti e le divergenze con le posizioni assunte da importanti esponenti del partito siciliano rispetto ai temi della legalità, della giustizia e della lotta alla mafia, la portarono nell’ottobre del 1995 alle dimissioni dal gruppo parlamentare del Pds all’Assemblea Regionale Siciliana. «Io – precisava – non vado via. Continuerò a dare il mio contributo al partito. Continuerò a battermi nel Pds, che è il partito della lotta alla mafia e della difesa della democrazia, per affrontare insieme a tutti i compagni quel percorso di liberazione. Niente potrà mai cancellare quarant’anni di appartenenza al PCI prima e al PDS poi».
Voleva liberare la Sicilia dalla mafia e per questo si è battuta tutta la vita.
Se n’è andata il 30 settembre del 2009.


Da “Enciclopedia delle donne”  http://www.enciclopediadelledonne.it/ 

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