Giuseppina Zacco |
Amava le ginestre
Giuseppina Zacco, fiori tenaci e profumati, che come un miracolo in
primavera invadono il suolo arido e desertico dei campi siciliani,e
si impongono coi loro colori sgargianti e il loro dolce profumo a una
natura arsa e inesorabile. Fiore semplice e tenace come la sua gente,
come i contadini delle Madonie o dell’entroterra palermitano che
insieme al marito Pio La Torre Giuseppina guida, durante il secondo
dopoguerra, nell’occupazione delle terre.
Eppure, con quel mondo,
Giuseppina non aveva avuto fino ad allora molto in comune. Era nata
in città, il 25 ottobre 1927 da una famiglia della nobiltà
palermitana. Il padre Francesco Zacco era ufficiale medico
dell’esercito e la madre, Carmela Vullo, donna di grande cultura,
parlava correntemente il francese, e apparteneva a un’antica e
nobile famiglia di Palermo.
La decisione di
Giuseppina di iscriversi al Partito Comunista, inusuale per una
giovane donna siciliana e di buona famiglia non passò certo
inosservata. Giuseppina voleva impegnarsi, dare il suo contributo a
quell’Italia che stava cercando di lasciarsi alle spalle la guerra
e il ventennio fascista. Quella mattina tiepida di ottobre del 1948,
quando esce di casa, bella ed elegante nel suo cappotto nero per
recarsi al circolo del tennis, Giuseppina non sa che le cambierà la
vita. Cambia programma e si reca alla Federazione del PCI per
iscriversi al partito. Il giovane che le apre la porta della
Federazione è Pio La Torre. Giuseppina rimane colpita da quel
giovane che anziché darle la tessera, prende da uno scaffale il
libro L’emancipazione delle donne e le dice di ritornare solo dopo
averlo letto. La Torre rimane affascinato da quella bella ragazza
bionda dagli occhi chiari, le chiede di poter accompagnarla fino a
casa. Non si lasceranno più.
Pio era stato costretto a
lasciare la casa del padre dopo l’ennesima intimidazione. I mafiosi
della borgata non tolleravano che si parlasse di salario contrattuale
e che si fossero aperte ben tre sezioni del PCI. Era andato a vivere
a casa del segretario della Federazione Pancrazio De Pasquale e
pranzava a casa di Giuseppina. Decisero quindi di accelerare le
nozze. Si sposarono presto, appena un anno dopo essersi conosciuti,
il 29 ottobre del ’49 in un polveroso ufficio dello stato civile di
Palermo.
Una lunga militanza
condivisa, fin da quando, costretti a rinunciare al piccolo viaggio
di nozze a Capri, rientrano a Palermo per preparare l’occupazione
delle terre in risposta alla strage di Melissa in Calabria. Nel
piccolo borgo rurale, nel corso di un’occupazione simbolica delle
terre, “la Celere” (un corpo speciale di polizia creato dal
ministro Scelba per contrastare gli scioperi), sparò sui contadini
già in fuga uccidendone tre, Angelina Mauro, Francesco Nigro e
Giovanni Zito, e ferendone quindici alle spalle.
La strage suscitò una
forte indignazione in tutto il Paese, mentre nel Mezzogiorno si
scatenò una nuova ondata di scioperi e di occupazioni di feudi
incolti. Giuseppina e Pio si buttarono a capofitto
nell’organizzazione della lotta per la terra, riuscendo a dare,
come lo stesso La Torre ricorderà in un’intervista rilasciata nel
1991 «una direzione consapevole ad un movimento spontaneo. Furono
mesi di lotte memorabili, che ebbero conseguenze e implicazioni
sociali, politiche, istituzionali rilevanti».
Insieme alle altre
dirigenti del Pci di Palermo, Anna Grasso, Gina Mare, Giuseppina
Vittone, Lina Colajanni, Giuseppina era sempre in prima linea: a
bordo di qualche malandata automobile percorrevano le impervie strade
che conducevano ai paesini dell’entroterra per partecipare alle
lotte e alle occupazioni delle terre.
All’interno del
movimento per la riforma agraria le donne ebbero un ruolo di primo
piano e questo fu dovuto senz’altro al lavoro organizzativo e
propagandistico portato avanti da Giuseppina Zacco e dalle compagne
della sinistra. Alla fine degli anni Quaranta le iscritte al PCI,
alle camere del lavoro e alla Federterra in Sicilia erano 24.000.
Alla fine del 1949 erano
stati occupati decine di feudi per circa 10.000 ettari e col grano
raccolto erano stati seminati circa 3.000 ettari di terra. Lottavano
fianco a fianco coi contadini preparando azioni di tipo
propagandistico, ma impegnandosi anche nel lavoro dei campi. Le donne
erano sempre la prima fila dei lunghi cortei, facendo da barriera
umana alla forza pubblica per scoraggiarla ad intervenire.
L’attività di
Giuseppina proseguì anche dopo l’arresto del marito il 10 marzo
del 1950, in seguito all’occupazione delle terre a Bisacquino. La
Torre, accusato falsamente di aggressione, scontò all’Ucciardone
la pena di un anno e mezzo di reclusione in condizioni durissime. In
carcere apprese della morte della madre, ma gli venne negato anche
l’ultimo saluto. Per Giuseppina, in attesa del loro primo bambino,
fu un periodo di grande sofferenza e umiliazione: dovette assistere
al processo farsa contro il marito, imbastito di sana pianta sulle
false dichiarazioni dei poliziotti. Non ebbe neanche il sostegno del
partito, che accusava La Torre insieme al suo amico segretario della
federazione di Palermo, Pancrazio De Pasquale di “frazionismo”.
Dal carcere La Torre le scriveva: «In cella siamo in quattro e tre
sono assassini». Alla nascita di Filippo, le fu negato persino di
incontrare il marito e mostrargli il figlio: le venne concesso solo
di attendere negli uffici del carcere mentre una guardia mostrava dal
cortile il bambino al padre. Al suo sostentamento e a quello del
bambino provvedeva intanto la sua famiglia.
La lotta per la terra era
anche lotta contro la mafia. Alla repressione poliziesca si
affiancava l’azione violenta e prepotente della mafia che in quelle
zone esercitava un potere assoluto e che avvertiva come una concreta
minaccia l’azione di rivendicazione dei contadini e il diffondersi
degli organismi sindacali. La più feroce reazione contro gli sforzi
organizzativi dei contadini passò nel giro di pochissimo tempo dalle
intimidazioni alle minacce e infine all’assassinio. I capomafia si
resero conto immediatamente che il pericolo maggiore alla
sopravvivenza dei loro metodi non proveniva dalle forze di polizia,
ma piuttosto dall’azione dei contadini e dal diffondersi dei
sindacati. Furono almeno 45 i dirigenti sindacali assassinati in
quegli anni.
La lotta alla mafia sarà
sempre presente nella vita e nell’azione politica di Giuseppina
Zacco e seguirà di pari passo la lotta per i diritti dei lavoratori.
Al fianco di Pio La Torre aveva seguito lo svolgimento
politico-criminale ed economico della mafia, ne conosceva gli uomini,
gli interessi e il sistema di relazioni, il modo di agire e di
pensare.
Sostenne il marito e si
impegnò personalmente nella lotta per l’acqua, per il piano
regolatore, per il saccheggio delle aree edificabili, denunciando le
connivenze mafiose, senza mai indietreggiare di fronte alle minacce.
Dalle campagne alle
città, il decennio successivo vide Giuseppina Zacco e Pio La Torre
girare in lungo e in largo la Sicilia, per le battaglie civili e
politiche che li videro impegnati insieme, dal sindacato al partito.
Nel 1952 si fanno
promotori di una raccolta di firme per la campagna universale a
favore dell’appello di Stoccolma lanciato dal movimento
internazionale che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche.
Nel 1956 nasce il secondo figlio, Franco.
Gli anni Sessanta sono
gli anni del “Sacco di Palermo”. Giuseppina partecipa alla
battaglia condotta dal partito e dal marito in prima persona contro
Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici al Comune di Palermo
dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo fino al 1975.
Giuseppina condivise con
il marito passione e lotte, impegno ed ideali, anche quando Pio venne
chiamato ad assumere incarichi lontano dalla famiglia.
Nel 1969, dopo aver
ricoperto gli incarichi di segretario della CGIL e del PCI siciliano,
di deputato all’Assemblea Regionale Siciliana, La Torre venne
chiamato a Roma alla Direzione Centrale del partito.
Giuseppina si trasferì a
Roma con i figli e negli anni in cui La Torre rilanciava la battaglia
contro la mafia dal Parlamento, nel quale era stato eletto nel 1972,
Giuseppina non esitò ad abbandonare, non senza sofferenza, la
militanza attiva, affinché il marito potesse trovare almeno in
famiglia un porto sereno dove rifugiarsi dopo le battaglie
quotidiane.
Nel 1979, La Torre chiese
al partito di rientrare a Palermo. Gli venne affidata nuovamente la
segreteria regionale, non per nostalgia, come ricorderà Giuseppina
in un articolo su «Repubblica» del 1994, ma perché intuisce che
«in Sicilia si giocava la partita fondamentale per l’ esistenza
stessa della democrazia italiana. Aveva capito che avere il potere in
Sicilia significava averlo nel Paese, condizionare tutti i poteri
dello Stato, disporre a piene mani di una potenza economica e di
ricatto persino internazionale. Parlò al vento, nessuno comprese. E
venne il trenta di aprile».
Il 30 aprile 1982 Pio La
Torre venne assassinato, insieme al collaboratore Rosario Di Salvo.
“Cosa nostra” non gli perdonò la sua proposta di confisca dei
beni dei boss: per la prima volta si minava alla base l’enorme
potere delle cosche, se ne intaccava l’immenso patrimonio.
Giuseppina pianse con
dignità e fermezza il compagno di una vita, ma dopo una prima fase
in cui si chiuse nel dolore e nel silenzio, raccolse il testimone del
marito e riprese senza esitazione il suo impegno politico e sociale.
Diede vita e partecipò a
numerose iniziative sia in Sicilia che sul territorio nazionale, e
divenne l’anima di un nuovo movimento antimafia che si fece
promotore di denunce sempre più documentate e circostanziate,
insieme ad un gruppo di coraggiose donne, come le vedove Costa,
Mattarella, Terranova.
L’impegno contro la
mafia la portò a riprendere l’attività politica in prima persona,
insieme a Rita Bartoli Costa venne eletta all’assemblea Regionale
Siciliana nelle fila del PCI/PDS. Furono anni di intenso lavoro, si
impegnò per rivalutare la commissione Regionale antimafia ma, come
ricorderà Simona Mafai, visse l’esperienza da parlamentare
regionale in maniera piuttosto isolata. In Sicilia la rappresentanza
femminile nei centri del potere politico è sempre stata esigua;
quelle che arrivano ai posti più importanti sono solo di passaggio,
nel club della politica le donne sono ammesse solo temporaneamente,
non hanno il tempo di accumulare esperienze e contatti.
Fu alla testa del
movimento antimafia negli anni delle stragi Falcone e Borsellino,
presidentessa dell’associazione Donne contro la mafia, al fianco
del movimento antiracket che dai piccoli centri dei monti Nebrodi si
diffuse rapidamente in tutta l’isola. Alla vedova dell’agente
Vito Schifani ucciso con Falcone a Capaci, Giuseppina raccomanda di
tenere vivo il ricordo del marito: «Mi chiedi un consiglio. Io ti
consiglio di leggere, leggere, leggere. Dalle cose più elementari ai
giornali. Io ho fatto così. Ho cominciato a studiare mafia e
politica per capire questa società malata. Prima mi è mancato il
mondo attorno, poi ho capito di avere un debito nei confronti di mio
marito che non ha avuto giustizia dai processi».
Seguì con amarezza il
lento scorrere del processo per l’assassinio del marito e del
segretario Rosario Di Salvo denunciando depistaggi, omissioni,
interferenze che hanno condizionato l’attività dei giudici.
Manifestò più volte la
sua delusione su come le ragioni del sacrificio e dell’impegno di
La Torre, fossero state «marginalizzate, strumentalizzate, ed alla
fine, forse, anche dimenticate e tradite».
Chiese alla giustizia e
al suo partito la verità politica su quel delitto, una verità
secondo lei mai cercata che si poteva costruire autonomamente dalla
verità giudiziaria.
Due anni dopo le stragi
di Capaci e Via D’Amelio, nel pieno dell’offensiva dello Stato
contro la mafia, la sua analisi sui risultati raggiunti e sui metodi
utilizzati è lucida e a tratti profetica: «La questione della
liberazione dalla mafia è stata e rimane fondamentale. Sono le
modalità, gli obiettivi, gli strumenti che hanno fatto difetto. Non
si è capito che in Sicilia c’era e c’è un blocco sociale forte,
consolidato, attorno a interessi piccoli e grandi che fanno della
illegalità e della discrezionalità dei poteri le condizioni
primarie e necessarie della propria esistenza. Un blocco che non
potrà mai venire giù solo con l’ azione repressiva e giudiziaria
dello Stato. Qui doveva intervenire la sinistra e la politica, con
un’azione istituzionale, sociale e sindacale che doveva mettere al
centro i diritti della gente, la liberazione dal bisogno di migliaia
e migliaia di cittadini».
Le spaccature interne al
Partito, l’esistenza di correnti e le divergenze con le posizioni
assunte da importanti esponenti del partito siciliano rispetto ai
temi della legalità, della giustizia e della lotta alla mafia, la
portarono nell’ottobre del 1995 alle dimissioni dal gruppo
parlamentare del Pds all’Assemblea Regionale Siciliana. «Io –
precisava – non vado via. Continuerò a dare il mio contributo al
partito. Continuerò a battermi nel Pds, che è il partito della
lotta alla mafia e della difesa della democrazia, per affrontare
insieme a tutti i compagni quel percorso di liberazione. Niente potrà
mai cancellare quarant’anni di appartenenza al PCI prima e al PDS
poi».
Voleva liberare la
Sicilia dalla mafia e per questo si è battuta tutta la vita.
Se n’è andata il 30
settembre del 2009.
Da “Enciclopedia delle
donne” http://www.enciclopediadelledonne.it/
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