In tempi in cui l’Italia
agita tutti i suoi fantasmi xenofobi è assai utile la lettura della
notevole ricerca di Gérard Noiriel, recentemente pubblicata da Marco
Tropea: Il massacro degli italiani Aigues Mortes 1893
(traduzione di Roberta Miraglia, pp. 253, € 18,00). Lo storico
francese ha lavorato a lungo negli archivi per ricostruire la genesi
di uno dei più tremendi atti di razzismo compiuti in Europa a fine
Ottocento, che si svolse sullo sfondo incantato della Camargue, in un
tempo in cui però quella zona era soltanto luogo di emigrazione
stagionale.
Gli italiani (soprattutto
piemontesi, ma anche toscani) accorrevano con i loro «caporali», in
gruppi serrati, per compiere un lavoro sfinente nelle saline, che
permetteva loro di vivere poi meglio per il resto dell’anno. Come
illustrava Nuto Revelli nel suo Il mondo dei vinti (1977),
ricostruzione del mondo rurale tra Otto e Novecento, la forza fisica
era il solo capitale su cui far conto. I migranti che venivano da
Asti e da Cuneo erano quindi abituati a dover dimostrare ai loro
padroni di avere una resistenza incredibile alla fatica e in breve
anche per questo si trovarono contro gli autoctoni, che reclamavano
un miglior trattamento, secondo le antiche tradizioni. In un momento
in cui il grande capitale usava il cottimo come regola, gli scontri
tra gruppi nazionali erano all’ordine del giorno.
Noiriel ricostruisce
molto bene il clima allucinato che prelude al disastro, in una
sequenza di rancori. Il 17 agosto 1893, il caldo malarico era al suo
apice alla Fangouse, di proprietà della potente Compagnie de Salins
du Midi e i «trimards», i lavoratori locali, dal mattino avevano
fatto girare la voce per cui ci sarebbe stata una dimostrazione
violenta. I «Piemos», come venivano definiti con termine che voleva
essere al massimo dispregiativo, oppure in langue d’oc
estranjeïraio, ovvero gli sporchi stranieri, come si legge in
un poema politico del tempo, dal sinistro titolo di Aïgamorto,
dovevano andarsene.
Il bilancio di una
giornata di mattanza, scatenata da una scaramuccia e gestita secondo
una strategia di accerchiamento con la quasi totale complicità degli
abitanti (incluso il possidente Granier, che chiuse le porte della
sua proprietà ai fuggiaschi per paura di ritorsioni), fu
pesantissimo. Ventidue tra morti e dispersi e quasi sessanta feriti,
cui venne rifiutato soccorso nell’ospedale di Marsiglia. Il caso
divampò sulla stampa italiana ed esplose una crisi diplomatica
grave, mentre da più parti si parlava di imminente conflitto. Il
processo però fu una farsa, con condanne minime e il paese si
affrettò a scordare quel giorno di sangue, mentre da noi Francesco
Crispi approfittò della situazione per tornare al potere.
Solo da pochi anni una
lapide ricorda nel paese dalle belle mura quell’episodio tremendo,
che ispirò al sociologo Émile Durkheim la formulazione del concetto
di anomia, per descrivere l’epoca senza legge del liberismo
selvaggio che produceva, insieme al nazionalismo, frutti avvelenati e
micidiali.
“Alias -il manifesto”,
14 maggio 2011
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