20.8.14

In Sicilia. L'angelo della tavola (S.L.L.)

Ho trovato traccia nelle Misticanze (Garzanti, 2009) di Gian Luigi Beccaria di una credenza, tra il folclorico e il religioso, e di una connessa consuetudine di cui c'è traccia nella mia memoria. Sulla credenza posso dire con relativa sicurezza il dove e il quando: a casa dello zio Giovanni e della zia Teresa, che erano cugini della mia nonna e tra di loro, oltre che coniugi, ove volentieri mi fermavo qualche volta a cena da bambino. 
Giovanni era un piccolo coltivatore proprietario e tornava a casa "a la scurata", cioè al tramonto, vale a dire dalle cinque alle otto della sera, a seconda della stagione. Subito dopo il suo ritorno si svolgeva il pasto forte nella famiglia. C'erano anche i figli, Mario, che lavorava come apprendista da un falegname, e Gianni, di un paio di anni più grande di me, che andava a scuola e con me volentieri giocava. Partirono per Desio, quando avevo otto o nove anni, e lì trovarono lavoro e fortuna. Mario si diplomò geometra nei corsi serali e fece a lungo il capocantiere per una grande impresa di costruzioni, Gianni si diplomò perito industriale e fu tecnico in una importante industria. 
Mi piaceva cenare da loro perché c'era una sorta di self service. A casa mia, o anche a casa dei nonni, i piatti giungevano a tavola già colmi dalla contigua cucina. Dallo zio Giovanni, invece, la minestra, piatto pressoché unico e fisso, di verdure appena arrivate dai campi, rinforzata sempre da abbondante pasta ("ditalini"), a volte da nutrienti legumi freschi o secchi, più di rado da cotenna di maiale o pezzi di carne di agnellone, arrivava a tavola in una bella zuppiera di maiolica e, a turno, ognuno si serviva riempiendo il proprio piatto con il mestolo. Si completava il pranzo (o la cena, se così si preferisce chiamare quel pasto) con frutta fresca e, a volte, con pane e formaggio o pane e olive. 
Non erano indigenti e di cibo c'era abbondanza piuttosto che penuria, per cui il padre (per primo), i figli e gli ospiti (quando ce ne fossero) potevano servirsi a volontà. La porzione della madre restava sempre nella zuppiera senza che vi fosse per gli altri alcuna necessità di limitarsi, anzi a volte la trovava sovrabbondante e pregava i commensali di prenderne ancora un po' perché il cibo non si poteva buttar via, 'n cuscenza (in coscienza). 
Scrive Beccaria: "Un alone di sacralità circondava la mensa. Nel Ragusano (me lo ricorda un ricercatore di Scicli), quando si imbandiva la tavola si diceva 'Càla l'ancilu', convinti che un angelo scendesse dal cielo per assistere al pasto, e alla fine si sparecchiava in fretta o quanto meno si ripiegava un angolo della tovaglia per dare licenza all'angelo di andarsene: 'Accussì si-nni va l'àncilu'."
Questo si pensava e si diceva anche a casa della zia Teresa e dello zio Giovanni. Credo di avere riportato la convinzione di questo andirivieni di celesti protettori a casa mia e dai nonni materni e paterni, ma nessuno diede importanza alla storia, anche se nessuno ne smentì la veridicità. L'uso di togliere subito di mezzo piatti e bicchieri c'era anche dai miei. 
E' abitudine, del resto, che conservo tuttora, non solo a casa mia, ma anche quando vengo invitato da amici per pranzi o cene informali.  Il permanere delle stoviglie sulla tavola mi dà noia e spesso costringo i padroni di casa a toglierle di mezzo in fretta con la minaccia di farlo io, notoriamente maldestro. All'angelo che potrebbe restare lì "a trunzu" (teso come un torsolo a non far nulla) non penso affatto, ma non sopporto che la mensa rimanga apparecchiata.   

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