In questo paese, durante gli ultimi
quattro anni, sono morte più di quarantamila persone in circostanze
violente. Oltre all'inusuale quantità di vittime, quello che salta
agli occhi è la crudeltà e l'apparente assurdità con cui questi
crimini sono stati compiuti. In mezzo a questa violenza sfrenata, il
mio amico Camilo si trova ricoverato in ospedale. Soffre di un cancro
che inizia a espandersi, di un cancro provocato, forse, dal non aver
considerato in tempo la sua condizione di portatore di Hiv.
Il
mio amico Camilo è un militante. Ha partecipato a quante campagne
gli è stato possibile a favore dei diritti delle minoranze. Ha
intrapreso anche iniziative affinché le persone si facciano gli
esami il prima possibile per conoscere la propria condizione di
portatrici o meno del virus dell'Hiv. È strano che proprio una
persona con la sua storia clinica non si fosse mai sottoposta a un
esame simile. Quando gliel'ho chiesto mi ha detto, guardandomi fisso
negli occhi, che aveva avuto paura dei risultati. Quando gli ho
ricordato che lui sapeva perfettamente che un risultato positivo
scoperto in tempo dava alle persone la possibilità di vivere una
vita normale, si è messo a piangere.
Il fatto è che quando
hanno scoperto la presenza di un cancro linfatico nel suo corpo
abbiamo dovuto affrontare un problema in più: Camilo ci ha proibito
di informare qualcuno, e men che meno la sua famiglia, della presenza
del virus nel suo sangue. Abbiamo mantenuto questo atteggiamento per
circa una settimana. Ho parlato, controvoglia, con il suo medico
curante per chiedergli di occuparsi del caso con discrezione. Camilo
in quel periodo, ancora padrone di una forte vitalità, si appellava
al fatto che fosse un diritto che aveva come individuo quello di
decidere chi dovesse sapere o meno la verità sul suo corpo. Noi,
parlo di me e di un altro amico, ascoltavamo in silenzio le sue
argomentazioni e pensavamo che per certi versi potesse avere ragione.
Nel frattempo, i medici e le infermiere entravano e uscivano
dalla stanza. Facevano diversi esami. Portavano via il corpo di
Camilo e lo restituivano alcune ore dopo, generalmente esausto.
Quando i medici hanno chiarito il caso, cioè quando sono arrivati al
punto in cui erano quasi sicuri delle condizioni del paziente e delle
misure che avrebbero dovuto adottare, ci hanno detto che non potevano
continuare a mantenere la discrezione. Poi hanno riempito sulla
testiera del letto di Camilo un foglio su una cartella che diceva
tutte le malattie di cui soffriva il paziente. Si trattava della
cartella clinica a cui a partire da quel momento gli impiegati
dell'ospedale avrebbero fatto riferimento per cercare di portare
avanti il caso. Chiunque entrasse nella stanza avrebbe potuto
leggerla.
È quello che è successo. L'ha letta sua madre e da
allora il problema più grande non è stato la cura che doveva
seguire Camilo ma lo scontro tra una madre e un figlio per aver
vissuto una relazione basata sulla menzogna. La madre, una stimata
scienziata, ha detto tra le urla che quella situazione l'aveva
descritta in uno dei suoi saggi più conosciuti, in cui parla di
situazioni difficili da spiegare. Aver scoperto che suo figlio era
vittima del cancro l'ha condotta al fatto che ha descritto nel suo
libro in cui parlava di un'istituzione conosciuta come la Cittadella
Finale.
L'edificio, situato in periferia, in una determinata zona
del paese che si conosce come il Paradiso delle Donne Assassinate,
Ciudad Juárez, dove rinchiudono a forza le persone affette da
malattie trasmissibili, è stato creato con lo scopo di evitare che
il contagio si diffonda tra la popolazione. Lo scritto parla di una
società in cui gli abitanti, per ragioni abbastanza complicate che
hanno a che vedere con una certa impronta di carattere politico,
accettano ben volentieri la reclusione e spesso rifiutano il libero
arbitrio. Alcuni cittadini chiedono addirittura, anche se sono sani,
di essere confinati. Lo fanno perché, in generale, le condizioni di
vita all'interno sono meno difficili rispetto a fuori dato che, per
mettere a tacere in qualche modo le proteste che suscita tale metodo
di isolamento, si danno ai reclusi vantaggi di cui non godono le
persone sane. Molti internati sono giovani drogati, anche se nella
Cittadella Finale è proibito il consumo di stupefacenti. La madre
parla nel suo saggio del traffico di sangue infetto, che ricevono
quelli che vogliono avere un motivo di essere ricoverati, in cambio
di partite di anfetamine che vengono introdotte attraverso i rombi
della rete di recinzione.
La Cittadella Finale è circondata da
una rete di filo spinato che l'umidità ha riempito di ruggine.
Durante la notte d'estate a cui si riferisce la madre, un membro
della Banda degli Universali si avvicina all'istituzione accompagnato
da uno dei suoi cani da combattimento più anziani. La madre chiama
Banda degli Universali i gruppi di giovani che il sistema relega ai
sobborghi nelle città industrializzate. Una volta davanti ai rombi,
l'Universale di cui parla la madre si toglie la camicia, gli stivali
militari e gli strettissimi pantaloni gialli che indossa.
Il
corpo pallido rimane nudo sotto la luce di una luna che illumina una
campagna deserta. L'unica cosa che conserva sono delle polsiere da
cui fuoriescono alcune punte d'acciaio. Il cane da combattimento al
suo fianco inizia a lanciare lievi guaiti. Lo fa indicando con il
muso l'interno della Cittadella Finale. Il cane ha solo un occhio.
Sul dorso mostra una serie di tagli provocati sicuramente da uno dei
tanti combattimenti a cui è stato obbligato. Si agita quando sente
che alcune persone si avvicinano dall'altra parte.
Compaiono tre
giovani di età simili a quella dell'Universale. Come tutti i reclusi
sono vestiti con una tuta da lavoro blu scura in cui è cucito lo
stemma dell'istituzione. Chiedono se l'Universale ha portato le
pastiglie. Dicono inoltre che non è necessario che si tolga i
vestiti. L'Universale non risponde. Dà al cane l'ordine di calmarsi.
Consegna una serie di tubetti di pastiglie e offre poi la vena del
braccio destro avvicinando ancora di più il corpo alla rete. Uno dei
reclusi estrae dalla tasca una siringa con una sostanza scura.
Attraverso i rombi l'Universale riceve il sangue infetto senza fare
nessun gesto. I reclusi spariscono nell'oscurità. Prima assicurano
l'Universale che non c'è possibilità di errore. Hanno mescolato il
sangue di tutti e tre. Vedendoli correre, il cane fa un salto. Vuole
inseguirli. Emette un paio di guaiti prima di tacere di nuovo.
L'Universale guarda il segno che l'ago gli ha lasciato nel braccio.
Dopo aver passato le dita sul punto che ha scelto scaccia il cane e
si veste lentamente. Esita prima di mettersi gli stivali. Poi
raccoglie la siringa abbandonata a terra e la lancia dall'altra parte
con un movimento brusco.
Una volta che la madre si calma, chiama
Camilo come suo figlio il guerriero. Come il personaggio che riuscirà
a vincere il cancro. Sembra che voglia trasformare suo figlio in un
elemento di qualche libro dove possa descrivere le cose facili da
spiegare. È così che da quel momento il mio amico Camilo è nelle
mani delle indicazioni scritte sulla cartella appesa sopra il suo
letto. La prima chemioterapia non provoca maggiori risultati
negativi. Il mio amico Camilo esce dall'ospedale con la testa rasata
e un paio di denti in meno, si tratta dei denti finti che devono
essere asportati a qualsiasi persona affronti un trattamento di
chemioterapia.
Una delle prime cose che fa è andare al suo bar
preferito, rivedersi con i suoi amici di sempre. Mi rifiuto di
accompagnarlo. Prima di tutto perché so che, a differenza
dell'edificio descritto dalla madre, il mio amico Camilo porterà la
sua libertà verso limiti inimmaginabili. Ingerirà la maggior
quantità di cocaina possibile per poi fare il giro delle stanze buie
cercando di fare sesso non protetto.
La seconda seduta di
chemioterapia è più dura. Il mio amico Camilo non esce più con lo
spirito di sempre anche se alla sua uscita non rinuncia ad andare al
bar e farsi qualche tiro. Alla terza va direttamente dall'ospedale a
casa di sua madre, che cerca di curarlo nel miglior modo possibile
prestandosi addirittura, dopo aver seguito un corso improvvisato
dalle stesse infermiere dell'ospedale, a iniettare lei stessa a suo
figlio le sostanze rivitalizzanti di cui ha bisogno chi ha affrontato
un simile decorso.
La madre, come c'era da aspettarsi, si è punta
un dito durante il procedimento. Camilo non ha retto la quarta
seduta. I suoi organi hanno smesso di funzionare. In ospedale è
stato dichiarato inguaribile. Nonostante tutto, è ancora in vita.
Hanno appena scoperto che il cancro si è esteso a tutto il corpo.
Sperano che esca da questo viaggio di andata e ritorno per la morte
affinché dica, con i suoi cinque sensi, se vuole vivere o no.
Intanto, continuano a comparire fosse clandestine nella parte nord
del paese. Hanno appena catturato un gruppo di bambini sicari e un
uomo che ha riconosciuto di aver fatto sparire con l'acido circa
trecento cadaveri.
(traduzione di Chiara
Muzzi)
PROFILO DI MARIO BELLATIN
Uno stile disadorno e insieme
enigmatico
Considerato uno degli scrittori più
interessanti e innovativi dell'America Latina contemporanea, Mario
Bellatin è nato a Ciudad de Mésico nel 1960, da genitori peruviani,
ed è cresciuto in Perù, dove per due anni ha studiato teologia per
poi laurearsi in Scienza delle Comunicazioni all'Università di Lima.
Ha anche frequentato, nella seconda metà degli anni Ottanta, la
Scuola internazionale di Cinema e Televisione di San Antonio de los
Banos, a Cuba. Nel 1995 si è trasferito di nuovo in Messico, dove
nel 2001 ha creato la Escuela Dinámica de Escritores, una singolare
scuola di scrittura che nel 2010 è diventata anche casa editrice.
Nel 1986 ha pubblicato a Lima il suo primo libro, Mujeres de sal,
al quale sono seguiti, negli anni, numerosi titoli caratterizzati,
oltre che dalla brevità, da una scrittura via via più frammentaria
e disadorna, la cui semplicità iperrealista chiede al lettori di
decifrare e interpretare anche ciò che l'autore sceglie di tacere.
Tra le venticinque opere di Bellatin pubblicate fino a oggi,
ricordiamo Efecto Invernadero (1992), Canon perpetuo (1993), Salon de belleza (1994, inserito nel 2007 tra i «Cento migliori
romanzi in spagnolo degli ultimi venticinque anni»), Damas Chinas (2006), El jardin de la señora Murakami (2000) , Flores (2000, Premio Xavier Villaurrutia), La escuela del dolor humano de
Sechuán (2001), Jacobo el mutante (2002), Perros héroes (2003), Lecciones para una liebre muerta (2005), El gran
vidrio (2007, Premio Mazatlán de literatura), Los fantasmas del
Masajista (2009), Disecado (2011), La clase muerta (2011).
Nel 2005 Alfaguara ha pubblicato una raccolta dei suoi testi nel
volume Obra reunida. Le opere di Bellatin sono pubblicate in una
decina di paesi, tra cui la Francia (dove nel 2000 è stato finalista
al Premio Médicis per il miglior romanzo straniero pubblicato in
francese), gli Stati Uniti (dove il «New York Times», con il quale
lo scrittore saltuariamente collabora, gli ha dedicato una recensione
entusiasta), in Germania e in Italia, dove sono usciti «Dama cinese»
(Bookever 2007,) e «Salone di Bellezza» (La Nuova Frontiera 2011).
Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione dell'autore è
finora inedito.
"il manifesto", 19 luglio 2011
Nessun commento:
Posta un commento