Nel trentennale della
morte di Vitaliano Brancati, “la Repubblica” gli dedicò un
paginone centrale con l'articolo che segue, di Alberto Asor Rosa, e
un altro di Nello Ajello sulla sua “sicilianità”, che provvederò
a “postare” quanto prima. (S.L.L.)
Vitaliano Brancati |
Bisogna dunque cercare
più a fondo. Io sono persuaso che Brancati sia uno di quegli
scrittori così profondamente conficcati in un crocicchio della
storia, così intrisi di umori, atmosfere, penombre, chiaroscuri e
perfino tic di una determinata età, che uno è portato nei ricordo a
stemperarli in un clima diffuso, in un affresco popolato di segni, in
cui tutti sono protagonisti, ma nessuno lo è in modo decisivo ed
inequivoco. C'è dell'ingiustizia, in questo: ma, come vedremo, anche
una chiave per penetrare l'universo di questo scrittore e tentare di
restituirlo alla sua individualità; che, non appena si fa uno sforzo
per andare al di là delle apparenze, si scopre estremamente
determinata e personale.
Nel Comune di
provincia
Gli anni, l'età cui mi
riferisco, sono quelli fra il '35 e il '50, la situazione quella di
una ricerca letteraria, che, almeno per ciò che riguarda la
narrativa, sembra individuare programmaticamente il suo aggancio
europeo, localizzando e «comunalizzando» l'osservazione, lo
spaccato di realtà esaminato. Ancora non è stato bene messo a fuoco
dalla storiografia letteraria questo punto; ma non mi par dubbio che
nel periodo in questione (in questo periodo soltanto più che in
altri, perché in realtà il fenomeno di cui andiamo parlando è un
fattore ricorrente della letteratura italiana) i nostri letterati non
scorgono alcun punto intermedio da rappresentare tra il proprio
Comune di provincia e Parigi, o Mosca, o Londra, o New York. Quel che
Brancati cerca di fare a e su Catania, non è poi molto dissimile da
quello che Pratolini andava in quegli stessissimi anni facendo a e su
Firenze, Bilenchi a e su Colle Val d'Elsa, Pavese a e su le Langhe e
così via.
Solo che Brancati,
appunto, era nato e vissuto non a Firenze, non in Piemonte né a
Torino ma in Sicilia, a Caltanissetta, a Catania; ed era stato, come
Bilenchi, Pratolini e Vittorini, fascista, e fervidamente fascista.
Ma non come quelli, fascista di sinistra, bensì fascista piuttosto
ortodosso, vitalistico, nazionalistico, alquanto retorico; insomma,
di quel fascismo da cui non si esce per entrare nel progressismo
populista, ma di quel fascismo da cui, quando si esce, si può
entrare solo in una sovrana, inattaccabile e indistruttibile
osservazione scettica ed ironica del mondo. Non può essere un caso
che Brancati, per definire retrospettivamente in un articolo del
dopoguerra (La fiera letteraria, 11 settembre 1946) il lungo periodo
della dominazione fascista, «gli anni che intercorrono tra il '22 e
il '43», si senta venire sulla penna la stessa formula che dà il
titolo al romanzo cui consegna nel 1941 l'affresco forse più
completo e ambizioso della vita giovanile a Catania nel corso dello
stesso periodo: Gli anni perduti; sebbene, appunto, nel
romanzo non ci siano che pallidi e allusivi accenni alla realtà
politica del tempo, e l'articolo in questione sia invece tutto un
tentativo di dare un'interpretazione etico-politica del totalitarismo
e degli effetti da esso prodotti sul pensiero, sui costumi, sui
discorsi, sulle usanze.
Siano pur giusti, dunque,
tutti i riferimenti scovati dalla critica ai grandi scrittori, che
gli furono maestri, da Gogol ad Alvaro: non v'è dubbio che questo
discepolato, in gran parte esercitato in età già non più così
giovanile (è cosa già accaduta ad altri scrittori siciliani del
passato), gli abbia acclarato le ragioni profonde della sua ricerca,
dissipando le nebbie di un certo iniziale romanticismo, che spinge le
sue propaggini fin dentro un romanzo peraltro interessante come
Gli anni perduti
(a proposito del quale Nino Borsellino parla anche «di tracce di
Dostoevskismo, di Oblomovismo, di Cekovismo»). Ma tali ragioni
pre-esistono all' invenzione dei modelli e sono da rintracciare
probabilmente nella genesi di un amaro più che ironico moralismo
dalla crisi dei quadri concettuali e tradizionali di un modello
borghese assai arretrato, quello isolano: crisi che, per l' assenza
di altre prospettive alternative o sostitutive, non può uscire dall'
ambito del vissuto e del quotidiano e sempre più si ravvolge, man
mano che si dispiega, nei circuiti stretti e soffocanti della
famiglia, del sesso e di una società civile che ha come suoi luoghi
deputati quasi unici il caffè, la piazza e squallide, spesso
miserabili, case ospitali. Mi rendo conto che esprimere preferenze fa
correre il rischio di sovrapporre al tentativo di ricostruzione di
una biografia letteraria fondata in qualche modo su dati oggettivi,
scelte di gusto personali e magari non legittime idiosincrasie; ma se
serve a chiarire il discorso dirò che la ricerca brancatiana a me
sembra raggiungere il suo punto più alto tra il romanzo breve Don
Giovanni in Sicilia del ' 40, e il racconto lungo Il vecchio
con gli stivali, del ' 44, mentre il più noto Il bell'Antonio
del ' 49 ha la troppo nitida perfezione di un mito già sistemato, e
Paolo il Caldo, come già accennato, l'incompiutezza d'un
tentativo che va in una direzione restata a noi, purtroppo,
sconosciuta. 1940-1944: anni duri ma produttivi, in cui, attraverso
il tormento di una guerra dolorosa e rivelatrice, sembra quasi che in
Brancati tutti gli umori più vivi e penetranti della sua natura
abbiano preso il sopravvento sui suoi grigiori e sulle sue cupezze.
Nel Don Giovanni l'esaltazione erotica del protagonista e dei
suoi giovani amici e la loro pigrizia, il loro cullarsi
nell'indeterminato e nell'immaginario, sfociano felicemente nell'
immagine di una civiltà più verbalistica e nominalistica che
veramente visionaria. L'eccezionale sollecitazione dei sensi è
sempre ad un passo dall'impotenza: impotenza di atti (come sarà più
avanti per Il bell'Antonio), ma anche di parole, ché, sia la
passione bruta, sia l'innamoramento impediscono di comunicare,
impediscono il civile commercio dei sentimenti. Nel Vecchio con
gli stivali la storia del misero impiegato comunale Aldo
Piscitello, costretto ad iscriversi al fascio per sopravvivere,
animato da un odio forsennato e segreto nei confronti dei
prevaricatori e infine epurato dopo la liberazione per compiacere
alla facciata di un formalistico rigorismo, assume i colori
grotteschi ed amari di un'eterna "commedia all' italiana",
in cui sempre gli stracci volano all'aria e i soprastanti se la
cavano. Brancati è scrittore siciliano, non ci si saprebbe sottrarre
all'obbligo di collocarlo dopo Verga, De Roberto e Pirandello (da
ciascuno dei quali, certo, ha imparato qualcosa), e prima di Sciascia
(che a sua volta molto ha imparato da lui). Ma il suo sicilianismo,
indubbiamente molto accentuato dal punto di vista ambientale e
tematico, non è poi così decisivo come si dice, se ci si richiama a
quelle ragioni più generali della sua ricerca, che in precedenza
abbiamo cercato di indicare. Esistono, senza dubbio, elementi
visionari e stralunati nella sua arte, ma forse più lontani nel
tempo, come in quel racconto Sogno di un valzer del '38,
ripubblicato recentemente da Enzo Siciliano, e comunque insufficienti
a legarlo a quella catena della "corda pazza", con cui
Leonardo Sciascia mette insieme un po' indiscriminatamente scrittori
e cose della Sicilia. Io direi che le tonalità proprie della prosa
brancatiana - il grottesco, l'amaro umorismo, la cupezza di fondo -
sono come riallacciate e fuse insieme da una intelligenza che è
invece lucidissima e sempre presente a se stessa, e da un
atteggiamento etico-politico che lo spinge piuttosto in direzione di
scrittori e di saggisti come Alvaro, Pannunzio, De Feo, per certe
tonalità Flaiano (senza dimenticare, peraltro, il suo rapporto con
un altro amaro umorista, con un maestro di illuminismo reazionario,
come Leo Longanesi). Il suo riallacciamento più preciso è al mondo
del “Mondo”: cioè ad una dimensione culturale e letteraria in
cui la critica del costume resta sempre illuminata da valori
razionali. Dietro le deformazioni grottesche e parodiche di Brancati
questa conversione ad un sostanziale razionalismo di fondo s'
indovina sempre nei momenti migliori, ed è quella che gli assicura
una più acuta percezione del reale. Solo qualche anno più tardi
Federico Fellini s'imbatterà nei Vitelloni a Rimini, e ne
resterà folgorato; ma il vitellonismo, quello più autentico e
profondo, lo aveva già scoperto Brancati a Catania, guardandosi
attorno attraverso le grate della sua solitudine giovanile.
“la Repubblica”, 24
ottobre 1984
Nessun commento:
Posta un commento