31.8.14

Nel trentennale. Gli anni perduti di Vitaliano Brancati (Alberto Asor Rosa)

Nel trentennale della morte di Vitaliano Brancati, “la Repubblica” gli dedicò un paginone centrale con l'articolo che segue, di Alberto Asor Rosa, e un altro di Nello Ajello sulla sua “sicilianità”, che provvederò a “postare” quanto prima. (S.L.L.)
Vitaliano Brancati
La prima cosa da capire di Vitaliano Brancati è la fortuna, certamente inferiore ai suoi meriti. La morte precoce, nel 1954, ad appena quarantasette anni, in un momento di definizione e di passaggio della sua opera (il romanzo Paolo il Caldo, apparso un anno dopo, è non solo un'opera incompiuta, ma anche un tentativo non del tutto realizzato di riprendere e al tempo stesso di ampliare le tematiche a lui consuete), può costituire una spiegazione, ma non sufficiente: Pavese, morto suicida nel '50, ha visto egualmente accrescersi la sua fama nei decenni successivi alla sua scomparsa (anche se pure lui è entrato poi in una zona d'ombra, altrettanto immeritata di quanto lo erano state certe punte di mitica ammirazione e quasi di culto). Certamente lo ha danneggiato l'assenza di partecipazione (lo ricordava recentemente Sciascia) al grande (intendo dire: esteso, insistente, prolungato) dibattito su «politica e cultura» (cui egli, tuttavia, ha apportato, sia pure indirettamente e come dall'esterno, alcuni originali elementi di riflessione); ma neanche questo può bastare a spiegare tutto, visto che, per esempio, uno scrittore anche lui del tutto avulso dalle problematiche dell'impegno come Buzzati ha conquistato presso la critica e presso il pubblico un riconoscimento vasto e duraturo.
Bisogna dunque cercare più a fondo. Io sono persuaso che Brancati sia uno di quegli scrittori così profondamente conficcati in un crocicchio della storia, così intrisi di umori, atmosfere, penombre, chiaroscuri e perfino tic di una determinata età, che uno è portato nei ricordo a stemperarli in un clima diffuso, in un affresco popolato di segni, in cui tutti sono protagonisti, ma nessuno lo è in modo decisivo ed inequivoco. C'è dell'ingiustizia, in questo: ma, come vedremo, anche una chiave per penetrare l'universo di questo scrittore e tentare di restituirlo alla sua individualità; che, non appena si fa uno sforzo per andare al di là delle apparenze, si scopre estremamente determinata e personale.

Nel Comune di provincia
Gli anni, l'età cui mi riferisco, sono quelli fra il '35 e il '50, la situazione quella di una ricerca letteraria, che, almeno per ciò che riguarda la narrativa, sembra individuare programmaticamente il suo aggancio europeo, localizzando e «comunalizzando» l'osservazione, lo spaccato di realtà esaminato. Ancora non è stato bene messo a fuoco dalla storiografia letteraria questo punto; ma non mi par dubbio che nel periodo in questione (in questo periodo soltanto più che in altri, perché in realtà il fenomeno di cui andiamo parlando è un fattore ricorrente della letteratura italiana) i nostri letterati non scorgono alcun punto intermedio da rappresentare tra il proprio Comune di provincia e Parigi, o Mosca, o Londra, o New York. Quel che Brancati cerca di fare a e su Catania, non è poi molto dissimile da quello che Pratolini andava in quegli stessissimi anni facendo a e su Firenze, Bilenchi a e su Colle Val d'Elsa, Pavese a e su le Langhe e così via.
Solo che Brancati, appunto, era nato e vissuto non a Firenze, non in Piemonte né a Torino ma in Sicilia, a Caltanissetta, a Catania; ed era stato, come Bilenchi, Pratolini e Vittorini, fascista, e fervidamente fascista. Ma non come quelli, fascista di sinistra, bensì fascista piuttosto ortodosso, vitalistico, nazionalistico, alquanto retorico; insomma, di quel fascismo da cui non si esce per entrare nel progressismo populista, ma di quel fascismo da cui, quando si esce, si può entrare solo in una sovrana, inattaccabile e indistruttibile osservazione scettica ed ironica del mondo. Non può essere un caso che Brancati, per definire retrospettivamente in un articolo del dopoguerra (La fiera letteraria, 11 settembre 1946) il lungo periodo della dominazione fascista, «gli anni che intercorrono tra il '22 e il '43», si senta venire sulla penna la stessa formula che dà il titolo al romanzo cui consegna nel 1941 l'affresco forse più completo e ambizioso della vita giovanile a Catania nel corso dello stesso periodo: Gli anni perduti; sebbene, appunto, nel romanzo non ci siano che pallidi e allusivi accenni alla realtà politica del tempo, e l'articolo in questione sia invece tutto un tentativo di dare un'interpretazione etico-politica del totalitarismo e degli effetti da esso prodotti sul pensiero, sui costumi, sui discorsi, sulle usanze.
Siano pur giusti, dunque, tutti i riferimenti scovati dalla critica ai grandi scrittori, che gli furono maestri, da Gogol ad Alvaro: non v'è dubbio che questo discepolato, in gran parte esercitato in età già non più così giovanile (è cosa già accaduta ad altri scrittori siciliani del passato), gli abbia acclarato le ragioni profonde della sua ricerca, dissipando le nebbie di un certo iniziale romanticismo, che spinge le sue propaggini fin dentro un romanzo peraltro interessante come
Gli anni perduti (a proposito del quale Nino Borsellino parla anche «di tracce di Dostoevskismo, di Oblomovismo, di Cekovismo»). Ma tali ragioni pre-esistono all' invenzione dei modelli e sono da rintracciare probabilmente nella genesi di un amaro più che ironico moralismo dalla crisi dei quadri concettuali e tradizionali di un modello borghese assai arretrato, quello isolano: crisi che, per l' assenza di altre prospettive alternative o sostitutive, non può uscire dall' ambito del vissuto e del quotidiano e sempre più si ravvolge, man mano che si dispiega, nei circuiti stretti e soffocanti della famiglia, del sesso e di una società civile che ha come suoi luoghi deputati quasi unici il caffè, la piazza e squallide, spesso miserabili, case ospitali. Mi rendo conto che esprimere preferenze fa correre il rischio di sovrapporre al tentativo di ricostruzione di una biografia letteraria fondata in qualche modo su dati oggettivi, scelte di gusto personali e magari non legittime idiosincrasie; ma se serve a chiarire il discorso dirò che la ricerca brancatiana a me sembra raggiungere il suo punto più alto tra il romanzo breve Don Giovanni in Sicilia del ' 40, e il racconto lungo Il vecchio con gli stivali, del ' 44, mentre il più noto Il bell'Antonio del ' 49 ha la troppo nitida perfezione di un mito già sistemato, e Paolo il Caldo, come già accennato, l'incompiutezza d'un tentativo che va in una direzione restata a noi, purtroppo, sconosciuta. 1940-1944: anni duri ma produttivi, in cui, attraverso il tormento di una guerra dolorosa e rivelatrice, sembra quasi che in Brancati tutti gli umori più vivi e penetranti della sua natura abbiano preso il sopravvento sui suoi grigiori e sulle sue cupezze. Nel Don Giovanni l'esaltazione erotica del protagonista e dei suoi giovani amici e la loro pigrizia, il loro cullarsi nell'indeterminato e nell'immaginario, sfociano felicemente nell' immagine di una civiltà più verbalistica e nominalistica che veramente visionaria. L'eccezionale sollecitazione dei sensi è sempre ad un passo dall'impotenza: impotenza di atti (come sarà più avanti per Il bell'Antonio), ma anche di parole, ché, sia la passione bruta, sia l'innamoramento impediscono di comunicare, impediscono il civile commercio dei sentimenti. Nel Vecchio con gli stivali la storia del misero impiegato comunale Aldo Piscitello, costretto ad iscriversi al fascio per sopravvivere, animato da un odio forsennato e segreto nei confronti dei prevaricatori e infine epurato dopo la liberazione per compiacere alla facciata di un formalistico rigorismo, assume i colori grotteschi ed amari di un'eterna "commedia all' italiana", in cui sempre gli stracci volano all'aria e i soprastanti se la cavano. Brancati è scrittore siciliano, non ci si saprebbe sottrarre all'obbligo di collocarlo dopo Verga, De Roberto e Pirandello (da ciascuno dei quali, certo, ha imparato qualcosa), e prima di Sciascia (che a sua volta molto ha imparato da lui). Ma il suo sicilianismo, indubbiamente molto accentuato dal punto di vista ambientale e tematico, non è poi così decisivo come si dice, se ci si richiama a quelle ragioni più generali della sua ricerca, che in precedenza abbiamo cercato di indicare. Esistono, senza dubbio, elementi visionari e stralunati nella sua arte, ma forse più lontani nel tempo, come in quel racconto Sogno di un valzer del '38, ripubblicato recentemente da Enzo Siciliano, e comunque insufficienti a legarlo a quella catena della "corda pazza", con cui Leonardo Sciascia mette insieme un po' indiscriminatamente scrittori e cose della Sicilia. Io direi che le tonalità proprie della prosa brancatiana - il grottesco, l'amaro umorismo, la cupezza di fondo - sono come riallacciate e fuse insieme da una intelligenza che è invece lucidissima e sempre presente a se stessa, e da un atteggiamento etico-politico che lo spinge piuttosto in direzione di scrittori e di saggisti come Alvaro, Pannunzio, De Feo, per certe tonalità Flaiano (senza dimenticare, peraltro, il suo rapporto con un altro amaro umorista, con un maestro di illuminismo reazionario, come Leo Longanesi). Il suo riallacciamento più preciso è al mondo del “Mondo”: cioè ad una dimensione culturale e letteraria in cui la critica del costume resta sempre illuminata da valori razionali. Dietro le deformazioni grottesche e parodiche di Brancati questa conversione ad un sostanziale razionalismo di fondo s' indovina sempre nei momenti migliori, ed è quella che gli assicura una più acuta percezione del reale. Solo qualche anno più tardi Federico Fellini s'imbatterà nei Vitelloni a Rimini, e ne resterà folgorato; ma il vitellonismo, quello più autentico e profondo, lo aveva già scoperto Brancati a Catania, guardandosi attorno attraverso le grate della sua solitudine giovanile.


“la Repubblica”, 24 ottobre 1984  

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