L'11 luglio 2014 il sito
www.sbilanciamoci.info
postava un articolo a firma Carlo Donolo un articolo dal titolo
Democrazia liberale: morte annunciata.
Nel sito si trova in pdf, datato 15 giugno 2014, il testo integrale
del breve saggio da cui l'articolo è tratto, corredato da una
brevissima bibliografia. E' quello che qui ho ripreso. Mi pare
un'analisi convincente e utile. (S.L.L.)
Norberto Bobbio |
1.
Sappiamo che storicamente
il regime democratico convive con il sistema capitalistico, nel senso
che solo in economie capitalistiche troviamo democrazie (situazioni
cui sia lecito assegnare questo termine in misura almeno
ragionevole). Esiste però una relazione asimmetrica tra i due
termini: la democrazia (rappresentativa o parlamentare) richiede il
capitalismo, mentre il contrario è vero solo occasionalmente. Esso
prospera anche in regimi autoritari o dittatoriali, ma per società
divenute abbastanza complesse un po' di democrazia rappresentativa
sembra necessaria, perché un regime solo e tutto “del capitale”
o solo tecnocratico o solo autoritario è troppo rigido e finisce per
produrre ingovernabilità, come mostra il crollo dei regimi
“comunisti”. La convivenza di democrazia e capitalismo però non
è mai stata pacifica, trattandosi di regimi che seguono logiche
alquanto diverse ed anche opposte. Un punto d'incontro è offerto
dallo stato di diritto e costituzionale, ovvero da un sistema di
istituzioni e di regolazioni che guidano l'attività economica (in
senso molto blando ed indiretto in termini cumulativi, più in tempi
di crisi e meno in altri), e nello stesso tempo offrono spazio per le
attività di una società civile che almeno in via di principio non è
solo una dipendenza del mercato. Tuttavia, la situazione descritta
implica per la democrazia una serie di gravi problemi: per un verso i
principi democratici non riguardano tutta la vita sociale e meno che
mai quella economica, quindi per definizione sono confinati entro
limiti netti (si pensi solo al problema della diseguaglianza sociale,
intrattabile come tale). Per un altro, la democrazia dipende dalle
prestazioni del sistema economico, sotto il profilo del prelievo
fiscale ed anche in altre forme. Il ciclo economico influenza il
ciclo politico e la politica – specie dopo la fine dei partiti di
massa – si alimenta di rendite finanziarie che presuppongono un
patto (più o meno scellerato) con interessi economici forti, e
comunque non democratici.
2.
Dunque, in via di
principio la democrazia convive malamente con il capitalismo, ma vi è
costretta. La storia mostra che altri regimi economici comportano la
morte della democrazia, mentre nel caso del capitalismo abbiamo a che
fare piuttosto con una crisi endemica e alla lunga con un deperimento
delle capacità di governo democratico dello sviluppo. Ciò è stato
da tempo segnalato sia nelle tesi della Trilaterale sulla crisi da
sovraccarico sia nel discorso sulla crisi fiscale dello stato. Nel
primo caso, si sostiene che la democrazia finisce – in combutta con
uno stato di diritto divenuto stato regolatore – per assumersi
troppi compiti, espandendo quella che più avanti chiameremo
“funzione pubblica”. Ciò finisce per sottrarre al mercato
materie ed ambiti pregiati, e quindi a un certo punto l'espansione
dello stato sociale deve essere stoppata e ciò anche per la seconda
ragione: che tale stato costa troppo. Spende troppo in termini di
percentuale del PIL e d'altra parte non è possibile aumentare troppo
le sue entrate senza andare ad incidere sul sistema di diseguaglianza
sociali che sono la base materiale del capitalismo stesso (come fonte
di legittimazione, come stimolo della competitività e mobilità
sociale, come causa di conflitti che alla fine dinamizzano la
società). C'è crisi fiscale dello stato in quanto è inevitabile
uno squilibrio tra entrate e uscite che non può essere sanato.
3.
Chiamiamo abitualmente
democrazia liberale il regime democratico nel capitalismo. Si sono
sempre contrapposte, già nell'800, due tesi: la componente liberale
consiste sia nella convivenza con il capitalismo sia nello stato di
diritto: si tratta di fattori che devono limitare i potenziali
eccessi democratici. Nei casi migliori si immagina una felice
combinazione dei tre fattori socioistituzionali in gioco. L'altra
tesi invece da più peso, coerentemente con il dettato delle
costituzioni più recenti, al fattore democratico e quindi in pratica
ipotizza che lo stato liberale debba ed anche possa - senza danno per
il capitalismo, anzi salvandolo in un certo senso dai suoi eccessi –
crescere fino a diventare stato sociale, come stato cioè in grado di
garantire pari opportunità ed espansione delle capacità e delle
libertà. Si accetta in questo caso, pur con qualche preoccupazione,
l'aumento del peso del prelievo fiscale, l'allungamento della lista
dei diritti sociali e civili da soddisfare, insomma una espansione
della funzione pubblica. Sempre nei limiti comunque di quanto
richiesto dal processo di accumulazione.
4.
La democrazia liberale
oscilla storicamente tra il polo di uno stato liberale
tendenzialmente minimale con una funzione pubblica ridotta, e che
lascia dispiegarsi a pieno gli animal spirits acquisitivi e
accumulativi, e il polo di uno stato sociale con funzione pubblica
estesa, centralità del nesso fiscale, e prove di governance
del processo capitalistico. I puristi pensano che solo nel primo caso
la dizione sia appropriata, mentre considerano il secondo polo come
una degenerazione pericolosa. Essi fondano il sociale
demo-capitalistico (chiamiamolo così) su alcuni motivi essenziali:
la brama di possesso o greed, o il motivo del profitto;
l'autonomia dell'individuo come monade asociale; lo stato solo
guardiano delle leggi essenziali. All'inizio questi argomenti avevano
probabilmente una motivazione principalmente ideologica,
antisocialista insomma. Oggi però si tratta di altro: alle spalle
degli argomenti contro una funzione pubblica allargata c'è
l'imperativo materiale di aprire o costruire per il capitalismo
sempre nuovi mercati, e quindi sempre nuove forme di merce. Nessun
bene o risorsa può sfuggire: organi, prodotti culturali vecchi e
nuovi, beni virtuali e digitalizzati, conoscenza, capitale sociale,
capitale umano anche nelle sue forme più intime e idiosincratiche, e
naturalmente tutto ciò che finora è rimasto “in comune”. Tutto
deve essere spacchettato, spogliato della sua veste sociale, e reso
accessibile al mercato. Il motivo di questa tendenza che non rifiuta
carceri e magari pena di morte affidate ai privati, o formazioni
militari mercenarie al posto dell'esercito nazionale, o la corruzione
su grande scala per ammorbidire le ultime difese non solo dello stato
sociale ma anche di diritto, è che una funzione pubblica allargata
sottrarrebbe troppi beni al mercato. E naturalmente a sostegno di
questa tesi virulenta c'è l'argomento che il mercato è il migliore
allocatore di risorse possibile. Per i beni in questione e tanti
altri analoghi per la verità non c'è traccia di una possibile
dimostrazione della veridicità dell'assunto, né teorica né
empirica. Le condizioni che il mercato dovrebbe soddisfare per
approssimare almeno tale tesi sono troppo esigenti per essere
realistiche ed anzi sarebbero in diretta contraddizione con gli
imperativi effettivi di quello, anche per ridere e non solo piangere,
chiamiamo turbocapitalismo. Al contrario si potrebbe segnalare che le
privatizzazioni (spacchettamento di parti di funzione pubblica per il
mercato) sono state quasi ovunque un enorme affare per il capitalismo
delle rendite e della finanza, con la creazione di nuovi oligopoli,
abusi di posizione dominante e altre forme di commistione e
corruzione specificamente del ceto politico.
5.
C'è qui un paradosso
interno: si parla di mercato, ma in effetti non si sa bene come
spiegare allora il ruolo militante del lobbismo, sia a Washington sia
a Bruxelles, cioè la necessaria esistenza di un mercato politico
delle decisioni economiche, che surroga e sostituisce il mercato
“libero”. La corruzione diretta e indiretta dei decisori non è
mai lontana, e in materia è sufficiente vedersi qualche film
americano tipo House of cards. Il capitalismo mostra con ciò
di dipendere da scelte pubbliche e da finanza pubblica, non di essere
capace di fare meglio le cose, una dimostrazione impossibile nella
maggior atre dei casi. Piuttosto si parlerebbe di fallimento del
mercato: brutality (come dice S. Sassen), corruzione e
distorsione di risorse pubbliche sono la condizione per l'attività
di mercati importanti, in ogni settore di attività. Non si tratta di
deviazioni dalla norma o dalla normalità, ma di caratteri intrinseci
non emendabili.
6.
In sostanza, per avere
nuovi mercati occorre avere non solo meno stato sociale ma anche meno
stato di diritto, e bisogna asservire il più possibile la politica
alle esigenze della redditività privata. Così il momento neolib è
la confutazione delle premesse liberali, e mentre il neolib è un
arma violenta per l'affermazione di una strategia alla fine
antidemocratica, il pensiero liberale non è mai andato oltre una
dignitosa difesa di principi, la correzione puntuale di “deviazioni”
come mostra tutta la storia dell'antitrust. Il suo carattere
normativo, che ha qualche peso nella sfera giuridica, alla fine è
solo l'alibi morale o l'illusione di un ceto intellettuale ignaro del
mondo?
7.
Vediamo meglio cosa
implica la riduzione della funzione pubblica. Abbiamo parlato di beni
che devono transitare dalla sfera pubblica a quella mercantile. Di
che si tratta? Sono o beni pubblici o beni comuni. O beni prodotti
deliberatamente da organismi pubblici e pubblicamente finanziati
(istruzione, ricerca, sanità, housing, trasporti, ambiente,...), o
beni materiali o virtuali quali i beni culturali, la conoscenza, la
coscienza e simili. Questi beni in comune vengono curati più che
direttamente prodotti, dato il loro carattere intrinsecamente sociale
e storico. Anch'essi però esigono investimenti pubblici e
organizzazione. La riduzione della funzione pubblica consiste nella
riduzione della qualità e del tipo di beni che devono essere forniti
fuori mercato. Si noti che in molti casi, e in tutti i principali, si
tratta di beni esigibili come diritti anche fondamentali. Quindi
azionabili giuridicamente nel quadro dello stato di diritto liberale
e sociale. Ridurre la lista e la quantità, poi anche la loro qualità
serve a: risparmiare risorse, e quindi in prospettiva a ridurre la
pressione fiscale, e quindi a “risolvere" la crisi fiscale;
inoltre significa che tali beni il più possibile possano essere
merci per mercati “competitivi”. Un bene che avesse difficoltà a
diventare merce non meriterebbe di essere prodotto e fornito. Tagli
alla formazione, alla ricerca e alla cultura sono così motivati.
Anche nei casi in cui bene pubblico e gestione imprenditoriale sono
ben miscelati.
8.
Si vede dunque che il
ridimensionamento della sfera pubblica serve a risolvere un paio di
problemi del capitalismo a spese della sua componente liberale: già
lo si era visto nelle ondate di deregolazione spesso ai limiti
dell'irresponsabile. Purtroppo l'UE, come è noto, è diventata
fortemente corriva ad queste tendenze oltranzistiche. Meni beni, meno
diritti, meno capacità più greed. Non si tratta neppure di
una critica, ma della semplice constatazione di tratti essenziali di
un regime capitalistico, che del resto si vedono anche in regimi
autoritari tipo Cina o Kazakistan. Che poi i sacrifici richiesti,
necessariamente alle componenti meno dotate della popolazione,
implicati dalla decostruzione della funzione pubblica, siano
presupposto razionale per una ripresa dell'accumulazione che poi
genererà le risorse necessarie proprio per un nuovo e meglio
calibrato nesso fiscale è tutto da dimostrare, ma ha l'aspetto più
di un inganno (forse anche autoinganno) che di un argomento razionale
9.
Ora si tratta di vedere
fino a che punto sia possibile destrutturare la funzione pubblica e
quindi tagliare beni essenziali per lo sviluppo, per capacitazioni,
per stati di benessere esteso) senza danneggiare la stessa
democrazia. È semplice immaginare che questa richieda la
soddisfazione di livelli minimi essenziali di bisogni collettivi.
Altrimenti: viola le proprie promesse e premesse normative e
costituzionali, come nei paesi oggi in Europa più devastati dalle
terapie neolib di austerità, erode le stesse basi della
crescita, impoverendo tutte le forme del capitale trasse quelle
finanziarie (capitale produttivo con perdita di produttività e
capacità produttiva, capitale umano svalorizzato e inutilizzato,
capitale sociale eroso e sfruttato, motivazioni e speranze di
futuro). I livelli di diseguaglianza sempre molto alti e attenuati
solo nel trtentennio postbellico per l'elevamento generale dei
redditi e dei livelli di vita sono un forte limite per processi
democratici non meramente rituali e strumentali. Ridurre la funzione
pubblica significa ridimensionare la democrazia. Questo alla fine il
sogno non tanto segreto dell'ideologia neolib. Essa rende evidente
l'ossimoro di una democrazia liberale che fallisce nel tentativo di
trovare un equilibrio tra democrazia e capitale. La democrazia
liberale diventa impossibile e alla fine risulta indifferente o
inutile per il capitalismo.
10.
Si può confutare questa
tesi sostenendo che il mercato è perfettamente in grado di
sostituire la funzione pubblica. Malgrado Coase però in concreto
nessuno si avventura su questa pista di una società isomorfa con il
mercato e basta. Continua l'alta pressione fiscale, il ruolo
economico dello stato, o quello della'UE, continua la cooperazione
lobbistica tra scelte pubbliche e interessi privati. Ciò mostra che
il capitale vuole certo mercati e nuove merci, sottratti alla sfera
pubblica, ma vuole anche continuare ad attingere a questa importante
risorse finanziaria: la fiscalità. Anche le regolazioni di favore
sono molto importanti, come le commesse pubbliche. Quindi: funzione
pubblica finché serve al sistema delle imprese, lo stato predatore
al servizio di chi lobbia meglio.
11.
In sintesi: vorrei dire
che la formula democrazia liberale si è dissolta nelle entropie
della globalizzazione e della mercificazione globale. Occorrerebbe
trovarne un'altra. Per le ragioni dette oggi la democrazia non è più
liberale, e d'altra parte essa non appare all'altezza delle sfide del
globale e del tipo di capitalismo con cui dovrebbe convivere. Piketty
o no, la democrazia ha senso come lavoro alla riduzione delle
diseguaglianze locali e globali, e come lavoro per rendere più umano
– quale che sia poi la forma concreta - ogni processo, economico e
non, specie nella fase della storia del mondo che sta iniziando.
Evitiamo che – come quella liberale - diventi un residuo
ottocentesco.
12.
Sembra che con il
passaggio all'economia globale e al primato della finanza la
democrazia sia diventata superflua. Ci sono dati intrinseci – la
nuova scala dei problemi, l'assenza di una polity planetaria o
anche solo di una opinione planetaria, il carattere prevalentemente
tecnocratico e lobbistico dei poteri attualmente insediati nei luoghi
della governance globale – che la rendono difficile da
praticare e comunque poco incisiva. Ma con riguardo all'economia la
questione è proprio che quella necessaria convivenza da cui siamo
partiti ha dato quello che poteva dare, la sua matrice ottocentesca
ha esaurito la forza propulsiva. Non c'è da rallegrarsene, perché
non sarà facile immaginare un diverso assetto dei rapporti tra
politica ed economia. Qui però interessa solo il fatto quasi
elementare che l'egemonia neolib ha al suo centro la
contrazione della funzione pubblica, e quindi anche delle garanzie
costituzionali, dello stato di diritto e della dei diritti dell'uomo
e del cittadino. È un giudizio che ricorre spesso nella pagine di
Guido Rossi, che scrive su il sole24H. Uno Smith, un Mill, un Keynes,
i più grandi liberali di ogni tempo, si troverebbero a disagio a
constatare come l'economia si sia mangiata prima la società e poi la
politica. È vero che scienza e tecnica sono spesso state serventi in
questo processo, ma il primato va riconosciuto al ruolo del denaro in
rapporto al greed e alla forma di merce. Di fronte a questa
potenza scatenata la democrazia ha potuto poco e solo per brevi
periodi (il New Deal, i trenta gloriosi). Poiché i fatti hanno le
loro ragioni, non si tratta di un gioco tra buoni e cattivi, ed anche
l'indignazione ha i suoi limiti. Tutto avviene perché c'è un
egemonia in atto, cui democrazia e liberalismo si sono piegati.
Almeno si potrebbe capire per quali intrinseche debolezze ed anche
fatuità, per quali astrazioni generose e velleitarismi normativi,
per quali deficit di saper fare e di saper essere.
13.
Torniamo così alla
nostra funzione pubblica. Essa comprende l'insieme delle funzioni
dedicate alla produzione, genesi e cura di beni pubblici e comuni. In
tal modo stabilisce una demarcazione nei confronti del mercato e del
mondo delle merci. Certo ci può essere produzione privata di beni
pubblici e del resto è comune una ampia mixité operativa, ed
inoiltre gran parte degli input della funzione sono di origine
privata. Tale funzione ha un rapporto stretto con la democrazia
costituzionale e il sistema dei diritti e dei doveri. Questi ultimi
si esprimono principalmente nel nesso fiscale che alimenta la
funzione. Finalità precipua della funzione è di coprodurre
condizioni generali di benessere esteso e di capacitazione almeno
potenziale, le famose pari opportunità. Siamo certamente oltre
l'utilitarismo, come dice giustamente Sen, ma si conserva l'idea
welfarista e felicitaria che condizioni di benessere sono la via per,
e/o l'esito, di spazi di libertà e di autonomia crescenti nel tempo
o comunque valutati tali dai contemporanei. Oggi tali “ambienti”
non sono pensabili se non con riferimento a criteri quali la coesione
sociale, la sostenibilità dei processi, l'intelligenza diffusa. Solo
finché c'è una funzione pubblica degna di questo nome si può anche
dire che la coesistenza tra democrazia è sopportabile, o meglio che
capitalismo e democrazia si scambiano qualcosa di pregio: potenziali
di futuro.
14.
Oggi la funzione pubblica
è in crisi perché: a. costa troppo; b. spreca troppo; c. genera un
eccesso di pressione fiscale; d. genera corporativismi e corruzione;
e. è poco efficiente anche come processo allocativo. Tutto vero. Ma
la funzione pubblica è stata messa deliberatamente in crisi da: un
sistema fiscale sperequato e anti-progressivo, da ampie aree
sistematiche e politicamente coltivate di evasione ed elusione sia in
grande che in piccolo; dalla difficile comprimibilità delle uscite
(prestazioni essenziali, personale) e dalla rigidità verso l'alto
delle entrate. Da qui la terapia: tetti prima, tagli poi, spending
review come copertura. Un fattore importante naturalmente è il fatto
che una quota rilevante dei debiti sovrani circolino sulle piazze
finanziarie internazionali e che quindi sempre meno il governo del
bilancio sia in mani nazionali, anche a prescindere dai parametri di
Maastricht e dal Fiscal compact. Ma quel che conta per il nostro
limitato argomento (che non tocca ovviamente tutti i nessi pensabili
tra i fattori in gioco) è che con la crisi della funzione pubblica
va in crisi non solo il rapporto di coabitazione tra democrazia e
capitalismo, ma anche la democrazia stessa. Che cede le armi ad altri
poteri perfino dentro il recinto delle sue competenze. La politica è
eminentemente adattiva, il governo è il governo del rispetto e
dell'obbedienza a standard e soglie, e non ai principi
costituzionali, i tempi sono sempre stretti, la politica ha bisogno
del ciclo economico, dei soldi ricavati dall'affarismo, del consenso
massmediatico dei grandi gruppi.
15.
La ricostruzione su basi
razionali di una funzione pubblica è quindi al centro di ogni
disegno di rilancio del processo democratico, ormai di fatto già
molto oltre il quadro di riferimento della democrazia liberale. Che
sarebbe stata democratica e liberale se fosse stata capace di “domare
il mostro” (Bobbio), ma è qui che è fallita.
Letture
Scritti di Bobbio e
Pizzorno su Gramsci
Donolo C., Il sogno
del buon governo, 2011
Donolo C., L'arte di
governare processi e transizioni, 2012
Ferrara S., Democrazia
e apertura 2012
Hirschman A.O., Retoriche
dell'intransigenza
Muller, L'enigma
democrazia 2012
Ostrom E., Governare i
beni collettivi 2008
Petrucciani S.,
Democrazia 2012
Piketty Th., Capital in
the 21 century, 2014
Rawls, Liberalismo
politico
Secchi B., La città
dei ricchi e la città dei poveri
Sen A., Commodities
and capabiblities
Sen A., The profit
motive,
Stiglitz Il prezzo
della diseguaglianza
Stiglitz Report 2009
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