Quest’articolo sul compagno cantautore Ivan Della Mea, che
Lega ha dedicato a Clara Longhini e a Stefano Arrighetti, mi è
sembrato bellissimo. Ci restituisce, insieme, un'esperienza artistica
“totale” e un uomo, totale anche lui. Nel privilegiare
(forse giustamente) il Mea libertario Lega omette l'accenno che avrei
desiderato al Mea comunista (quello di O cara moglie, per
intenderci), ma c'è tanta intensità e tanto amore in ciò che
scrive e alcuni passaggi resteranno nella memoria (quello su Vittorini, per esempio). Vivamente consigliato a chi ama la poesia, la musica,
il comunismo, l'anarchia, a chi ama... (S.L.L.)
Con un breve comunicato,
fatto tutto sull’onda dell’emozione – un’emozione che però
non passa – su queste pagine avevo dato notizia della morte di Ivan
della Mea. Il cantautore lucchese di origine, milanese d’adozione,
cittadino e patriota del mondo e delle lotte operaie e di ogni bella
speranza ribelle, se n’era andato nella notte fra il 13 e il 14
giugno del 2009.
Se n’era andato tradito
da un cuore forse troppo maltrattato da troppo grandi illusioni e più
grandi delusioni, da un cuore resistente e ribelle, da un cuore che
lo aveva già avvisato, in più d’un’occasione, di darsi una
calmata… ma Ivan era fatto così, generoso e cocciutissimo
compagno, non s’era mai risparmiato. Lo potevi trovare
indifferentemente sul palco di un teatro ben riscaldato o seduto su
una cassetta della frutta messa di traverso, nel più sperduto
festival dell’Unità del più sperduto paese, a cantare le sue
canzoni, a terminare ogni concerto con l’immancabile Internazionale riscritta da Franco Fortini.
Noi siamo gli ultimi del mondo.Ma questo mondo non ci avrà.Noi lo distruggeremo a fondo.Spezzeremo la società.(...)
Noi siamo gli ultimi di un tempoche nel suo male sparirà.Qui l’avvenire è già presentechi ha compagni non morirà.(...)
Noi non vogliam sperare niente.il nostro sogno è la realtà.Da continente a continentequesta terra ci basterà.(...)Questa lotta che ugualel’uomo all’uomo farà,è l’Internazionale.Fu vinta e vincerà.
Lo ritrovavi, con la sua
“s” dalla pronuncia improbabile, in un serioso convegno
universitario a concionare con illustri antropologhi, luminari della
cultura popolare, ma lo trovavi anche più volentieri a urlare a
squarciagola canzoni popolari nel benemerito cortile dell’Istituto
Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino, la sede, la base o forse il
covo da cui Ivan partiva e tornava per le scorribande dell’ultimo
operosissimo decennio della vita sua.
Ancora una volta mi pongo
la minima regola di parlare dell’Ivan della Mea, cantautore,
scrittore, intellettuale e poeta, fra i grandi del secondo dopoguerra
italiano, e non ci riesco. L’umanità del “Mea”, costruttore di
ponti fra uomini e culture, fra le generazioni e le inquietudini,
straborda ed eccede l’analisi della sua poesia. Lui ne sarebbe
fiero (senza mai dimenticarsi di darmi del “pirla”): non si può
parlare della poesia, della musica, dell’opera di Ivan senza dire i
perché, il percome e soprattutto il “chi”.
Ivan non ha mai
dimenticato gli altri nel suo scrivere e nel suo cantare: due interi
cicli di ballate li aveva dedicati a Gianni Bosio, il suo
interlocutore privilegiato, amico e maestro di vita, iniziatore e
fondatore dell’Istituto de Martino (e - sia detto fra le righe -
curioso storico del movimento anarchico italiano e biografo della
“pazzia” di Carlo Cafiero). Nelle sue canzoni ricorrono tanti
nomi, quello di Giovanna Daffini come quello di Franco Coggiola,
quello di Costante – contadino del suo paese d’origine cui ha
dedicato una struggente canzone – illustre anonimo, come “anonime”
sono le decine di vittime del potere cantate dal “Mea”: lo
studente Giovanni Ardizzone, schiacciato da una macchina poliziotta
nel corso di una manifestazione a Milano, Ciriaco Saldutto, ragazzino
figlio di immigrati dal sud, rifiutato dalla scuola dell’obbligo e
quindi suicidatosi, il “nostro” caro sovversivo Franco Serantini,
assassinato dalla furia della polizia mentre si opponeva a un comizio
fascista, ecc.
Come ebbe a definirli, in
una tarda e disperata canzone, una classe tradita dalla vita, “la
gran classe morta”.
Tutti gli anni tuoi, i troppi affannipreghiere che non hooh vita mia, stupida aporia, portami viafinire è il solo eterno che mi do,oh vita mia, portami viafinire se si può.I vent’anni tuoi, chiusi e solibestemmie che non sooh vita mia, fede o eresia, portami viafinire è il solo credo che mi dooh vita mia portami via finire, e amare no.
La gran classe morta dei compagnigià libera i suoi “no”oh anarchia della vita miadammi poesia, potere io negheròe più frontiere non avròoh anarchia dammi poesiae anch’io con te verrò.
Ivan non era mai solo,
anche se gli fosse capitato di cantar da solo sotto la doccia c’era
un intero mondo a popolare la sua voce e i suoi versi. Per questo
anche ora non si può parlare di Ivan senza evocare il suo mondo,
pazientemente costruito e tenuto assieme col filo e col segno di una
dedizione totale, personale, fisica.
Nella prossimità della
sua fine – non ricordo se subito prima o subito dopo – è uscito
un libro autobiografico, particolarmente centrato sui primi passi e
sui primi anni di Ivan, sulla sua formazione di uomo più che su
quella di artista (se mai avesse senso tale distinzione, soprattutto
per lui). È un libro bello e terribile, si chiama Se la vita ti
dà uno schiaffo (Jaka book), e apre uno squarcio sulla ferita
della vita di Luigi (Ivan lo avrebbero chiamato più tardi tutti)
bambino abbandonato, cresciuto i primi anni in orfanotrofio, fra
tentativi di affidamento e nuovi abbandoni, poi recuperato dal
fratello Luciano – anche lui importante scrittore e intellettuale
della sinistra italiana – e “deportato” in Lombardia, qui
vissuto fra la violenza in casa (litigi in cui si arrivava a prendere
in mano il fucile) e la vita agra di un “fuori” che ha voluto
dire dormire per strada a Milano parecchi mesi. È un libro che non
tace niente delle oscure miserie e degli splendori miserabili di cui
è fatto l’uomo, delle croci e delle delizie di una sessualità
inquieta, e della croce e della speranza di un’eterna inquietudine
politica.
Con quel libro in mano si
capisce meglio ciò che già era insito nella trasparente poesia di
Ivan, quell’amore/rancore, quella lucida rabbia, quel bisogno di
affermazione per nulla corretto politicamente, che – ad esempio –
arma di bastone la mano del bambino, già ferito dalla vita, che per
di più si ritrova il suo gatto sgozzato sotto casa.
El me gattA l’han trovàa distes in mezz a i ortii oeucc a eren ross e un poo sversàame piasaria savè chi l’è quel ostiache al me gatt la panscia al g’ha sbusàa.
L’era insci bell, insci simpatichnegher e bianch, propri on beléese ciapi quel che l’ha copàami a pesciàa ghe s’ceppi ‘l dedrée.
I amis m’han dit “L’è stada la Ninettaquella cont la gambetta sifolinal’emm vista in mezz a i orti ier matinache la lumava ‘l gatt cont on cortel”.
L’è malmostosa, de bruta cera,e l’ha g’ha on nas svisser e grossvedella in gir fa propi pénae tucc i fioeu ghe dann adoss.
Incoeu a l’hoo spetada in via Savonadopo mezzdì, quand lee la torna a càghe sont rivàa adrée a la barbonae su la gamba giusta giò legnàa.
Hoo sentù on crach de ossa rottl’è ‘ndada in terra come on fagottlee la vosava “oi mamma mia”me sont stremì, sont scapàa via
Stasera voo a dormì al riformatóriin quel di Filangieri al numer duum’han dàa del teddy-boy, del brutt demonimi sont convint istess d’avegh reson.
Se g’hoo de divv, o brava gentde la Ninetta me frega niéntl’è la giustissia che me fa tortNinetta è viva, ma el gatt l’è mort.Il mio gattoL’hanno trovato steso in mezzo agli ortigli occhi erano rossi e un po’ rovesciatimi piacerebbe sapere chi è quell’ostiache al mio gatto ha bucato la pancia.
Era così bello, così simpaticonero e bianco, proprio una bellezza,se prendo quello che l’ha accoppatoio a pedate gli rompo il didietro.
Gli amici mi hanno detto “È stata la Ninettaquella con la gamba stortal’abbiamo vista in mezzo agli orti ieri mattinache spiava il gatto con un coltello”.
Ha un brutto carattere, una brutta facciae ha un naso svizzero e grossovederla in giro fa proprio penae tutti i ragazzi gli danno addosso.
Oggi l’ho aspettata in via Savonadopo mezzogiorno, quando torna a casagli sono arrivato dietro alla barbonae sulla gamba sana giù legnate.
Ho sentito un crach di ossa rotteè andata in terra come un fagottolei gridava “oi mamma mia”mi sono spaventato, sono scappato via.
Stasera vado a dormire al riformatorioin quello di via Filangeri al numero duemi hanno dato del teddy-boy, del brutto demonioma sono lo stesso convinto d’aver ragione.
Cosa devo dirvi, brava gentedella Ninetta non mi frega nienteè la giustizia che mi fa tortoNinetta è viva ma il gatto è morto.
Strappo sempre qualche applauso, anche nel centro sociale più Punk-Anarchico, quando presento questa come la prima e più grande canzone di animalismo militante scritta in Italia e, che sappia, nel mondo.
Certo le canzoni in
dialetto di Ivan, quelle che forse pescano più a fondo nel suo
animo, sono anche quelle che più hanno a che fare col libro
autobiografico di cui dicevo, quelle che più e meglio offrono la
mappa di quest’universo di rancore e disperazione che anima, oltre
al citato “El me gatt”, “La canzon del navili”, “La canzon
del desperaa”, “L’era alegra tucc i di”, “Quand g’avevi
sedes ann”, e la meravigliosa “A quell omm”, dedicata alla
memoria di Elio Vittorini: negli anni in cui Ivan faceva il suo
apprendistato di cantore popolare frequentando le mitologiche osterie
Briosca e Magolfa, uscendo all’alba, si poteva scorgere spesso
l’alta figura dell’anziano scrittore, chiusa su di sé, intenta a
percorrere incessantemente le strade intorno alla darsena del
naviglio, quando la notte era colto da accessi di disperazione per la
malattia e la morte del figlio Giusto.
“Cosa hanno fatto per il dialetto questi della lega?” tuonava risentito qualche giorno fa Moni Ovadia, proprio parlando di Ivan, a un grande concerto organizzato dall’Istituto de Martino “se ne riempiono la bocca, ma a difendere il milanese, scrivere grandi poesie e grandi canzoni in questo dialetto siamo sempre stati noi.” E non so precisamente cosa voglia dire quel “noi” di Moni, ma sono impressionato della sua fierezza, dall’evidenza di come la poesia di Ivan possa muovere grandi passioni.A quel ommA quel omm, che incuntravi de nottin vial Gorizia, là sul Navili,quand i viv dormen, sognen tranquilie per i strad giren quei ch’inn mort.
A quel omm, ma te seret ‘na magiache vegniva su l’asfalt de la stradacont la facia on po’ gialda e stranida,cont i oeucc on po’ stracc, un po’ smort.
A quel omm, ma te seret on omm,quater strasc, on po’ d’ombra,nient’alter, no Giusepp, no Gioann, gnanca Waltere gnanca adess mi cognossi el to nom.
A quel omm, a quel tocc de silenzia la nott e anca a lu voeuri dii:in vial Gorizia ghe sont mi de per mie so no se ‘sti robb g’hann on sens.A quell’uomoA quell‘uomo, che incontravo di nottein viale Gorizia, là sul Naviglio,quando i vivi dormono, sognano tranquillie per le strade vagano quelli che sono morti.
A quell‘uomo, ma non eri che una macchiache avanzava sull’asfalto della stradacon la faccia un po’ gialla e stranita,con gli occhi un po’ stanchi, un po’ smorti.
A quell‘uomo, ma eri un uomo?Quattro stracci, un po’ d’ombra,nient’altro non Giuseppe, non Giovanni, neanche Waltere neanche adesso conosco il tuo nome.
A quell‘uomo, a quel pezzo di silenzioalla notte e anche a lui voglio dire:in viale Gorizia sono rimasto soloe non so se tutto questo ha un senso.
“Il Mea” era un
poeta, un poeta capace di scrivere in italiano e in un dialetto
milanese vissuto come arma di resistenza culturale e lotta. Ivan era
un uomo scontroso e dolcissimo con cui era bello confrontarsi e
bisticciare, ritrovarsi e abbracciare, cantare assieme e insieme
tirar tardi. Ha lasciato una grande memoria in chi l’ha conosciuto…
e non parlo per me, che l’ho frequentato parecchio solo nell’ultimo
lustro, da lui piuttosto coccolato come “virgulto” della nuova
generazione di “cantanti di protesta”, insieme a Davide Giromini
e compagnia cantante, parlo soprattutto di Claudio Cormio, o di quel
geniale guastatore musicale che è Paolo Ciarchi, fratelli
d’avventura per la vita, scudieri e cavalieri di mille cantate… è
assieme a loro che oggi ci si trova spesso a parlare di Ivan e più
spesso ancora a cantarlo, quando ci sarebbe sopratutto la voglia di
piangerlo, ma il tempo è poco, le forze dei compagni scarse e le
cose da fare tante.
Il pianto s’ha dunque
da fermare, rimarrà come un dolore sottopelle, un senso di perdita,
di sconfitta dell’esistenza. Il “compagno Mea”, come
sottolineava commosso Toni Jop sull’Unità, se n’è andato per
sempre, senza star più ad aspettare il sole dell’avvenire. Forse
troppi rospi da ingoiare e infamie, guerre fredde, purghe e piani
quinquennali… forse non si può sopravvivere alla caduta di troppi
idoli e ideali collettivi. Fatto sta che ora che Ivan è morto, noi
siamo sempre qui, quello che lui scriveva e quello che lui cantava
non è mica morto, è vivo, per chi vuol stare a sentire.
Forza Giuan, forza
Cormio, forza Paoletto Ciarchi e compagne e compagni del de Martino,
che l’idea non è morta.
A- Rivista anarchica anno
39 n. 349 dicembre 2009-gennaio 2010
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