In una di quelle poesie
che paradossalmente sanno catturare lo spirito del tempo con la forza
delle parole più spiazzanti, dette letteralmente fuori luogo, Sì,
ancora la neve (compresa nel volume baricentrico La Beltà,
del ‘68), Andrea Zanzotto immagina in epigrafe la voce di un adulto
che domandi a un bambino, insinuandosi dal fuori campo, se gli
piaccia essere venuto a questo mondo. Sviato dal titolo che commemora
la neve come sovrana maestà del mondo naturale, il lettore non si
aspetterebbe la risposta del piccolo con il naso schiacciato sul
vetro, perso nel candore che dilaga e lo ipnotizza: si viene invece
subito a sapere che il bambino sta fissando la neve come fosse un
altrove di noia e insensatezza, quasi un lenzuolo calato sulla vera
luce delle cose. Per lui la luce naturale è un’altra e risponde
che sì, gli piace essere venuto a questo mondo ma solo perché «c’è
la Standa».
Per interposta voce e
senza affatto rendersene conto, il bambino-ventriloquo si sorprende
dunque a confessare che la Storia è da preferirsi alla Natura
proprio in quanto l’ha sostituita, metabolizzata. Concentrandola
nei modi di una allegoria, l’epigrafe di Sì, ancora la neve
riassume la straordinaria vastità del campo poetico di Andrea
Zanzotto, dove si profilano (poli di un conflitto che non può
conoscere risoluzione ma soltanto perpetua mediazione) le zone
confinarie di Natura e Storia, Sapienza dei dotti e Sapere degli
stolti o insomma, per dirla con due fra le parole che furono più
care al maestro di Pieve di Soligo, i margini incerti fra Semiotica e
Petèl.
Esile, ignara di sé e
della vastità del mondo, quella voce infantile è la stessa di un
giullare di dio che profetizza (nel senso etimologico, di chi nomina
al presente) la grande mutazione che in Italia venne detta del Boom o
del miracolo economico, insieme con la relativa osmosi di naturale e
artificiale, l’universo di presenze mutanti che ammiccano al
supermercato e si specchiano sulla superficie levigata della
plastica. È in effetti un luogo comune ben fondato riconoscere nella
poesia di Zanzotto tanto il diagramma della mutazione biopolitica che
comporta lo smaltimento del naturale e la caccia manu militari alle
tracce residue nel paesaggio, quanto l’ontologia del mondo come
distesa di merci e palinsesto di una economia politica che ritiene
gli individui quote fungibili e talora eccedenti nel valore di
scambio: «siamo un segno senza significato» scriveva nella medesima
poesia citando uno della sua costellazione, Hölderlin, di fianco a
Ungaretti e Paul Celan o magari, defilato nel suo piccolo cosmo
domestico, l’abate Zanella.
Acclamato come un Signore
dei Significanti, letto con l’ammirazione nonché la soggezione che
si deve a partiture liberate da un acceleratore di particelle o
chiuse nel mixage di un lirico petrarchista divenuto col tempo poeta
di spessori danteschi, per lo stratificarsi delle più diverse lingue
e orribili favelle, non andrebbe tuttavia dimenticato che nel nucleo
profondo della sua testualità vibra una nota elementare, ossessiva e
perciò incandescente. Essa corrisponde allo sguardo del bambino
pensoso e preoccupato dalla neve, un Pollicino messo in salvo oltre
il bosco del Montelloma per essere subito accecato da una luce
sanguinaria, livida: mentre rumina in dialetto la sua filastrocca,
sente che non gli è concesso alcun candore e che appunto lo
aspettano i neon del grande magazzino.
Un paese dei balocchi o
un mattatoio?
A decenni di distanza
quella premonizione ritorna micidiale, necessaria, e fraterna oramai.
"il manifesto" 19 ottobre
2011
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