Marlene Dietrich con Emil Janning in "L'Angelo azzurro" |
Tra Gozzano e Pirandello.
L'indimenticata Lola-Lola nell'interpretazione del grande critico
triestino.(S.L.L.)
Marlene Dietrich in "Gigolò" |
Era bugiarda la
bella berlinese?
«Allo sfiorire della sua
stagione / disparve al mondo, sigillò le porte / della dimora e ne
restò prigione. / Sola col tempo tra le stoffe smorte, / attese gli
anni senza amici, senza / specchi celando al popolo, alla corte /
l'onta suprema della decadenza...». I versi che Guido Cozzano dedicò
alla vecchiaia della Contessa Castiglione tornano in mente di
fronte al lungo tramonto di Marlene Dietrich superstar, asserragliata
con i suoi ricordi fra le mura di un appartamento parigino. Vi è
penetrato un paio di anni fa Maximilian Schell, che dalla ex-diva
riusci a ottenere un lungo colloquio registrato, ma neppure
un'immagine. Sicché il film Marlene è l'unico documentario
su un vivente in cui il «personaggio io» non compare; e anche le
risposte all'intervista, pur arpeggiando sulle abituali corde del
sarcasmo, non sfuggono alla ripetitività di una terna svogliata:
«Ja», «Nein», «Quatsch» (sciocchezze).
Il 27 dicembre prossimo
Lola-Lola compirà 84 anni, la sua nascita essendo ormai
retrodatatale con certezza dal 1904 al 1901. E' l'età in cui nella
cucina segreta dei giornali si ha diritto al «coccodrillo», cioè
all'elogio funebre preconfezionato; e il coccodrillo di Marlene è
del tipo imbalsamato, cioè non suscettibile di aggiornamenti. La sua
vicenda artistica è esaurita, non può succederle altro. Dopo aver
sfidato il tempo fino all'estremo limite della resistenza, la stella
in qualche modo si è spenta; non recita più, non canta, non si
mostra in pubblico. L'ultima apparizione sullo schermo gliela strappò
a suon di dollari David Hemmings regista del film Gigolò
(1978): un volto mummificato, immobile nella penombra, da cui una
voce d'oltretomba sortiva per accennare le parole di una canzone in
tedesco. Il congedo spettrale di una grande femmina che resta tra le
figure misteriose del secolo. Nonostante tutto quello che si è
raccontato di lei e l'accattivante franchezza dei suoi scritti (dal
vecchio Abc di Marlene Dietrich all'autobiografia, ora
disponibile anche in italiano), la verità sulla Dietrich è
difficile da stabilire. Come memorialista, più sembra autentica,
disarmata, sempliciona, più il lettore la scopre reticente, elusiva,
bugiarda. A momenti, le sue pagine sembrano addirittura il diario di
una schizofrenica. Il mondo ha visto in lei una Circe? Marlene se la
gode a rappresentarsi come bambina timida, solitaria, perfino brutta;
e via via violinista frustrata («non sarei mai diventata
concertista»), allieva qualunque di una scuola di teatro («non ero
granché»), tranquilla, agli esordi professionali solo se i ruoli
erano piccoli. In grado dì cantare «un pochino».
Com'è scaturito da
questa vieta mammola il devastante erotismo di Lola-Lola, capace di
strappare chicchirichì da galletto impazzito al più austero
rappresentante del corpo insegnante? Come mai da una vocazione di
«Hausfrau» (o casalinga quieta) è saltato fuori il
monumento della «Hure», la donnaccia rovinafamiglie? Per
scherzo, sembra insinuare Marlene, o per caso. Tant'è vero che
quando recitò una particina in Il vaso di Pandora, ai tempi
delle notti di Berlino, il personaggio emblematico di Lulu la
peccatrice la interessò così poco che non afferrò neppure il
soggetto del dramma di Wedekind.
E quando in una rivista
fece con un'altra attrice il numero delle Dolly Sisters, quasi non si
accorse che si trattava di una parodia del rapporto lesbico, reso
attuale dal successo di La prigioniera di Bourdet. E anche a
Hollywood, quando il pigmalione Josef von Sternberg la mise «in
frack und zylinder» al centro di un night club esotico e le fece
baciare sulla bocca una spettatrice con gesto inequivocabilmente
androgino, lei continua a dire che fu un gioco. O un caso.
Del resto Marlene non si
considerava attraente né per uomini né per donne. E non si piaceva:
le famose cosce esibite da Lola-Lola le davano solo il fastidio di
sentirsi troppo grassa. Dalle sue confessioni emerge costante una
scissione di personalità: da una parte la vamp provocatrice e
arrogante, gambe divaricate e gola profonda; dall'altra una signorina
di buona famiglia e ottima educazione, moglie fedele, madre e nonna
esemplare, cuoca perfetta.
O tutto con una perpetua
e dispettosa voglia di anticonformismo: lo scoppio della prima guerra
mondiale la sorprende ragazzina innamorata della sua insegnante di
francese; durante la seconda il Terzo Reich la proclama ufficialmente
nemica della patria. E infatti lei dichiara di aver odiato un solo
essere umano, Adolf Hitler, ma in realtà ne ha amato poco anche
altri. Fra gli esemplari maschi salva ben pochi: il rispettatissimo
marito Rudolf Sieber, von Sternberg, Hemingway, David Niven, Spencer
Tracy e il «favoloso» George Raft. Per molti altri scocca giudizi
impietosi. Max Reinhardt? Uno che millantò di essere il suo
scopritore senza averla mai vista. Jannings? Uno psicopatico. Maurice
Chevalier? Un fessacchiotto. John Wayne? Un pessimo attore, che
dichiarava di non aver mai letto un libro. Ronald Colman? Lasciamo
perdere. E Jean Gabin, che voleva sposarla, si comportava come un
bimbo senza mamma.
Di veritiero in queste
confessioni c'è senza dubbio il tremendo ascendente, al limiti del
plagio, che ebbe sulla bella berlinese quel von Sternberg austriaco
crudele, di cui si ricorda la battuta tradizionale con cui dava
riposo alla troupe: «Zigarettenpause! Miss Dietrich piange!». Sui
loro rapporti autentici (fu una osmosi artistica? fu un grande amore?
quali furono i veri motivi della separazione?) Marlene racconta poco.
Sa invece rispecchiare in modo plausibile l'atmosfera della «fabbrica
dei sogni» negli anni Trenta, quando i cineasti lavoravano per
creare grandi fidanzate di celluloide destinate a tutti i popoli
della terra. Poiché i centimetri di pelle esponibili erano
attentamente razionati, costumisti e fotografi dovevano impegnarsi
alacremente sul terreno della bizzarria e dell'allusione. Non si
parlava ancora di sex symbols, come accadde per Marilyn Monroe,
quando le dive cominciarono ad avere la licenza (e più avanti
l'obbligo) di spogliarsi. Ai tempi della Dietrich (e della Garbo,
della Harlow, della Lombard...) le belle dello schermo erano soltanto
Glamour Girls. E, come Marlene fa enunciare con estrema proprietà
all'ammiratissima Mae West, «dovevano fare tutto con gli occhi».
Gli storici del cinema,
come già i critici, sono divisi nel giudicare il talento di Marlene:
personaggio di dimensione mitologica, fu anche (almeno qualche volta)
buona attrice? Pur vantando la propria disponibilità e
professionalità, 1'interessata propende modestamente per il no. Come
artista si giudica piccola piccola. E lascia intendere che quello
della diva fu per lei un travestimento indossato con buona grazia e
costante senso dell'umorismo. Altri diranno, invece, che fu la
realizzazione di un suo desiderio inconscio, una specie di destino.
Sui segreti di Marlene continueranno ad esercitarsi a lungo gli studiosi dei fenomeni di costume del XX secolo, ma forse l'anziana signora di Parigi non sa più nemmeno lei dov'è la verità. Da Gozzano ci ritroviamo in pieno Pirandello... Una buona battuta di congedo da suggerire a Marlene potrebbe essere: “Io sono colei che mi si crede”.
Sui segreti di Marlene continueranno ad esercitarsi a lungo gli studiosi dei fenomeni di costume del XX secolo, ma forse l'anziana signora di Parigi non sa più nemmeno lei dov'è la verità. Da Gozzano ci ritroviamo in pieno Pirandello... Una buona battuta di congedo da suggerire a Marlene potrebbe essere: “Io sono colei che mi si crede”.
"la Repubblica", 27 ottobre 1985
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