Amore e morte, per
eccellenza, sono i temi della poesia. Uniti in un vincolo tenace,
stabile proprio perché soggetto a tutte le metamorfosi, tutte le
contraddizioni. Ed è così almeno da quando i fondatori della nostra
lingua, nonché della poesia moderna, Dante e Petrarca, hanno avuto
in sorte la «grazia ben formidabile» (così una volta, più
tagliente che mai, Edoardo Sanguineti) del fatto – storico quanto
mitobiografico – che «l’amata muore».
Poeta per antonomasia
petrarchesco si è mostrato, sin dagli esordi di Dietro il
paesaggio (1951), Andrea Zanzotto. Esibitamente e quasi
provocatoriamente, nel tempo del massimo culto per Dante. Così
celando quella tensione contraria che nel sistema venoso-arterioso
della sua lingua rappresenta appunto Dante: matrice sempre più
evidente col progredire dal big bang della Beltà (1968)
all’ultimo Conglomerati (2009) – passando per l’ingens
sylva della «pseudotrilogia» composta dal Galateo in Bosco
(1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986).
L’ipersonetto che si staglia adamantino al centro del «gnessulogo»,
il magma verbale del Galateo in Bosco, è il più
virtuosistico monumento alla «forma», spazio «templare» in cui
trovare riparo dalla bufera della storia (il Galateo è il
libro in cui affiorano i traumi
delle Grandi Guerre novecentesche). E dunque a Petrarca, certo. Ma
scritto in una lingua «aspra e chioccia», irta e frusciante, che in
modo molto più sostanzioso è a Dante che guarda.
Contrari senza
sintesi
Quella costituita da
Dante e Petrarca è solo la prima coppia dicotomica che struttura
quelle che Zanzotto, al momento di raccogliere una prima volta i suoi
fantastici saggi letterari, chiamerà le proprie «fantasie di
avvicinamento». Presto si affaccerà un’altra coppia di modelli,
Artaud e Mallarmé: nel primo individuando «il rifiuto di uscire
dalla fisicità, dalla corporeità […]secondo una modalità da
chirurgia o addirittura da macelleria»; nel secondo «una spinta
all’uscita totale», un’ansia di «dissoluzione del corporeo nel
verbale». Astrazione ed empatia, immaginario e materialità, lingua
e corpo in Zanzotto si fondono in una stessa ossessione identitaria.
Ogni volta nella psiche
zanzottiana si accampano insomma – nell’isterica coazione a
definirsi, definendo e ri-definendo ogni volta l’essenza della
poesia, della scrittura, dell’esistenza stessa – coppie di
contrari che non trovano sintesi, che di continuo si attraggono per
ogni volta confliggere. Quella che gli è più connaturata,
storicamente parlando, contrappone Ungaretti, «testimone della
libertà», a Montale «poeta della necessità». Ma nella sua
infinita stanchezza, anche pochi giorni fa – intervistato per lo
speciale dedicato da Radio Tre ai suoi novant’anni – Zanzotto ha
voluto citare un’ennesima coppia polare che fa sprizzare scintille:
Pascoli e Campana.
Amore e morte, si diceva,
non possono non essere grandi temi di tutti questi poeti. E invece
Zanzotto è forse l’unico grande che non pare parlarne mai. Non c’è
«amata» cui si rivolgano carmi e charmes, né viene nominata
la di lei o la propria «morte». Ma naturalmente è vero il
contrario. Proprio come per l’eros – mai nominato perché intride
di sé ogni figurazione, imbibe ogni scorcio, rende ogni aspetto del
mondo scivoloso ed esilarante – si potrebbe argomentare che un
senso di morte è immanente a ogni poesia, ogni frase di Zanzotto.
Non solo per la strenua interrogazione sul trauma storico dietro, o
sotto, la coltre cauterizzante del paesaggio (un’«Arcadia»
definiva la sua heimat in una lettera a Ungaretti, ma –
specificherà in un’intervista tarda, concessami sempre per Radio
Tre qualche anno fa – un’«Arcadia horror»: quella topica del
teschio che fa capolino nel fogliame… et in Arcadia ego, appunto).
L’abisso
dell’innominabilità
Il grande tema del
passaggio (cui esplicitamente è dedicato Pasque, nel ’73)
si può infatti leggere come messa in scena antropologico-culturale
di questo estremo limite del linguaggio che Zanzotto, quasi unico nel
nostro tempo, corteggia lungo tutta la sua opera. A rileggere oggi
Oltranza oltraggio, grande poesia incipitaria della Beltà e
testomanifesto dell’«oltranza» psicolinguistica che da quel
momento in poi irresistibile pervade l’opera di Zanzotto, non si
può che interpretare così: perfetto equivalente novecentesco,
debitamente deformato e deformante, dell’Infinito
leopardiano.
Chi dice «io» si
rivolge a un’entità innominata, un tu assoluto ma anche «vuoto»,
che riscrive e trascende i lirici «tu» di Montale […] Unico
possibile riferimento di questo tu «vuoto», balbettato da un «io»
quasi altrettanto cancellato, sporgentesi sull’abisso
dell’innominabilità (questo il senso del riferimento dantesco, al
XXXIII del Paradiso), è proprio la beltà. Ossia il
nume-entità cui è dedicato il libro introdotto dal componimento:
immagine splendente e terribile di una «bellezza» naturale
mostruosa e onni-fagocitante, impietrante testa di Medusa e sfinge
leopardiana «di volto mezzo tra bello e terribile» (quella del
Dialogo della natura e di un islandese, naturalmente). Nei
termini lacaniani famigliari a Zanzotto, insomma, assistiamo qui
all’incontro col Reale, il nonsimbolizzabile, appunto l’indicibile.
Ovvero la Morte. Il non-essere, l’anti-materia orrorosa davanti
alla quale tremante si fronteggia, in clima da catastrofe
sub-atomica, l’«inconsutile nonnulla», la docile fibra che dice
«io».
Tanto si è discusso del
balbettio di Zanzotto. Delle intermittenze, degli schiocchi e degli
scoppiettii che di continuo frammentano e infinitamente segmentano un
dettato, per altri versi, retoricamente strapotente (e a rischio di
onnipotenza). È proprio con «l’interruzione», ha scritto
Jacqueline Risset su queste pagine il 9 ottobre, che Zanzotto «si
avvicina ancora di più alla sorgente stessa del poetare».
Creaturale petèl (la pre-lingua del linguaggio infantile, cui
Zanzotto guarda con Piaget ma, ovviamente, già con Pascoli) o
piuttosto lesione psichica, disturbo post-linguistico, arabesco brut,
sgorbio informale paradossalmente estetizzante o sintomo angoscioso
di paralisi, di un’incapacità altrettanto paradossalmente fondante
(incapacità di dire, così moderna dopo Auschwitz e così
postmoderna, ha aggiunto con intelligenza Stefano Colangelo, «dopo
l’oblio diffuso di Auschwitz»).
Allignando infestanti
alla base del monumento innalzatogli in vita, monumento da parte
nostra certo
doveroso ma anche, per
lui, così stremante (alla radio la voce di Zanzotto, che una volta
deliziava come quella di un senex puer, risuonava ormai
strascicata, rotta, catacombale), negli ultimi anni si sono infittiti
i distinguo, le impazienze, i frettolosi ridimensionamenti di una
generazione di autori sedicenti postnovecenteschi: che non a torto
identificano nella sua opera l’emblema più caratteristico di un
secolo in cui la poesia ha osato sfidare – lo si diceva – la
propria anti-materia: sondando i territori del disturbo, del rumore,
persino del silenzio. È proprio questa, negativa, la «sorgente
stessa del poetare» cui allude il crepitìo del fuoco zanzottiano. È
di fronte a questo lutto del tutto che sorge, ogni volta scandalosa,
l’oltranza della lingua: col «piacere del principio» che solo è
in grado di interrompere il silenzio e superare il rumore, e che
sempre le è connaturato (diceva Zanzotto con le sue formule più
folgoranti): principio speranza, anti-entropico «principio
resistenza» che ostinato si oppone al dilagare del nulla nelle cose,
nel tempo.
Un coraggio che
balbetta
Non si può non
condividere, allora, il sentimento che con Andrea Zanzotto muoia il
secolo troppo breve in cui la poesia ha voluto e saputo osare,
precisamente, questo inosabile. All’opera di Zanzotto, che per
tanto tempo ci calzava sulla pelle della mente come una guaina
perfetta, da qualche tempo abbiamo cominciato a guardare da una certa
distanza. Ma in questo modo non ci appare affatto diminuita. Al
contrario ci sembra ora come il segno più straordinario, forse, del
coraggio espresso da un secolo oggi impopolare (e il perché si
capisce: nel tempo del nessun coraggio, della nessuna sfida). Perciò
balbetta, questa poesia: perché non esiste coraggio senza aver vinto
una paura – e proprio la paura è il sentimento in cui ogni volta
ci immerge Zanzotto, e da cui ogni volta ci tira fuori.
La «serachiusascura»
del male oscuro dell’io è la tinta profonda, l’aere perso del
fondale, lo schermo-paesaggio in cui – quando meno te lo aspetti –
balugina a salvazione la «lanternina cieca» di Pasque.
Nel terzo millennio,
nella béance «outré» in cui siamo costretti a
inoltrarci senza di lui, ci illumineranno ancora a lungo i suoi
barlumi, i suoi fosfeni. Quando saremo dominati dalla paura, e lo
saremo ancora come oggi lo siamo, non potremo che tornare a guardare
a lui, al «dolcissimo padre» che (dice Stazio di Virgilio, nel XXI
del Purgatorio) è stato come il servo lampadoforo, colui che
avanzando nel buio rischiarava la strada a quanti venivano dopo di
lui: «quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non
giova». Sempre nella Beltà, con ironia sferzante Zanzotto si
rivolge Al mondo e lo incita a tirarsi «su», a salvarsi da
«questo super-cadere super-morire» impugnando il proprio stesso
codino come il barone di «münchhausen». Ma è esattamente quanto
ha fatto lui, Zanzotto, con tutti noi. E noi, piccoli münchhausen,
di questo oggi gli rendiamo grazie.
Il manifesto, 19 ottobre
2011
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