Posto qui una sintetica rievocazione giornalistica dello scandalo che 40 anni fa portò alle dimissioni il Presidente Usa Richard Nixon. A me sembrano pertinenti anche le impertinenti allusioni che chiudono l'articolo. (S.L.L.)
La vicenda Watergate è
entrata nel nostro immaginario e nel nostro vocabolario. Usiamo il
suffisso -gate per connotare i grandi scandali (Irangate,
Rubygate), parliamo di “pistola fumante” (smoking gun)
per indicare una prova evidente, chiamiamo “gola profonda” (deep
throat) la fonte coperta che rivela i segreti di un’indagine.
Tutto iniziò la notte
del 17 giugno 1972, quando furono scoperti e arrestati cinque uomini
che erano penetrati all’interno degli uffici di Washington in cui
si organizzava la campagna elettorale e la raccolta di fondi per il
Partito democratico. Stavano cercando di riparare alcune cimici
piazzate in precedenza per spiare l’attività del comitato
elettorale. Seguirono due anni d’indagini giudiziarie, di polemiche
politiche, d’inchieste giornalistiche (tra cui quella famosissima
di Bob Woodward e Carl Bernstein, i reporter del Washington Post che
misero a disposizione dei lettori anche le rivelazioni di “Gola
profonda”).
Emerse via via il
coinvolgimento di uomini del Partito repubblicano e dello staff del
presidente. Non solo Nixon sapeva, ma aveva anche partecipato
attivamente ai tentativi di insabbiare il caso e deviare le indagini.
Una commissione del
Senato degli Stati Uniti avviò un’inchiesta, con sedute pubbliche,
trasmesse in diretta dalle tv e seguitissime nel Paese. Nel corso di
una di queste udienze, fu rivelato che tutte le conversazioni
avvenute nella Sala Ovale erano registrate. Il procuratore speciale
(special prosecutor) Archibald Cox chiese allora alla Casa Bianca di
avere i nastri: potevano essere la prova che il presidente non era
coinvolto e diceva la verità.
Nixon si oppose, in nome
del principio del “privilegio dell’esecutivo”. Ordinò anzi al
giudice Cox, attraverso il ministro della Giustizia Richardson, di
lasciar cadere la sua citazione in giudizio. Il prosecutor
rifiutò. Nixon allora ordinò di cacciarlo. Al dipartimento
della Giustizia seguì il “massacro del sabato sera” (20 ottobre
1973): le dimissioni immediate del procuratore generale Richardson e
del suo vice Ruckelshaus, che si rifiutarono di licenziare Cox.
Fu l’avvocato generale
Robert Bork a eseguire infine l’ordine. Ma il successore di Cox, il
procuratore speciale Leon Jaworski, proseguì l’indagine e continuò
a chiedere i nastri originali e non le trascrizioni parziali offerte
dalla Casa Bianca. La questione arrivò davanti alla Corte suprema
degli Stati Uniti. Il 24 luglio 1974, questa respinse all’unanimità
la richiesta del presidente di far valere il “privilegio
dell’esecutivo” e ordinò di consegnare i nastri al procuratore
speciale. Vi era registrata anche la conversazione del 28 giugno (la
“pistola fumante”), in cui Nixon e il capo dello staff della Casa
Bianca discutevano un piano per ostacolare le indagini, facendo in
modo che la Cia facesse credere all’Fbi che i nastri riguardavano
la sicurezza nazionale, dunque non potevano essere resi pubblici. A
questo punto, dopo la decisione della Corte suprema e davanti a
un’opinione pubblica attenta e partecipe, Nixon capì che la
battaglia era persa. Il 30 luglio eseguì l’ordine e consegnò i
nastri. Pochi giorni dopo lasciò la Casa Bianca.
Ogni riferimento al
Quirinale, al Senato dei nominati, alla narcotizzata informazione
italiana, alla trattativa Stato-mafia, ai magistrati di Palermo, alle
telefonate distrutte del presidente e alla Corte costituzionale che
gli dà ragione è puramente casuale. O no?
Il Fatto Quotidiano, 27
luglio 2014
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