Commentando la Fisiologia del gusto
di Brillat-Savarin, Roland Barthes ci ricorda che il celebre
scrittore ottocentesco francese “ha compreso chiaramente che, in
quanto soggetto di discorso, il cibo era una specie di griglia,
attraverso la quale si potevano far passare tutte le scienze che noi
oggi chiamiamo sociali ed umane... il cibo fu per lui una specie di
operatore universale del discorso”. Anche Luigi Veronelli ha
lavorato su questa strada, infatti ci ha insegnato l’ascolto del
racconto di un vino e di ogni altro prodotto della terra, ma anche
l’ascolto di ciò che sta dietro il prodotto finale, le relazioni
sociali, ambientali, economiche e quindi politiche.
Hanno fatto benissimo quindi i compagni
di Gualtieri ad organizzare un incontro su “Veronelli politico”.
“Veronelli politico” è un titolo azzeccatissmo. Il comunicato
stampa che presentava la serata conteneva invece – secondo me –
una mezza verità. Veronelli rischia di essere messo “nel giardino
dei frutti dimenticati”, sosteneva il comunicato. Non credo che
questo possa succedere. Non occorrerà aspettare nemmeno un
anniversario particolare della sua scomparsa – quando le “vedove
enogastronomiche” di Luigi si scateneranno, statene certi – per
verificare che così non sarà, infatti già da qualche anno esiste
un premio Veronelli, finanziato e promosso niente meno che da Paolo
Panerai, finanziere e editore di “Milano finanza” e “Capital”
(esiste perfino un’Associazione Luigi Veronelli per il vino
italiano che raggruppa trasversalmente un centinaio di
parlamentari). Quello che il citato premio dimentica e le future
manifestazioni probabilmente dimenticheranno è e sarà proprio la
dimensione politica di Luigi. Forse ne accenneranno soltanto di
sfuggita, mettendo invece l’accento sugli aspetti enogastronomici e
culturali.
Ma cosa intendiamo per “politico”?
Intendiamo le enunciazioni di principio o la concretezza
dell’intreccio tra pensiero e azione? Sappiamo che le dichiarazioni
di principio lasciano il tempo che trovano, infatti tra un fine
settimana di cure estetiche da Chenod e un pranzo dallo chef di
grido, tra un idiota programma tv e un’intervista al settimanale di
gossip, ultimamente si dichiarano anarchici anche alcuni
decerebrati che appaiono in televisione.
Ci interessa invece la dimensione
politicamente pragmatica ed ereticamente anarchica di Veronelli e
l’intreccio tra pensiero e azione che contraddistinse soprattutto i
suoi ultimi anni.
Prima di parlare del Veronelli politico
nel senso di cui è interessante parlarne, proviamo però a dare
qualche cenno della biografia politica e delle sue frequentazioni
politiche. In questo mi appoggio solo sulla mia memoria e su ciò che
lui mi ha raccontato nel corso di nove anni di amicizia. Non ho avuto
il tempo di fare ricerche e neppure mi interessa farle. Credo che nel
fare la storia si corra sempre il rischio di bloccare il divenire, di
piantarsi nel rivendicare un’eredità, un’origine. Meglio fare la
geografia, una memoria fatta di intensità, eventi, lampi, battiti,
campi magnetici che possa servire per tracciare sentieri sperimentali
per il futuro, per vivificare l’intensità del pensiero
veronelliano senza ripetizioni.
Un anarchico liberal?
Luigi nasce a Milano nel 1926,
frequenta il liceo classico Parini, poi l’Università statale, dove
è allievo di Giovanni Emanuele Bariè, teorico della filosofia
neotrascendentale. Nel ’43 ha 17 anni ed è antifascista ma non
partecipa alla Resistenza, di ciò gli rimarrà sempre un dispiacere.
Nel dopoguerra segue un ciclo di conferenze di Benedetto Croce presso
la sede del Partito Liberale a Milano. Lì sentirà dal vecchio
filosofo la frase che spesso citava: “l’umanità viene da
un’anarchia selvaggia, il suo scopo è pervenire a un’anarchia
superiore”. Luigi usava questa frase del moderatissimo filosofo
idealista per convincere anche gli interlocutori più cinici e
disincantati a prendere in considerazione la possibilità utopica.
Nel 1956 fonda la Veronelli Editore. Le
pubblicazioni hanno subito il segno dei suoi interessi libertari,
libertini, enogastronomici: Racconti, novelle e novelline di
de Sade (che gli procurerà una denuncia e la condanna al rogo dei
libri, l’ultimo rogo di libri fatto in Italia), La proprietà è
un furto di Proudon, le poesie di Pagliarani, la rivista “Il
gastronomo” e quella di filosofia “Il pensiero”, poi –
interessante – per qualche anno (dal 1961 al 1964?) fu l’editore
della rivista “Problemi del socialismo” diretta da Lelio Basso.
Interessante e strano. Il socialismo di Lelio Basso aveva delle
connotazioni libertarie, antistaliniste e consiliariste (Basso fu tra
l’altro curatore delle traduzioni italiane degli scritti di Rosa
Luxemburg) ma era fortemente marxista. Nel panorama politico pre ’68
– quindi prima dell’avvento di quella che verrà definita
sinistra extraparlamentare – Basso si colloca idealmente a sinistra
del PCI. Veronelli, nelle nostre chiacchiere, ha sempre avuto in
stizza comunismo e marxismo.
Queste dichiarazioni erano origine di
amichevoli baruffe (altre erano originate dalle sue proposte di
partecipazione elettorale libertaria, dalla sua visione romantica
della figura del contadino, dove i latifondisti non si distinguevano
dai braccianti, dalla proposta delle de.co.). Gli ricordavo che, se è
pur vero che in nome del comunismo si sono commessi crimini paurosi,
se è vero che gli anarchici e i comunisti antiautoritari furono i
primi a subire le conseguenze del comunismo di Stato, e anche vero
che l’anarchismo come movimento politico viene dalla storia del
movimento proletario e dalla cultura della Prima internazionale, che
lo slogan di Malatesta era “non c’è comunismo senza libertà,
non c’è libertà senza comunismo”; ma da quell’orecchio Luigi
non ci sentiva. Possiamo dire che era un anarchico liberal, ed
è quindi strana la sua adesione alle idee di Lelio Basso e la
pubblicazione di “Problemi del socialismo”.
Veniamo invece alla politica
politicante. Luigi sosteneva di essere stato iscritto al Psi fino
all’arrivo di Craxi, arrivo che lui collocava intorno alla metà
degli anni Sessanta. Verso la fine degli anni Settanta fu consigliere
comunale a Ponte di legno (dove aveva una casa di vacanza) per una
lista legata al Psi e fu direttore della stazione sciistica di Passo
Tonale. Verso la fine degli anni ’80 o inizio ’90 (prima di
“manipulite”, del tracollo della prima Repubblica e della lobby
di Craxi) fu invitato – come molti altri volti celebri della
televisione – a candidarsi alle politiche nelle liste del Psi.
Rinunciò – pur tentato (l’ho scampata bella!, diceva) – grazie
al consiglio di Gianni e Paola Mura. Questo ricordo ci dice qualcosa
dell’ingenuità di Luigi in merito alla politica politicante.
Dopo il grande successo televisivo
degli anni ‘60 e ’70 con la trasmissione A tavola alle sette,
Veronelli partecipa al lancio della terza rete Rai, è lì che gli
“scappa” di dichiararsi anarchico, iniziando a entrare nelle
antipatie di vari dirigenti che gliela faranno pagare escludendolo
definitivamente dai teleschermi – così lui la raccontava. In quel
periodo – inizio anni Ottanta – in varie interviste e articoli
che mi è capitato di leggere anche di recente Luigi si dichiara
“anarchico” o “anarca”. “Anarca” è un concetto di Ernst
Junger, scrittore reazionario e nazista eccentrico, che proponeva un
aberrante anarchismo al di là dell’anarchismo. L’anarca –
sosteneva Junger – non rifiuta il potere perché è un essere
superiore che non si fa corrompere dal potere! Non credo
assolutamente che Veronelli condividesse le idee di Junger, penso si
fosse fatto affascinare dal neologismo.
In quel periodo viene contattato da
varie realtà del movimento anarchico.
L’incontro con i movimenti
Nel 1984 – anno orwelliano – il
centro studi libertari Pinelli di Milano e altri gruppi organizzano
un grande convegno-raduno internazionale anarchico a Venezia.
Veronelli manda in omaggio parecchie bottiglie di vino e sceglie il
vino da imbottigliare, da vendere agli stand gastronomici, e la frase
da apporre in etichetta. Conservo ancora – vuota, ovvio! – quella
bottiglia.
Diventa amico degli anarchici milanesi,
ma il gruppo politico ribelle con cui entra in sintonia collaborativa
è quello del centro sociale autogestito Magazzino 47 di Brescia. Si
tratta di una delle realtà antagoniste che nascono alla fine degli
anni Ottanta e non hanno una connotazione precisa, è un’area che
si coagula attorno a ciò che resta del movimento dell’autonomia
non organizzata e di nuove controculture libertarie. Con quest’area
– i “giovani estremi”, li chiamava – Luigi dialoga e cerca di
declinare alcune sue importanti intuizioni. All’inizio ci saranno
semplici conferenze e degustazioni, poi man mano dibattiti sui temi
dell’agricoltura, dell’alimentazione, della produzione e del
consumo critici. Per Luigi questi erano i “problemi della terra”.
Il cosiddetto movimento dei movimenti
alterglobalista sviluppa tematiche affini a quelle veronelliane ed è
dal confronto dei primi anni del 2000 che nasce il progetto t/Terra
e libertà/critical wine (t/Tl/cw). Alcuni compagni di
Brescia, Verona e Milano, che hanno seguito le sue provocazioni gli
propongono l’iniziativa e gli chiedono il suo apporto e sostegno (e
favoriscono la sua collaborazione alla rivista Carta, con la rubrica
“Le parole della terra”, scritta in dialogo con Pablo Echaurren).
L’anarchenologo – così lo avevamo
nominato – è felice di poter mettere in pratica le sue idee, di
confrontarsi con un pubblico interessato. Furono anni dialettici di
confronto e crescita reciproca. Noi arricchiti dalla sua prospettiva
nuova e trasversale, Luigi arricchito da una lettura politica globale
che valorizzava le sue intuizioni. “La terra, la terra, la terra…
all’infinito la terra”, è uno dei suoi slogan più famosi di
quegli anni.
Il vino frutto della terra e del lavoro
dell’uomo, compagno dialettico che ci riporta alla terra, ci invita
alla comunanza, è intercessore privilegiato uomo/terra. t/Tl/cw
partì dal vino (subimmo la derisione di compagni moralisti e miopi)
per compiere un percorso a ritroso che ci portò a discutere di
prodotti dei campi, di tutela della biodiversità, di multinazionali
e ogm, di omologazione del gusto, di un’agricoltura in armonia con
l’ambiente e di un’agricoltura industriale che divora l’ambiente,
della qualità dei cibi e della qualità dei rapporti personali che
li presuppongono, della tracciabilità dei prodotti e dei prezzi…
L’esperienza t/Tl/cw durò organicamente fino al 2005,
continua ancora in varie città e con altri nomi, grazie ai gruppi
antagonisti e al lavoro sedimentato con centinaia di eventi in almeno
una trentina di città italiane con mercati autogestiti, concerti e
convegni… e la pubblicazione del libro edito da DeriveApprodi (gli
eventi che ebbero più risalto furono quelli al Csoa la Chimica di
Verona – in contemporanea al Vinitaly, al Leoncavallo di Milano, al
Forte Prenestino di Roma).
La terra e i vini
Ma veniamo a quello che secondo me è
il nocciolo duro del pensiero politico veronelliano, alla sua
intuizione più geniale. È una intuizione intrinsecamente anarchica,
epistemologicamente anarchica direi, e quindi anche politicamente.
Grazie alla passione per i vini e le culture e colture che li
presupponevano, Luigi notò l’estrema diversificazione dei prodotti
della terra. “La terra dà vini e prodotti diversi metro via metro
anche partendo da una stessa varietà di seme, di cultivar”.
Di conseguenza tutti i prodotti della terra, ossia il frutto
dell’interrelazione tra peculiarità territoriali e varietali,
devono essere valorizzati permettendo al consumatore di conoscerne
l’origine e la trasformazione, quindi la massima tracciabilità. In
questa maniera difenderemo la biodiversità e metteremo un bastone
tra gli ingranaggi delle multinazionali e della grande distribuzione,
che altro non vogliono che l’attuazione del principio dell’”ultima
trasformazione sostanziale” (cioè la conoscenza solo del luogo
dell’impacchettamento), che significa la cancellazione dell’origine
e quindi di ogni possibilità di controllo da parte del consumatore.
Proprio per questo, se può essere criticabile ogni industria –
sosteneva l’anarchenologo – quella agroalimentare è una vera e
propria aberrazione da abolire, una contraddizione in termini.
Da questa intuizione, per contrastare
l’industria e la volontà omologatrice e per valorizzare le
specificità di tutti i prodotti della terra, Veronelli propose e si
batté con forza per le denominazioni comunali di origine (de.co.),
polemizzando con politici di ogni risma contrari a una vera
decentralizzazione, ma anche con molti compagni anarchici e dell’area
dei centri sociali, contrari alla collaborazione istituzionale. Ma
cosa sono le de.co.? Sentiamolo dalle sue parole.
“Attraverso le de.co. – il sindaco
certifica la provenienza d’ogni prodotto della sua terra – voglio
contrastare il tentativo della UE e delle multinazionali di annullare
i giacimenti gastronomici a favore dei prodotti industriali.
Consentire ai comuni la facoltà di disciplinare la valorizzazione
delle proprie risorse nel campo dei prodotti dell’agricoltura e dei
suoi trasformati. Restituire agli abitanti le ricchezze del
territorio. Il sindaco di ogni comune assumerebbe con la de.co. la
responsabilità di dichiarare la reale provenienza delle materie
prime e delle materie trasformate. Sostengo sia necessario irrigidire
il concetto di denominazione d’origine rivendicando la condizione
necessaria dell’“interamente ottenuto”. La tracciabilità
(origine e trasformazione) di un prodotto è importantissima. Sole le
grandi industrie e la grande distribuzione hanno interesse a far
passare il principio dell’“ultima trasformazione sostanziale”,
principio perverso per il quale un prodotto può avere la
denominazione del territorio dove avviene il confezionamento. Questo
implica lo sfruttamento di coloro che – sia in Italia sia nei paesi
dove il costo della manodopera è bassissimo (come nel Sud del mondo
o nei paesi dell’Est) – coltivano la terra a vantaggio di chi
gestisce il commercio e la trasformazione”.
Questa posizione – radicale a suo
modo – è molto diversa da quella che si sta imponendo oggi, dove
c’è spazio per un consumo di prodotti gastronomici di qualità
solo per un’élite, quando invece per la maggioranza delle persone
sono fruibili solo i prodotti agroindustriali.
Cosa direbbe oggi Veronelli delle
proposte di Zaia, il ministro nazileghista dell’agricoltura, che in
apparenza vanno nella direzione da lui indicata? Luigi sosterrebbe
che il territorio è di chi lo abita e lo vive, anche se è arrivato
da lontano. Luigi non ha mai messo l’accento sulla tradizionalità
e la tipicità dei prodotti, aveva cognizione della mutazione
storica, gli interessava la genuinità, la tracciabilità, la
qualità. Quindi ben venga – penso avrebbe detto – il couscous
piemontese o il tajin veneto, perché come scriveva il suo grande
amico Gianni Brera all’inizio di La pacciada: non si ha
genio senza ibridazione.
Niente miti solo mete
Ho avuto la fortuna di lavorare accanto
a Luigi per nove anni. Sono entrato in contatto con lui per comuni
interessi letterari e politici, di vini e cibi non sapevo nulla. Ho
assaggiato assieme a lui una media di dieci vini ogni giorno, ma in
quelle ore di ozio/lavoro dionisiaco ho soprattutto chiacchierato di
libri e di idee. Negli ultimi anni della sua vita abbiamo scritto
molto assieme, soprattutto a riguardo delle questioni più politiche
legate all’agricoltura: de.co, problematica dell’olio d’oliva,
progetto t/Tl/cw… Questi e tutti gli altri ricordi possono
essere confermati dalle sue collaboratrici e da un altro amico di
Luigi, Andrea Bonini (un giovane che ha stoffa culturale e
preparazione enoica per essere un ottimo continuatore e innovatore
delle intuizioni veronelliane). Dico questo perché – negli
anniversari che verranno – mi aspetto da parte degli eredi
familiari una rimozione dei progetti politici e delle collaborazioni
scomode di Luigi.
“Niente miti, solo mete” potrebbe
essere lo slogan del mio ricordo dialettico di Veronelli politico.
Non si smette mai di conoscere una persona, tanto più se possiede
una personalità ricca, vitale e complessa – ed è quindi naturale
che il mio sia un ricordo parziale. “Mi contraddico perché
contengo vastità, moltitudini”. È una citazione da Withman che
penso si addica a Luigi. Penso che contenere vastità e moltitudini
sia il contrario dell’ambiguità, è invece ricchezza libertaria.
A- Rivista anarchica anno 39 n. 349
dicembre 2009-gennaio 2010
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