Pino Ferraris, studioso e
dirigente del movimento operaio scomparso nel 2011, legge il romanzo
di Ermanno Rea La dismissione, sulla
chiusura del centro siderurgico di Bagnoli e sulla crisi della
comunità che intorno alla fabbrica era nata. Il libro – che ho
ripreso in mano di recente - funziona ottimamente anche oggi a
distanza di diversi anni, quando da Taranto a Terni molti segnali
sembrano preannunciare la possibile fine di altre comunità di operai
metallurgici. Ferraris mette qualche puntino sulle i, ma poi si
lascia coinvolgere dalla narrazione di Rea e ne fornisce una lettura
appassionata e convincente. (S.L.L.)
La grande ondata
dell'industrialismo che sembrava senza fine si è spezzata e
rifluisce lasciando indefiniti frammenti di società e spazi cavi.
Dentro la mia esperienza tre grandi «dismissioni» si sollevano come
segnali e ferite dello scarto inatteso: il Lingotto di Torino, la
Pirelli Bicocca di Milano, l'Italsider di Bagnoli. Erano fabbriche
con una storia di intelligenza tecnica e di iniziativa
imprenditoriale, luoghi con una storia di cultura e di lotte della
comunità operaia. Erano incastrate dentro il tessuto vasto e
variegato delle città e di esso disegnavano la trama. Quella del
siderurgico di Bagnoli fu sicuramente la «dismissione» più
tormentata, drammatica e misteriosa, quasi un romanzo. Un romanzo
sociale, una vicenda corale che il tecnico d'area delle colate
continue Vincenzo Buonocore non può e non vuole raccogliere ed
esprimere dentro la sua biografia raccontata ad Ermanno Rea. (La
dismissione, Rizzoli, 2002, ne ha scritto Domenico Scarpa su
Alias del 20 aprile).
Buonocore non è
l'operaio che incontravo nelle assemblee di fabbrica e nelle riunione
sindacali quando, durante gli anni `70, giravo dalle parti di
Bagnoli. Narra di essere entrato all'Italsider nel 1969. Era manovale
e aveva poco più di vent'anni. In quell'anno della lotta di
liberazione degli operai metalmeccanici, dell'autunno caldo, lui dice
di aver fatto il crumiro perché era convinto che si scioperasse per
delle «cazzate». Armato di un robusto individualismo e dotato di
una capacità naturale di infilarsi dentro l'anima delle macchine si
è conquistato una carriera diventando tecnico d'area addetto alla
manutenzione della colate continue. Niente ricorda di quell'aspra
lotta contrattuale del 1973 che ha strappato l'inquadramento unico
che, soprattutto in siderurgia, ai giovani come lui apriva le maglie
della carriera professionale tra le proteste dei vecchi operai di
mestiere. Quando ormai si parlava di liquidare l'Ilva, Buonocore ha
appreso da un professore napoletano il significato che aveva avuto la
nascita di quell'industria a Bagnoli, quasi un secolo addietro: una
fabbrica-terapia, «un vaccino contro la locale malasocietà», la
fabbrica come strumento della modernizzazione della città. La
vicenda dell'origine della sua fabbrica, che tanto l'affascina, non
suscita però ricordi degli scioperi e delle mobilitazioni che gli
operai dell'Italsider hanno fatto nella prima metà degli anni 70,
rilanciando l'antica missione: far scaturire dalla «poltiglia umana»
dei vicoli di Napoli la vocazione nascosta e repressa per il lavoro.
Gli scioperi per ottenere dalle Partecipazioni Statali investimenti
nel Sud. L'interminabile «vertenza Campania» per l'occupazione. E'
vero, l'Ilva non è entrata nel vicolo, anzi, il vicolo ha rischiato
di inquinare la fabbrica. Ma le sconfitte non esonerano dalla memoria
delle battaglie combattute. Alla fine degli anni 70 a Bagnoli si
respirava una brutta aria: crisi dell'acciaio, bilanci in profondo
rosso. Si scrutavano con ansia i sintomi che potevano annunciare la
catastrofe, la chiusura dello stabilimento.
Solo quando ci fu la
ristrutturazione, vennero i mille miliardi di investimento con
l'automazione degli impianti e le nuove colate continue, ritornò la
sicurezza e l'entusiasmo. Bagnoli vivrà e per questo si possono fare
sacrifici: riduzione del personale, riorganizzazione del lavoro,
maggior produttività. L'ultima cosa cui si poteva pensare era
l'assassinio volontario e premeditato di una fabbrica appena risorta,
era che fossero smantellati impianti nuovissimi, imponenti e costosi.
Della lunga storia di agitazioni e scioperi a Bagnoli Buonocore
ricorda soltanto la mobilitazione cui egli ha partecipato nella
primavera del 1988 per opporsi al «folle sperpero». A Buonocore non
interessa la storia della vita di un'impresa e tanto meno quella
delle lotte della classe operaia di Bagnoli. Il fuoco della sua
cronaca è la fabbrica che uccisa nel 1990 con l'ultima colata. Al
centro del racconto c'è se stesso, la vicenda tutta personale del
tecnico di manutenzione che dai vicoli di Napoli è salito all'arte
di chi sa ottenere la perfezione dei movimenti dalla grande macchina
moderna e che improvvisamente, quando ha appena superato i quaranta
anni, si trova ad essere il dipendente di una fabbrica defunta cui
dare soltanto sepoltura. Quando nel 2001 Buonocore inizia a
raccontare la cronaca della «dismissione» ad Ermanno Rea il lungo
calvario non è ancora finito. La «sua» colata continua è stata
ceduta ai cinesi, l'altoforno 5 agli indiani, i forni a calce alla
Malesia, ma il treno di laminazione aspetta ancora di essere smontato
ed inviato in Tailandia.
Intanto sono passati
dieci anni, lunghi anni trascorsi a seppellire il grande corpo
inanimato dell'acciaieria. Dieci anni sono una vita, sono tutta una
vita perché essi hanno divorato il passato ed hanno accecato il
futuro. Un grande impianto siderurgico non è una qualsiasi fabbrica.
Un impianto siderurgico non si ferma mai, né di notte né di giorno
né d'estate né d'inverno. Un impianto siderurgico fa l'ambiente:
l'aria, il cielo, gli odori, i rumori, le luci e le ombre, il
paesaggio. Un impianto siderurgico plasma uomini di un certo tipo
comandati dalla logica inflessibile delle cadenze e dei movimenti
degli smisurati macchinari ma anche fortemente responsabilizzati a
fronteggiare l'imprevisto, il rischio e l'emergenza, lavoratori che
debbono congiungere il coraggio dell'individualismo e la risorsa
della cooperazione.
Quando chiude un centro
siderurgico è una apocalisse. Eppure Buonacore tutte le mattine ha
l'obbligo di tornare, puntuale, al suo cimitero industriale. Mettere
in sicurezza gli impianti, fare l'inventario, vivisezionare quel
corpo morto di ferro e di cemento, elaborare i piani di smontaggio da
inserire nella fredda memoria del computer. Tutto ciò che ora fa non
è che un surrogato irriconoscibile di quello che era il suo lavoro
professionale. Lui, Buonocore, era l'artista della manutenzione, il
Tarzan che volava sugli impianti a bloccare una perdita, a correggere
uno scarto, a domare un meccanismo riottoso, a penetrare e risolvere
i problemi nel ventre di una macchina. Mesi e anni trascorsi in
questa situazione fanno impazzire. Molti sono gli operai che vanno
dallo psichiatra. Buonocore controlla le nevrosi, le ossessioni
scatenate da una insopportabile crisi di astinenza dal suo lavoro,
crisi che produce nostalgie invincibili della fabbrica viva, che
induce fantasie sessuali di accoppiamento con le macchine, visioni
mistiche e mitiche del mestiere. Quando l'ingegner Lonardi gli
propone di prendere in mano «lo scettro» dello smontaggio delle
«sue» colate continue, non ha dubbi. L'afferra l'impazienza tutta
privata, personale per lo smontaggio, per questo suo ultimo
appuntamento professionale che distruggerà la sua professione, per
questa «dismissione» dentro la quale egli diventerà il
dismettitore di se stesso. Non lo trattengono le minacce e le
riprovazioni dei compagni di lavoro, degli irriducibili difensori
dell'intangibilità della fabbrica. Ritornare a cimentarsi con la
macchina, tornare al centro diventando il protagonista dello
smontaggio a regola d'arte delle «sue» colate continue: questo è
il suo progetto-ossessione. Buonocore era il manutentore, il «medico»
delle macchine, colui che sapeva tutto sulla scienza della vita degli
impianti. Ora è impaziente, nella nuova situazione di catastrofe, di
spendere i suoi saperi sulla vita delle macchine per condurre a
morte, con amorevole sapienza, la sua fabbrica. Di fronte
all'ineluttabilità dell'evento non vede speranza di resistenza,
spazi di contrattazione e di condizionamento, non c'è altro da
salvare che l'integrità dell'impianto da consegnare ai cinesi che lo
porteranno nella lontanissima città di Meihsan.
Nei dilemmi della crisi
della «civiltà del lavoro» si può riflettere una più generale e
paradossale alternativa dei nostri tempi: la solitaria resistenza del
testimone anacronistico ed emarginato oppure la cooperazione attiva
alla «grande dismissione» continuando a restare al centro pagando
il costo della perdita di identità, di storia e di futuro. Con lo
smontaggio e la demolizione il racconto diventa travolgente, tocca il
suo vertice «epico» nella descrizione del corpo a corpo notturno e
solitario con quei maledetti bulloni che nessuno era riuscito a
smuovere. Dopo aver visto partire il cargo che porta la sue colate
continue a Shanghai Buonocore dice: «La storia potrebbe finire qui».
Ma qui non finisce.
Prima della partenza
della nave, tra il serio e il faceto, ha detto alla moglie Rosaria:
«Andiamo anche noi in Cina?». Lungo tutto il racconto, dall'inizio
alla fine, si aprono e si chiudono le finestre su quel possibile
futuro che con insistenza gli propone Chang Fu, il mite ed enigmatico
amico che dirige la delegazione cinese a Bagnoli: Buonocore segui le
colate continue e vieni in Cina a dirigere il tuo impianto. Questo
futuro esotico richiede un passo troppo lungo al «dismettitore di se
stesso» che velocemente è invecchiato dentro. Ma le fantasie di
futuro hanno anche il volto giovanissimo di una donna che si chiama
Marcella. E' la figlia di un compagno di lavoro, sindacalista
generoso e carismatico morto precocemente di mal di fabbrica.
Marcella emerge da quel mondo di giovani, «alieni da tutti i punti
di vista», della Bagnoli post-industriale, consumista e sfaccendata,
fragile e prepotente, degradata e camorrista. Da lei viene un appello
di aiuto ed una offerta d'amore che Buonocore vive in una
paralizzante ambivalenza di attrazione e di fuga che corrode
l'equilibrio dei sentimenti proprio negli stessi anni in cui si
frantuma l'identità professionale e la fabbrica si sbriciola e
scompare. Marcella è un amore che non può venire, mentre quello di
Rosaria è un amore che se ne sta andando. E la voragine della
dismissione entra nel cuore. Le notizie della malattia e della morte
di Marcella si insinuano dentro i rumori dell'estrema rovina della
fabbrica, gli scoppi della dinamite, il fragore delle ruspe. La
sventura che colpisce la sua acerba bellezza segna la smisurata
ampiezza dell'onda rapace della dismissione che va oltre le
generazioni e oltre la fabbrica vulnerata. Il funerale di Marcella
che chiude il libro è la sola animata rappresentazione di una
manifestazione di coralità popolare all'interno di queste pagine che
pur narrano della vita, dell'agonia e della morte di quella comunità
di lavoro e di lotta che fu l'Italsider di Bagnoli. Con quel lungo e
affollato corteo che riunisce i giovani amici della ragazza con
grosse automobili e vita sbandata insieme con gli anziani compagni
del padre sindacalista che arrivano con la bandiere rosse che
«sembravano armi dissotterrate», tutta la gente di Bagnoli, in un
rito pubblico, piange la fabbrica scomparsa, gli affetti e le forme
della vita lacerati, le antiche certezze cadute. Piange e così
allontana la nostalgia ed incomincia ad elaborare il lutto per la
perdita subita.
Dopo il cataclisma della
«dismissione» che attraverso il mutamento crudele delle cose
(tecnica, strumenti, economia) ha violentato le vite, i sentimenti, i
valori delle persone, forse può succedere che risorga l'ostinato
tentativo di trasformare invece le cose secondo rinnovati desideri e
riemerse volontà delle persone.
“il manifesto”, 21
maggio 2002
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