Certe parole hanno una
essenza, una radice che evoca un’area di significanza precisa, che
le radica in un terreno dal quale a volte sembrano lontane, ma da cui
continuano a trarre la loro linfa vitale. Una di queste, che
certamente ridispiega oggi tutti i significati che l’hanno
accompagnata nel tempo è indignarsi. Non è per caso che una parola
si fa metafora così potente da poter trasportare con sé milioni di
persone, e traghettarle da un presente mortificato ad una speranza di
futuro in cui il suo contrario, il suo significato originario, non
privativo, dignità, sia la patria in cui a tanta gente piacerebbe
vivere, e per cui oggi, qui e subito, ci si impegna. La dignità è
l’attributo che troviamo alla scaturigine della Dichiarazione
dei diritti dell’uomo, il tronco fecondo da cui si dipartono
poi tutti gli altri rami che di esso sono gemmazioni. Privare
qualcuno della dignità significa privarlo delle fondamenta
dell’essere, negandogli così la fonte dell’eguaglianza.
Indignarsi, allora,
significa molto di più che ribellarsi ad una contingenza, ad un
momento oscuro della politica, ad una temperie particolarmente
mortificante della vita civile di una nazione e dei suoi cittadini.
Indignarsi significa riprendere contatto con quel “camminare
eretti” di cui parlava Bloch, raddrizzare con un atto di volontà e
di rifiuto la schiena piegata dal fardello dello sconforto e
dell’umiliazione, ricongiungersi con la molteplicità delle vite
che vogliono vivere perché hanno diritto di farlo, dignitosamente,
in quanto esistono. L’obnubilamento del senso democratico
dell’Occidente, di cui il liberismo è la portante sistemica, trova
in questo atteggiamento, in questa postura re-esistente, il suo
avversario più radicale. L’indignato sa che il peggior nemico
della sua dignità è lo svuotamento di passione civile, che il
liberismo ha organizzato sulle macerie di un progressivo scollamento
dell’umanità dal suo stesso esistere.
Indignarsi, dunque,
significa dotarsi di un accrescimento di potenza visionaria, di un
nuovo metro di misura tra ciò che conta e ciò che va abbandonato,
combattuto, contrastato, partendo da se stessi, dal proprio esserci,
prima ancora che dall’insieme organizzato che agisce il
cambiamento. Si è indignati; uno stato dell’essere, non una
ideologia che si può indossare o smettere. Essere finalmente
qualcosa, trasformarsi nel profondo, prendere coscienza di sentimenti
che diventano posizioni politiche e non viceversa. La coincidenza tra
questa idea e la visione femminista del "partire da sé"
aggiunge un altro nodo alla modalità radicalmente nuova di produrre
e confrontarsi con un cambiamento epistemologico.
Quanto di tutto questo
sapremo tramutare in azioni concrete, e quanto efficaci non è dato
sapere ancora. Ma la mutazione psichica, la metamorfosi dei simboli
fondamentali dell’agire politico è in atto. Forse, di fronte al
mondo di oggi, il Grande Timoniere avrebbe detto «indignarsi è
giusto».
“il manifesto”, 15
ottobre 2011
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