L'occupazione diminuisce,
soprattutto per le donne.
E lo Stato
taglia i fondi
destinati alle regioni meridionali,
che intanto si
spopolano.
C’era una volta un ministro di uno dei governi Berlusconi, che era
solito appellare lo Svimez, l’associazione per lo sviluppo
dell’industria nel Mezzogiorno, “sfighez”, tanto erano brutte
le notizie sul sud d’Italia che puntualmente diffondeva. Leggende
metropolitane un po’ birbone, ma che oggi non fanno più sorridere.
Perché quello che lo Svimez ha anticipato alla Camera dei deputati,
qualche giorno fa, rispetto al rapporto che presenterà come di
consueto in ottobre, è uno scenario inquietante, stando ai numeri e
ai dati economici sul Mezzogiorno.
Dopo sette anni di crisi e con le stime Istat sul Pil ancora più a
ribasso che fanno il paio – flagellanti – con quelle del Fmi,
c’era da aspettarsi che nel calo generale – il centro-nord si è
infatti attestato per il 2013 sul -1,4% – anche il Mezzogiorno ne
risentisse con un - 3,5% (in ulteriore flessione rispetto al 2012:
-3,2%). Ma quello che non ci si può aspettare, e che questi dati
raccontano, è il vuoto della crescita, dell’investimento e delle
speranze fatto di numeri a doppia cifra, pieni, dolorosi.
Il Pil pro capite nel Mezzogiorno è infatti sceso del 56,6% rispetto
al valore del centro-nord, tornando ai livelli del 2003 e
testimoniando un calo della produttività, dell’occupazione e dei
consumi che non ha precedenti. Perché quello che un calabrese – la
Calabria è la regione con il Pil pro capite più basso d’Italia -
poteva acquistare grazie ad un reddito medio di oltre 30mila euro
l’anno nel 2002, non può più farlo nel 2014. È come se quel
padre di famiglia – che forse all’epoca era appena uscito
dall’università e che, in controtendenza e con la “capa dura”,
ha deciso di rimanere nella sua terra d’origine – si trovasse ora
a guadagnare: 15.989 euro.
Le sabbie di questo deserto sono rese ancora più palpabili dalla
contrazione della spesa delle famiglie che hanno ridotto del 16,2% –
nel sessennio 2008-2013 – tutti i tipi di consumi, persino quelli
che tali non sono, come l’istruzione. Tanto che stanno calando
persino le iscrizioni negli asili comunali – secondo l’Istat –
e c’è una sorta di analfabetismo di ritorno perché un 20% degli
under 2 non finisce neppure le elementari.
“E lo Stato che fa, incentiva questi ragazzi?” No. Destina invece
i 5,6 miliardi di euro, le risorse per la manutenzione delle scuole,
gli asili e le mense, basando il computo sulle serie storiche,
vecchie categorie che il federalismo fiscale in teoria avrebbe dovuto
spazzar via e sostituire con i reali fabbisogni, perché solo così
il governo avrebbe potuto destinare un tantino in più alle scuole di
Napoli che, si sa, non è la “prima della classe” e che invece
porta a casa 66 sudatissimi milioni contro i 77 di Milano.
E sconcerta mettere insieme i numeri sull’abbandono del sud da
parte dell’Italia: una dispersione in termini di impegno ed energia
ben documentati da una spesa ordinaria del 27,6%, che non riesce
neppure a corrispondere a quel 34,3%, la popolazione italiana nel
Mezzogiorno. E poi gli investimenti delle imprese pubbliche che non
ci sono perché il centro-nord attrae il 77,6% del totale nazionale
(19,5 miliardi di euro, su 31,5 miliardi del totale della spesa in
conto capitale della PA nell’area) e gli investimenti nelle
infrastrutture – che dopo la fabbrica di San Pietro della
Salerno-Reggio Calabria – sono stati tagliati barbaramente al sud:
nel 2014 valgono infatti poco più di un quinto rispetto a
quarant’anni fa.
Come se il Mezzogiorno non ne avesse bisogno, come se – quasi una
beffa – esistesse, non immaginiamo un’Alta Velocità, ma almeno
un treno diretto che colleghi due capoluoghi fondamentali: Napoli con
Bari, per dirne una. E con la mancanza di connessioni tra le città,
viene meno il mercato, la domanda interna, figuriamoci gli
investimenti dall’estero.
Il sud continua a essere un’area sconnessa, dove le promesse di un
decennio – almeno un decennio – non hanno mai intercettato una
linea politica, un progetto per risollevare l’industria, un piano
per il trasporto che anche quando c’era, una decade fa, non ha
trovato realizzazione. La recessione ha colpito duro il sud laddove
il settore manifatturiero, sempre un po' asfittico, ha ridotto del
27% la produttività, del 24,8% gli addetti e ha tagliato del 53,4%
gli investimenti; mentre al nord il settore ha tenuto, con la metà
delle perdite totalizzate dal Mezzogiorno.
E i dati che forse più colpiscono sono quelli sul deterioramento
dell’occupazione (60% dei posti di lavoro persi sono al sud) legata
al genere e ai cambiamenti demografici. Al sud gli occupati nel 2013,
per la prima volta dal 1977 – l’anno da cui partono le serie
storiche dell’Istat – sono scesi a 5,8 milioni (poco più di un
quarto del totale in Italia) e in questi solo il 21,6% sono donne.
Nella graduatoria delle 272 regioni europee, le otto regioni del
Mezzogiorno sono tutte (eccetto l’Abruzzo) nelle ultime dieci
posizioni, quanto al tasso di attività femminile. E sulla scia di
questa magrezza di chance lavorative e di aspettative di vita,
continua l’esodo della futura – ma ormai non più – classe
dirigente del sud, che ha già portato dal 2003 al 2013, oltre 2,3
milioni di giovani meridionali verso l’estero e il centro-nord.
Una “selezione avversa” che si combina ad un altro numero
drammatico: in base alle previsioni Istat, nel prossimo cinquantennio
il sud perderà 4,2 milioni di abitanti, mentre il nord ne guadagnerà
quasi 5 milioni. Dal Mezzogiorno andrà via la base, resteranno
invece gli anziani, non più “attivi”, dal “costo” sociale
esponenziale per l’intero paese e zavorrati di tradizioni ed
esperienze che non riusciranno facilmente a tramandare.
Il disequilibrio demografico è già in evidenza e con una “perdita”
stimata di almeno 20mila persone fino al 2015, spiega lo studio
Svimez: il sud ha infatti smesso di fare figli. Lo scorso anno nel
Mezzogiorno ci sono state solo 177mila nascite, a fronte del dato in
controtendenza delle 338mila al centro-nord: a un livello così basso
non si arrivava dall’Unità d’Italia. E a nulla serviranno i
flussi dei migranti dal mare o dal resto del continente, perché –
ecco, il contrappasso – volano al nord, dove dall’inizio
dell’anno ne sono già arrivati 140mila.
Il sud può anche stare senza i Bronzi di Riace, come suggerito da
qualcuno, ma non vuole morire d’eutanasia.
Pagina 99, 2 agosto 2014
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