La corazzata della Marina Militare Italiana "Vittorio Veneto" duramente colpita e danneggiata nella battaglia di Capo Matapan |
Capo Matapan, un
promontorio all'estremo sud della Grecia. Le guide turistiche lo
ricordano come centro del culto di Poseidone, oltre che,
all'occorrenza, sicuro rifugio dei pirati. Quanti sono gli italiani
ai quali questo nome dice qualcosa? Molto pochi, temo. Non solo
perché quando ci diventò improvvisamente familiare, durante la
seconda guerra mondiale, la maggior parte di loro non era ancora
nata; ma anche perché i luoghi e le vicende di quella guerra sono
stati rapidamente dimenticati. Per una serie di ragioni politiche e
psicologiche non sono riusciti a diventare patrimonio della memoria
collettiva.
Là, nel tratto di mare
antistante il promontorio, nella notte del 28 marzo 1941 la marina
italiana subisce la più cocente e sanguinosa sconfitta della sua
storia. Nel giro di poche ore la Mediterranean Fleet inglese
riesce ad affondare tre incrociatori e due cacciatorpediniere. Il suo
mitico comandante, ammiraglio Cunningham, quasi incredulo di tanta
fortuna non insiste. Se lo avesse fatto, avremmo perduto anche la
corazzata Vittorio Veneto, già gravemente colpita, e un'altra buona
parte degli otto incrociatori e degli undici caccia con cui il
comandante della nostra flotta, ammiraglio Iachino, era uscito in
combattimento. Appena rientrato alla base Cunningham con molto fair
play si premura di comunicare al nostro Comando la posizione in
cui ha lasciato le migliaia di naufraghi che, ostacolato dall'
aviazione tedesca, non aveva potuto soccorrere. La nave ospedale
inviata da Taranto impiega tre giorni per raggiungere il luogo della
battaglia. Trova ancora vivi un centinaio di marinai. Gli altri
duemila e trecento sono morti attendendo i soccorsi.
Più ancora dell'entità
della sconfitta colpiscono le circostanze in cui è maturata, il
cumulo di errori che l'hanno resa possibile. Leggendone l'accurata
ricostruzione di Gianni Rocca nei capitoli centrali del libro da lui
dedicato alla tragedia della marina italiana nella seconda guerra
mondiale (Fucilate gli ammiragli, Mondadori, pagg. 325, lire
22.000), si è presi da una sensazione di sgomento, prima ancora che
di sdegno. La spedizione di Capo Matapan, nella quale Supermarina
impegna la maggior parte delle unità a sua disposizione, è stata
decisa per ragioni di prestigio, quasi imposta da Mussolini agli
ammiragli riluttanti. Essa conta molto sulla sorpresa. Ma la
ricognizione aerea inglese scopre subito le nostre intenzioni e per
di più (ma questo lo si apprenderà solo dopo la guerra), i servizi
segreti hanno sfondato il codice dei tedeschi; sono quindi in grado
di seguire passo passo i messaggi in cifra che il corpo aereo di base
in Sicilia trasmette ai reparti dipendenti. Prudenza vorrebbe, una
volta mancata la sorpresa, che si rinviasse l'operazione. A Roma se
ne discute in una riunione di emergenza. Ma Mussolini sta già
pregustando la soddisfazione di poter annunciare che la marina
italiana ha messo in ginocchio l'orgogliosa flotta britannica. Gli
ammiragli non osano chiedere al Capo di sospendere o rinviare la
missione. Il seguito, fino al drammatico scioglimento finale, è una
incredibile catena di equivoci, disfunzioni, errori tattici, ordini
che non arrivano o che non vengono eseguiti. Manca la copertura
aerea, non c'è coordinamento per i pessimi rapporti tra marina e
aviazione, non vengono utilizzati i sommergibili, la raccolta e lo
scambio d'informazioni (essenziale nei moderni combattimenti navali,
dove il nemico è a decine di chilometri di distanza) sono lenti,
macchinosi, imprecisi.
Un esempio tra tanti: il
fonogramma che informa sulla effettiva entità delle forze inglesi
arriva a Supermarina (cioè a Roma, da dove si pretende di guidare
tutte le operazioni) ma non viene inoltrato alle unità combattenti
perché è stato trascritto su carta rosa e non su quella cilestrina
usata per i messaggi urgenti. L'ammiraglio di servizio lo mette da
parte come moltissimi altri di quel colore, riservandosi di leggerlo
durante una pausa dell'assillante lavoro o di passarlo alla fine del
suo turno al collega che lo avrebbe sostituito.
Matapan, questa piccola
Caporetto della nostra marina, come giustamente la definisce Gianni
Rocca, non è un fatto isolato. C'è già stato un mese dopo
l'entrata in guerra, il deludente esordio di Punta Stilo. Poi il
clamoroso bombardamento aeronavale dell'intera flotta raccolta nel
porto di Taranto (tre corazzate messe fuori combattimento) e
l'altrettanto clamorosa beffa di Genova, tranquillamente e duramente
bombardata dalle navi inglesi mentre Iachino le sta cercando tra la
Corsica e la Sardegna. Più tardi, mentre sul fronte libico lo
scontro si va facendo sempre più aspro e difficile, balza in primo
piano la battaglia dei convogli. La nostra marina, ormai convinta
dall'esperienza di non poter reggere il confronto con gli inglesi, si
arrocca sulla difensiva e si dedica esclusivamente al suo compito
primario: quello di assicurare i rifornimenti ai combattenti italiani
e tedeschi della Quarta Sponda. Anche qui il bilancio è tutto in
perdita. Ci sono periodi in cui soltanto il 25-30 per cento dei
nostri carichi riesce a raggiungere la meta. La Mediterranean Fleet
entra ed esce dal canale di Sicilia, che pure dovrebbe essere la
nostra sorvegliatissima porta di casa, come fosse nelle sue acque
territoriali. E' un calvario. In meno di tre anni, sulle rotte per i
porti libici e tunisini perdiamo un milione di tonnellaggio di
naviglio mercantile e almeno trentamila vite umane. Sono le rotte
della morte, come ben presto le definiscono i marinai impegnati in
quelle angosciose missioni.
Nel libro di Rocca c'è
tutto, documentato con la stessa cura e precisione di cui l' autore
aveva già dato prova nella biografia di Luigi Cadorna; raccontato
senza acrimonie ma anche senza indulgenze patriottarde, con dolorosa
freddezza. Naturalmente c'è anche, altrettanto ben documentato, il
racconto dell'altra faccia della realtà: gli eroismi individuali, il
rassegnato sacrificio dei marinai, le imprese dei mezzi di assalto e
dei famosi maiali, quei sommergibili miniaturizzati, con gli
operatori a cavalcioni sull'arma muniti di autorespiratori, che
conducono le cariche di esplosivo fin sotto la chiglia dell'obiettivo
prescelto. Sono proprio loro, questi siluri umani che scrivono le
poche pagine luminose nella tragedia di una flotta che all'inizio
delle ostilità era considerata tra le migliori del mondo e che alla
prova del fuoco scopre giorno per giorno tutta la propria
inesperienza, la propria inadeguatezza, la incolmabile povertà dei
mezzi tecnici, le insufficienze culturali e professionali dei suoi
comandanti. Ancora oggi le imprese dei minisommergibili ad
Alessandria, a Malta, a Gibilterra hanno dell'incredibile e il loro
racconto suscita emozione. Ma si trattava pur sempre di iniziative
individuali che non potevano compensare gli errori e le deficienze
del sistema. Ci lasciavano fare ma non ci prendevano molto sul serio.
Non ci illudevamo certo di cambiare le sorti della guerra, dice ora
uno di loro, il comandante Durand De La Penne, sollecitato dal libro
di Rocca. Resta da dire qualcosa sull'impianto generale del libro e
sulle conclusioni storico-politiche che se ne possono trarre. Sul
comportamento della marina militare nel ventennio fascista
circolavano alcune leggende che storici e memorialisti in parte
avevano avallato e in parte non si erano molto preoccupati di
confutare. In primo luogo, la leggenda dell'antifascismo dei quadri
dirigenti della marina, contrapposto al filofascismo dell'aviazione e
all' opportunismo dell'esercito. Poi, in qualche modo collegata alla
prima e alimentata dai fascisti sconfitti, quella del tradimento.
Infine, ma anch'essa collegata alle precedenti, la leggenda della
fedeltà della marina alla monarchia che, unitamente allo spiccato
senso del dovere dei suoi ufficiali, le consente (unica tra le tre
armi) di resistere allo sfascio dell'8 settembre e di mettere in
pratica disciplinatamente le clausole dell'armistizio. Il libro di
Rocca provvede in maniera a mio avviso inconfutabile a smentire le
due prime leggende e a ridimensionare notevolmente la terza. La
marina, anche e soprattutto nei suoi alti gradi, serve il fascismo e
lo asseconda in tutte le sue folli imprese non meno dell'esercito e
dell'aeronautica (si veda, tra l'altro, la ricostruzione del suo
comportamento nella guerra di Spagna). Le brutte figure che
colleziona nel corso della guerra non nascondono nessun tradimento,
ma soltanto l'impreparazione, l'inefficienza, gli errori tattici e
strategici ampiamente documentati in questo studio. Quanto all'8
settembre, fino all' ultimo momento il ministro badogliano della
marina De Courten finge di non capire che gli alleati esigono la
consegna della flotta e, per tenere a bada comandanti che meditano
l'autoaffondamento collettivo, gli fa credere che le navi, dopo
l'armistizio, verranno avviate verso porti italiani. La tragica fine
di Igino Campioni e Luigi Mascherpa, fucilati per vendetta da
Mussolini repubblichino (la vicenda cui si ispira il libro di Rocca)
è, in questa prospettiva, tragicamente emblematica. I due ammiragli
che pure avevano, specialmente il primo, pesanti responsabilità
nella disgraziata condotta della guerra, pagano con la vita l'unica
colpa di avere obbedito agli ordini che il capo del governo e i
ministri militari gli avevano impartito prima di fuggire.
“la Repubblica”, 30
aprile 1987
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