Questa
recensione sul “manifesto” a Religione aperta di Aldo
Capitini ne saluta il ritorno a Laterza, che aveva pubblicato il
libro per primo, su consiglio di Croce, sotto il fascismo, mentre una
ristampa degli anni 50 ha come editore Guanda. Doni nel raccontare
Capitini è appassionato e simpatetico, ma il suo articolo contiene
una omissione che conduce a una forte ambiguità. Il lettore non
specialista è portato a credere che Capitini sia un cattolico sui
generis. E invece no. La sua “religione aperta” è laica,
aconfessionale e un po' anticlericale. Per quanto nascosta dai
biografi di regime è nota a molti, per esempio, la sua battaglia per
il proprio “sbattezzo”, per essere cancellato dalla lista dei
battezzati. Essa andava ricordata, magari di straforo, nel contesto
di una recensione come questa. A scanso di equivoci e appropriazioni
indebite. (S.L.L.)
Aldo Capitini |
Etiamsi omnes… ego
non, «Se anche tutti… io no». Questa formula evangelica
(Matteo 26, 33) definisce l’atteggiamento di chi non intende far
parte di un gregge disciplinato ma vuole seguire la verità con fede
e coscienza. Purtroppo queste parole furono pronunciate per la prima
volta da quel Simon Pietro che di lì a poco si sarebbe triplicemente
smentito, e se non fosse stato per il gallo, forse, avrebbe
continuato imperterrito a rinnegare e a scandalizzarsi. Questo per
dire che gli slogan sono importanti ma non bastano a forgiare il
martire. Pietro dovrà piangere amare lacrime sul proprio inciampo,
prima di mostrarsi all’altezza dei proponimenti che avventatamente
aveva dichiarato.
Con queste stesse parole
si apre un bel libretto di Valter Binaghi e Giulio Mozzi, Dieci
buoni motivi per essere cattolici, Laurana 2011 con una densa e
appassionata introduzione di Tulio Avoledo, dove appunto con passione
è riportata questa massima come linea guida per una buona condotta
cristiana. Sì perché, innanzitutto, questa formula è un modo che i
cristiani adottano per manifestare e difendere la propria differenza
specifica, il proprio perseguire un regno che «non è di questo
mondo» (Giovanni 18, 36). Facendo leva su tale differenza, la
teologia del Novecento ha messo in discussione la stessa condizione
del cristianesimo come «religione». Soprattutto in epoca recente,
quando si aprono i supermarket delle religioni, quando yoga e
medicina ayurvedica si mescolano all’aromaterapia e alle sentenze
morali dei cioccolatini, la teologia cristiana deve spesso spingersi
al di là delle tendenze religiose ed esprimere dissenso e distanza.
Tuttavia, questa linea, per dir così, intellettuale della teologia,
non fu quella della prassi. Le chiese si sono diffuse in masse
indifferenziate di consumatori. La tensione escatologica dei teologi
non fu mai realmente recepita dalle folle: da sempre nelle scritture
la massa è associata al tradimento, dal vitello d’oro (Esodo 32,
1-6) al crucifige (Matteo 27, 15-25). Dovrebbero pensarci le
chiassose comitive dei papa boys, con le loro liturgie eucaristiche
rockettare. In ogni caso, questa spaccatura tra cristianesimo
escatologico
e religione tappabuchi
caratterizza quelli che potrebbero essere considerati i «segni dei
tempi» di questi ultimi anni.
A risollevare le sorti
della «religione» ci ha pensato, tra gli anni Cinquanta e gli anni
Sessanta, Aldo Capitini, con la sua Religione aperta, che
Laterza ha coraggiosamente ripubblicato da poco. La religione in
Capitini non è un odd-job word, una parola tuttofare, come lamentano
i cristiani intransigenti, da Thomas Browne – che nel 1643
affermava: «Il termine Cristiano è divenuto troppo generico per
esprimere la nostra fede» – a Dietrich Bonhoeffer, che tre secoli
dopo dalle carceri naziste oppose da martire la verità della fede
alla mistificazione del conformismo. Non è nemmeno l’indottrinamento
o il flatus vocis dell’ora scolastica settimanale. E neppure
la «buona creanza» che sottende il detto Non c’è più
religione, assunto a titolo di un libro prezioso del compianto
Michele Ranchetti (Garzanti 2003). Capitini dà un taglio netto a
questi usi e abusi di un termine malconcio: la parola «religione»
diviene un insieme di atti che servono a preparare qualcosa di
totalmente nuovo e che Capitini chiama apertura: «Ciò che conta non
è di avere sempre la religione, ma che venga una realtà liberata
che comprenda tutti».
Figlio dell’antifascismo,
segnato da Croce e da Gandhi, dal modernismo e dai preti operai, da
Danilo Dolci e da don Mazzolari, Capitini insiste sulla novità della
«buona notizia»: sono i nuovi cieli e la nuova terra che vanno
inseguiti e attesi. Nondimeno quella della novità non era
un’ossessione per Capitini, come lo fu invece per Ferdinando
Tartaglia; il nuovo, piuttosto, o le cose ultime, come direbbe la
teologia, va preparato attraverso il presente, l’ora mortale, le
cose penultime. Capitini è testimone e attore di un tempo convulso,
oggi forse poco comprensibile.
Nella prefazione a questa
riedizione Goffredo Fofi mette in evidenza come la disobbedienza
civile, di cui Capitini fu maestro e pioniere in Italia, assieme alla
nonviolenza (senza trattini), sia quanto di più distante dalle
pratiche odierne di opposizione. La ragione di tale lacuna sta nel
fatto che i nostri non sono più tempi convulsi: sono tempi di
bonaccia, storditi dalla cattiva digestione di un benessere
eccessivo; tempi intontiti dai postumi di una crisi infinita,
abbacinati da un’economia sforacchiata e da una politica in
putrefazione. Mentre per la nonviolenza ci vuole carne fresca. Perciò
questa nuova comparsa di Capitini suona come una sveglia, inattuale e
benvenuta, che ci mette davanti la questione religiosa come urgenza
di contrasto, come spinta incontenibile e gioiosa (non rancorosa, né
tanto meno depressa) alla rivoluzione. Sì, proprio alla rivoluzione.
Religione aperta si chiude proprio lamentando come segno di decadenza
il fatto che i potenti temano di più i rivoluzionari che i
religiosi.
Libro bizzarro e
molteplice, Religione aperta, che si apre come una confessione
e si chiude come un manifesto rivoluzionario. A metà strada tra il
trattato filosofico e il pamphlet, parco di riferimenti
bibliografici, stilisticamente impreziosito da una prosa magnifica,
Religione aperta scopre un’infinità di questioni, di cui
qui possiamo soltanto sfiorare qualche traccia. Il tema del peccato
mi par essere tra i più interessanti. Forse perché parlare oggi di
peccato è quasi uno scandalo. Per Capitini peccato è fermarsi al
mondo così com’è. Peccato è il realismo accidioso e melanconico.
Peccato è la passione triste di chi si accontenta. Mentre la
religione tende a fondare un mondo privo di male, una realtà
liberata, «un mattino».
Nel confronto serrato con
le figure della religione, vecchie e nuove, Capitini incontra
Francesco, il frate minore, e vi si specchia. Incontra le creature
amate e cantate dal santo di Assisi: ripercorre le tappe del
pacifismo radicale, del vegetarianismo che non è per nulla una
scelta alimentare, ma è una dieta nel senso etimologico del termine,
ossia una forma di vita, una conversione totale verso la cura per il
vivente. Rispetto a Francesco e alla sua epoca, Capitini insiste
sull’urgenza tutta moderna del contrasto, della polemica,
dell’opposizione netta: in tal senso «religione» non significa
per nulla una forma di convinzione, ma significa far sì che anche la
zizzania si riveli frumento genuino e buono (Matteo 13, 28-29):
l’inferno esiste, nella religione aperta, ma è vuoto.
Questa l’utopia di
Capitini, questa la sfida che il discorso religioso lancia alla
postmodernità smarrita, confessionale o laica che sia. Religione non
è un posizionamento intellettuale o concettuale, ma è slancio
vitale, adesione, un sì profondo e duraturo che si oppone
pacificamente e gioiosamente a tutti i no del tardo e monocolore e
monotono capitalismo globale.
“il manifesto”, 21
ottobre 2011
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