Museo Archeologico di Napoli - Gruppo marmoreo del "Tirannicidi" Copia d'età romana (II sec. d.C.) di una scultura ateniese (V sec. a. C.) |
Nella cultura italiana il
tema della democrazia greca di epoca classica è praticamente
irrilevante. L’ennesima riprova viene dal recentissimo volume
preparatorio alla seconda edizione di «Biennale democrazia», pur
pregevole per l’ampiezza e la varietà di spunti: L’interesse
dei pochi, le ragioni dei molti (a cura di Pier Paolo Portinaro,
«Passaggi» Einaudi, pp. 261, € 18,00) menziona solo la condanna
platonica della democrazia (Gustavo Zagrebelsky in prefazione) e la
critica dei socratici alla politica non solo democratica (Luciano
Canfora); non c’è spazio neanche per il solito omaggio rituale
alla «culla» della democrazia occidentale. D’altra parte, è lo
stesso Zagrebelsky a dichiarare a chiare lettere: «la democrazia non
è – nel senso che non può essere – l’autogoverno del popolo
che si afferma durevolmente», non è e non può essere, insomma,
quello che gli Ateniesi dicevano e volevano che fosse. Che senso
avrebbe, allora, discutere di quello che non è e non può essere?
Più equanime sul piano
storico, Giovanni Sartori, il più influente politologo italiano
liberale, ha sempre riconosciuto l’esistenza di due tipi di
democrazia: quella antica, diretta e partecipata, e quella moderna,
basata sulla rappresentanza (Democrazia cosa è, 1993), per
riconfermare subito dopo la netta superiorità della versione
odierna, mentre quella antica non avrebbe conosciuto né la libertà
dell’individuo né i diritti umani. Sartori riprende in realtà le
famose tesi di Benjamin Constant (Della libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni, 1819); per questo teorico
liberale degli inizi del XIX secolo la libertà antica era collettiva
e priva di quella libertà individuale così essenziale per la
modernità. Una opinione ancora molto diffusa nel XX secolo anche
grazie a Isaiah Berlin (Due concetti di libertà, 1958), che
la ridefinì nei termini di libertà positiva (=antica) versus
libertà negativa (=moderna), in cui la prima viene svalutata e,
implicitamente ma non troppo, assimilata a una prefigurazione dei
moderni stati totalitari, a vantaggio della seconda, propria del
liberalismo. Anche chi, come Karl Popper, proponeva l’Atene
democratica dell’età periclea in una luce positiva (La società
aperta e i suoi nemici, I, 1945), finiva per presentarla come
un’antesignana delle moderne democrazie liberali, con il popolo che
delega i migliori a governare, non lontano dalla visione elitista di
Joseph Schumpeter (di cui anche Sartori è un discepolo), in cui il
popolo non è davvero sovrano ma spettatore passivo, al massimo un
giudice, delle contese tra le élites che si candidano al governo.
Insomma, per dire bene
della democrazia antica bisognava occultarne le caratteristiche più
profonde e più lontane dalla politica contemporanea, finendo per
snaturarla; e forse solo così si spiega la fortuna incontrastata
della parola «democrazia» dopo la seconda guerra mondiale, quando
per tanti secoli era stata bandita dalla filosofia politica (Kant,
per fare un esempio, usa «repubblica» in contrapposizione alla
«tirannia popolare»). La ragione di tanta perdurante ostilità sta
probabilmente nell’influenza della filosofia teologica, come la
chiamava Cornelius Castoriadis (L’enigma del soggetto, ed.
Dedalo 1998), insomma dell’idea che esista un ordine del mondo
totale e razionale, idea dominante nel pensiero politico da Platone
in poi; la democrazia ateniese nasce dalla visione opposta, dal
presupporre che l’ordine o non ci sia o non sia possibile
conoscerlo in modo definitivo.
Contro questa
svalutazione filosofica e politica si espressero, isolati nei loro
ambiti, una filosofa e un antichista: da un lato Hannah Arendt (Vita
activa, Che cos’è la politica?), per cui la democrazia
rappresentativa è una finzione di libertà che permette ai pochi di
governare i molti; di lei però si è preferito continuare a leggere
le teorizzazioni sul totalitarismo o sulla banalità del male.
Dall’altro Moses Finley, uno studioso americano espatriato a
Cambridge ai tempi del maccartismo, in La democrazia degli antichi
e dei moderni (1972) argomentava il ruolo centrale della
partecipazione popolare nella democrazia ateniese in aperta polemica
con l'elitismo della scienza politologica. Il libro di Finley suscitò
discussioni vivaci più in Italia che altrove ma spesso centrate più
sul rapporto tra Finley e il marxismo che sul problema in sé e senza
generare veri frutti.
È solo alla fine degli
ottanta, quasi in contemporanea con la poco profetica dichiarazione
della «fine
della storia», che la
lezione di Finley viene raccolta, soprattutto da studiosi
nordamericani o emigrati in Nordamerica, che hanno proposto un
ripensamento profondo di natura, funzionamento e scopi dell’antica
democrazia, con l’ambiziosa pretesa di affermarne la rilevanza per
la teoria e la pratica democratiche contemporanee uscendo dagli
stretti confini disciplinari della storia antica. È il caso
soprattutto di Josjah Ober, che in Mass and Elite in Democratic
Athens (1989) arriva a concludere che nell’Atene classica erano
le masse a esercitare un’egemonia ideologica sulle élites;
Ober si serve di un’analisi originale dei luoghi comuni della
retorica pubblica, cercando di fondere il concetto di linguaggio
performativo tratto da Austin, la riflessione su potere e verità di
Foucault e spunti gramsciani. Diverso il percorso di Kurt Raaflaub,
uno svizzero emigrato negli Stati Uniti, che in The Discovery of
Freedom in Ancient Greece (2004,ma l’originaria edizione
tedesca è del 1985) correla i concetti con la realtà socio-politica
secondo l’insegnamento di Reinhart Koselleck; ma la lista degli
autori da citare sarebbe lunga. Si tratta di studi innovativi che
hanno finito per stimolare anche i non antichisti, come John Dunn o
Bernard Manin; in Italia purtroppo sono ancora poco noti anche perché
non tradotti, con la parziale eccezione del danese M. Hansen (La
democrazia ateniese del IV secolo a. C., LED 2003), che
privilegia l’indagine sulle istituzioni allo studio della cultura e
dell’ideologia. Si è quindi grati al piccolo editore milanese
Ariele per la traduzione di Le origini della democrazia
nell’antica Grecia (ed. or. 2007, trad. di L. Spinelli, pp.
268, € 25,00), che comprende saggi di cinque studiosi (K. Raaflaub,
J. Ober, R. Wallace, P. Cartledge e C. Farrar): quelli dei primi tre
interagiscono criticamente sul problema della data di nascita della
democrazia mentre gli ultimi due li commentano dal punto di vista
della storia antica e della scienza politica.
Senza entrare nei vari
contributi talvolta specifici, alcuni presupposti sembrano condivisi
da tutti gli autori, come quello che la democrazia ad Atene era
realtà effettuale e non immaginazione, la mancanza di rappresentanza
e di una classe di «esperti» delegati a governare, l’inesistenza
di uno stato in Grecia antica e quindi anche di un’istituzione
distinta dalla comunità dei cittadini a cui contrapporsi
rivendicando diritti umani inalienabili, senza che questo implichi
l’inesistenza di diritti civili. Nessuno propone l’idea
storicamente infondata di una filiazione della democrazia moderna da
quella antica, né una semplicistica riproposizione di modi ateniesi;
se interessanti sono le osservazioni di Cinthia Farrar sugli
esperimenti nella Columbia canadese e nel Connecticut, il valore
maggiore del libro sta nella consapevolezza di come l’esperienza
democratica ateniese racchiuda un potenziale euristico non
trascurabile per la riflessione moderna. Soprattutto, ci aiuta a
comprendere come la forma attuale della democrazia non sia l’unica
pensabile né la sola storicamente possibile.
"Alias - il manifesto" 4 GIUGNO 2011
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