Una Alfa Romeo Giulietta degli anni Cinquanta del Novecento |
«Il problema
dell’industria automobilistica italiana è rappresentato dal
monopolio in mano agli Agnelli». Quante volte abbiamo sentito questo
grido di dolore negli ultimi anni, lanciato da sponde opposte, dalla
politica,dal sindacato e persino dall’economia? In genere
accompagnato da un’altra denuncia: «La Fiat è un’azienda
assistita dallo stato». Per spiegare perché siamo arrivati a questo
punto ci vorrebbe un libro che riattraversasse l’intera storia del
Novecento, dal 1899 (anno di nascita della multinazionale torinese),
alle commesse belliche alla Fiat nella guerra di Libia del 1911,
all’inglobamento spesso agevolato dalla mano pubblica di tutti i
marchi automobilistici, alla scelta politica del modello di mobilità
subalterno agli interessi degli Agnelli. Non è raro oggi ritrovare,
tra i teorici del pluralismo del mercato e della libera concorrenza,
alcuni degli artefici del monopolio automobilistico, del modello di
mobilità auto-centrato e dell’assistenzialismo pubblico alla Fiat.
In questa sede ci
limiteremo a ricostruire i tratti salienti della privatizzazione
dell’Alfa Romeo e dunque del regalo alla famiglia torinese
dell’ultimo marchio autonomo e pubblico delle quattro ruote. Gli
attori principali di questa commedia all’italiana – trasformatasi
in tragedia per migliaia di lavoratori, per le casse dello stato e
per lo stesso prestigioso marchio del Biscione – sono 5: l’avvocato
Gianni Agnelli, che non tollerava l’idea di ritrovarsi un
concorrente in casa (la Ford); Romano Prodi, presidente dell’Iri,
proprietario dell’Alfa tramite Finmeccanica; il sottosegretario
alla presidenza del consiglio e deputato di Torino Giuliano Amato che
lavorò ai fianchi il suo capo Craxi per agevolare la soluzione
italiana, nonostante le offerte e le garanzie della Ford fossero
migliori per ammissione di tutti; il ministro dell’industria
Valerio Zanone, anch’egli deputato torinese e altrettanto orientato
«italianamente» come Amato; il presidente del consiglio Bettino
Craxi, artefice insieme a Prodi dell’«affare» Alfa Romeo. È
sicuramente un caso che tre dei cinque attori, cioè tutti quelli
viventi, siano collocati nel fronte variegato del centrosinistra.
Dalla nascita fino
al flop dell’Arna
Nel 1906 nasce la Società
italiana automobili Darracq con sede a Napoli, città troppo lontana
dalla «domanda» di automobili e infatti nel 1908 si inaugura lo
stabilimento milanese del Portello. Nel 1909 la Siad viene messa in
vendita e finisce (1910) nelle mani di un gruppo di finanzieri
lombardi che le danno il nome Alfa (Anonima lombarda fabbrica
automobili). Nello stesso anno cominciò la produzione del primo
modello Alfa, la 24 Hp progettata da Giuseppe Merosi e poi iniziano
le corse. Nel 1915 arriva l’ingegnere napoletano Nicola Romeo ed
eccoci all’Alfa Romeo, che l’Iri acquisterà nel 1932, dandola in
gestione alla Scuderia Ferrari. La società corre e cresce fino ai
bombardamenti della 2° guerra mondiale che porteranno alla chiusura
momentanea del Portello. Negli anni Cinquanta riparte la produzione
(i modelli vincenti sono la 1900 e la Giulietta) e continua la lunga
corsa su strada e su pista che incorona, nel tempo, piloti come
Ferrari, Farina, Fangio, Fagioli, Ascari). All’inizio degli anni
Sessanta si inaugura lo stabilimento di Arese che sfornerà nel ‘63
il suo primo modello, la Giulia Gt. Arese è la più illustre delle
vittime dell’era Fiat dell’Alfa che ha disperso lavoro,
professionalità, senso d’appartenenza di oltre 15 mila dipendenti.
La data definitiva del
decesso, preceduta da una lunga agonia, è il 2009. Nei suoi 46 anni
di vita questa fabbrica ha prodotto oltre alle automobili e al
conflitto sociale anche molto personale politico quasi esclusivamente
per la sinistra: ben 31 parlamentari. La prima pietra dell’Alfa
Sud, invece, viene posta a Pomigliano d’Arco da Aldo Moro il 29
ottobre del 1968. Non è contento l’aspirante monopolista Gianni
Agnelli che definisce la scelta del governo «una pazzia,
un’operazione clientelare in grande stile, nient’altro». I suoi
successori si sarebbero vendicati dell’affronto.
Gli operai edili che
hanno costruito lo stabilimento vengono riconvertiti in
metalmeccanici, mediante trasferimento dalle impalcature alle linee
di montaggio. Una sciagurata collaborazione dell’Alfa Romeo con la
Nissan partorisce, nell’83, l’Arna, la peggiore performance delle
quattro ruote italiane o giù di lì. La peggiore, insieme alla
nascita della comica Fiat Duna.
La svendita
Il flop dell’Arna non è
che l’ultima delle operazioni sbagliate dal management e dal suo
proprietario pubblico e la sua uscita di produzione, nel 1987,
coincide con la svendita dell’Alfa Romeo alla Fiat. Nel 1985 le
perdite consolidate del gruppo sono di 1.685 miliardi di lire,
nonostante una cifra quasi equivalente alle casse di Finmeccanica a
quelle del Biscione dal 79 all’86. Da qui la decisione di vendere.
Il primo potenziale acquirente a farsi avanti è l’americana Ford
che punta a mettere un piede nel ricco mercato italiano (al tempo il
quarto mondiale, dopo Usa, Giappone e Germania). Ford offre ampie
garanzie e soldi ma ha un grande nemico: l’avvocato Agnelli che
punta a chiudere il cerchio e inglobare l’ultimo concorrente
italiano. Agnelli ha dalla sua la politica e soprattutto il governo.
Inizia nella seconda metà del 1986 un lungo balletto di offerte e
controproposte, proprio mente la Fiat è impegnata a liberarsi di un
socio «scomodo» che gli Usa hanno scritto sul libro nero delle
nazioni: la Libia di Gheddafi che con la finanziaria Lafico detiene
un cospicuo pacchetto di azioni della multinazionale torinese. La
liberazione (con ricca buonuscita, realizzata attraverso una
straordinaria quanto truccata crescita delle azioni Fiat) da Gheddafi
dell’Agnelli «americano» è contemporanea alla scelta del governo
e dell’Iri di regalare l’Alfa Romeo all’Agnelli «italiano».
Un pessimo affare economico, la formalizzazione definitiva del
monopolio automobilistico Fiat in nome di un’improbabile e poco
credibile difesa dell’italianità del marchio Alfa.
La Fiat si impegna a
pagare con rate decennali (e solo a partire dal ‘93) 1.050 miliardi
di lire, con la promessa del salvataggio del marchio sia pure
attraverso la fusione con la Lancia con destinazioni produttive
certe, garanzie occupazionali a nord e a sud e salvaguardia degli
stabilimenti. Il danaro passato nello stesso periodo dallo stato alla
Fiat supera di gran lunga l’ammontare dell’acquisto dell’Alfa
Romeo.
Quel che avvenne sotto il
cappello Fiat è noto: distruzione della cultura organizzativa
dell’Alfa, sostituita dalla filosofia militar-burocratica dei
torinesi ancora forti della vittoria dell’80 contro il movimento
operaio torinese; epurazioni di professionalità e quadri sindacali
con l’obiettivo di distruggere ogni sorgente e motore di conflitto;
cancellazione di migliaia di posti di lavoro; svalorizzazione del
prestigioso marchio con relativa rottura mai sanata nel rapporto
fiduciario e identitario di un pubblico importante in Italia e in
Europa – gli alfisti. Arese, come abbiamo raccontato, è stata
fatta morire mentre Pomigliano è stata militarizzata (ma non
piegata), per farne il caposaldo della più
feroce restaurazione capitalistica.
Di tutto questo, della
più insensata privatizzazione almeno fino alla liquidazione della
telefonia realizzata cavalcando i capitani coraggiosi, e del
monopolio di una Fiat in fuga verso la Serbia e gli Usa, adesso
sappiamo almeno chi ringraziare.
Privati,
supplemento al “manifesto”, 30 novembre 2010
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