Una straordinaria
triangolazione: Osvaldo Soriano ragiona con Miguel Garçia Marquez di Simon Bolivar, prendendo spunto dal romanzo del Nobel
colombiano sul condottiero dell'indipendenza latino-americana. Una riflessione datata, ma
utilissima specie ora che l'America Latina torna al centro
dell'interesse mondiale non per la povertà e le feroci
dittature, ma per i fermenti di giustizia sociale che
la percorrono. Tutto ciò 25 anni fa sul “manifesto”. Che
giornale! (S.L.L.)
Simon Bolivar in un disegno di Micheli per "il Manifesto" (1989) |
Leggendo El general en
su labirinto, l'ultimo suo romanzo, ho avuto la sensazione che il
più grande scrittore avesse bisogno dell'americano più illustre per
meglio misurarsi con se stesso. Poche volte comunque grandi uomini
riescono buoni personaggi narrativi. Garcia Marquez ama dire che i
suoi romanzi sono realisti e che quanto vi si racconta succede
realmente nella vita dei Caraibi; e per la prima volta tale
affermazione non mi sembra esagerata: Bolivar non vola in questo
libro come non ha volato mai nella sua vita; le sue truppe non
possono marciare settanta anni senza tregua per tornare più giovani
di quando partirono, e neppure il generale torna dalla sua morte
annunciata.
Per scrivere questa
storia, il genio di Marquez si deve per forza contenere ai limiti del
probabile, deve obbedire alla geografia, al fallimento estremo
dell'uomo che combatté venti anni per l'unità e morì quando era
ormai una leggenda a Caracas, a Bogotà, Lima e La Paz. Ciò che si
racconta è il crollo del progetto americano. Una biografia finora
indicibile di un Bolivar umano: donnaiolo, imbroglione alle carte,
incostante e implacabile con i suoi nemici, politico passionale e a
volte patetico, sostenuto da una delle donne più straordinarie della
sua epoca: Emanuelita Sàenz.
Marquez, come Borges, è
già in America un monumento eterno, e non vedo quale interesse abbia
potuto avere a far scendere un altro idolo dal suo solenne
piedistallo. Coloro che ne criticano la spudoratezza avvertono anche
il suo immenso rispetto, la sua ammirazione tenace per il
«libertador» della Nuova Granada. Tanta è la sua deferenza verso
l'eroe, mi viene di pensare, che concede a Bolivar il privilegio di
batterlo sul piano narrativo. Che Dio mi perdoni: Gabo è il più
grande di tutti gli scrittori di oggi e non avrebbe dovuto permettere
che Bolivar s'immischiasse in un suo romanzo. L'incontro di due
colossi richiede sempre il sacrificio ili uno di essi e Garcia
Marquez deve averlo imparato rivedendo rincontro culminante tra i
grandi generali del sud.
C'è un certo rancore
sammartiniano in ciò che vado scrivendo.
Nel 1824, i due
liberatori dell'America Latina, Bolivar e San Martin, si incontrarono
a Solas, nel Gujaquil, dopo aver guerreggiato dieci anni contro i
reazionari. Uno aveva appena fondato la Colombia, liberato mezzo
continente da Caracas a Guajaquil; l'altro aveva cacciato gli
spagnoli dall'Argentina, Cile e Perù. Dopo questo memorabile
incontro, che Jorge Luis Borges tentò di decifrare in un racconto
memorabile, San Martin rinunciò al futuro e se ne andò
definitivamente in Europa. Non si seppe mai quello che si dissero
allora, quali terribili enigmi s'incrociarono in quelle due notti con
sottofondo di valzer viennesi in un palazzo della bella Guajaquil.
Ci sono mille ipotesi, ma
nessuna interessa, adesso che la storia è stata già fatta. Gli
argentini credono che Bolivar fosse ambizioso fino all'inverosimile;
gli abitanti dei Caraibi come Garcia Marquez credono che San Martin
fosse soltanto il «libertador del Rio della Piata».
È possibile che
l'ipotesi più semplice sia quella giusta: il continente era troppo
piccolo per due uomini tanto orgogliosi. Il più debole dovette
rinunciare; le truppe di San Martin, di stanza a Lima, erano poche e
nauseate dalla guerra, stremate dalla fatica, spopolate dalle
diserzioni. Bolivar era un politico di buon naso, a volte presidente,
a volte dittatore. San Martin era solo un militare di carriera che si
era rifiutato di partecipare alle lotto intestine in Argentina e
Cile. Ambedue avevano qualcosa di Bonaparte, solo che non c'era
nessuno ad aspettarli alla fine del viaggio.
Talvolta, trovandomi tra
le alture delle Ande, mi sono chiesto quale fuoco scaldasse quegli
uomini dell'indipendenza che attraversavano più volte la cordigliere
a dorso di mulo. Non solo i grandi massoni, come Bolivar e San Martin
ma anche gli altri, i generali di truppe miserabili, i colonnelli di
povere pattuglie, gli azzeccagarbugli e magazzinieri che comandavano
eserciti di disperati per combattere contro i fanatici spagnoli
educati nelle accademie di Siviglia e Madrid. Coloro che, per loro
infinita disgrazia, lasciarono poche tracce nella storia e che
avrebbero potuto, oggi, essere i possibili personaggi di una Guerra
e pace su scala sudamericana.
Non conosco nei
particolari la storia dell'indipendenza, ma più di Bolivar mi piace
il tardo José Marti, che compose la Guantanamera mentre
combatteva per Cuba. Rimango con Artigas, l'uruguayano indomabile, e
con i fratelli cileni Carreras, che San Martin fucilò per dare il
potere a O'Higgins.
Mi è più simpatico il
dottor Castelli, figlio di veneti, giacobino inopportuno, comandante
impossibile che perdette il territorio che più tardi sarebbe passato
alla Bolivia per rincorrere curati e redimere indios.
Dubitare di Bolivar e San
Martin è altrettanto grave che criticare Garibaldi, che a sua volta
combattè nella Brigata Orientale del Rio de la Plata. Per questo
credo che Garcia Mar-quez non poteva proporsi una cosa più onesta e
audace del resuscitare la vecchiaia prematura dell'uomo che richiamò
all'unità continentale, a Panama, e al tempo stesso dire alcune cose
all'Europa invasata e prospera di oggi.
«Non cercate
d'insegnarci come dovremmo essere, non cercate di fare in modo che
siamo uguali a voi, non pretendete che facciamo bene in venti anni
quello che voi avete fatto tanto male in duemila (...) Per favore
lasciateci vivere tranquilli il nostro medioevo!».
Lo ha detto Bolivar o lo
dice Garcia Marquez? In ogni caso questo dialogo con l'improbabile
francese Diocles Atlantique, è uno dei momenti forti di El
general en su labirinto. Una protesta che tuona contro
l'incomprensione di questo fine di secolo di Mercato comune, privo di
sensi di colpa e borghese.
La teoria che i giovani
popoli d'America fanno oggi, con fatica, quello che l'Europa fece
fino al secolo scorso, è stata già esposta da Garcia Marquez nel
suo discorso davanti all'Accademia del Nobel nel 1982 e ripetuta
tante di quelle volte che mi viene di pensare che l'autore di Cento
anni di solitudine non si stanca di chiedere comprensione per
quello che molti europei vedono come una semplice esposizione di
esotismo o barbarie, da Noriega a Menem, da Ortega a Castro.
E non ha molto torto: il
trattamento dell'informazione dei grandi monopoli di stampa riguardo
a Panama e il suo «caudillo», al Nicaragua sandinista, a Cuba
comunista, all'Argentina peronista, ci fa sospettare, a noi che
viviamo in uno di questi paesi, che molte volte si misura con il
medesimo metro l'avventura della miseria e il godimento del
postmoderno.
Là sanguinaria
rivoluzione del 1789, che i francesi festeggiano in questi giorni, ha
fondato una nuova epoca nella storia dell'occidente. Visti a
distanza, Mirabeau, Danton e Robespierre ci appaiono severi, giusti,
eccessivi o grandiosi. Ma, si permetterebbero ai poveri popoli di
oggi degli eccessi come quelli? No, senza dubbio, poiché l'idea che
i paesi ricchi si fanno del mondo è solenne quanto autoritaria.
Quando ero bambino e
iniziavo la scuola, a mio padre piaceva paragonare il nostro potente
peso argentino del 1950 con le povere monete d'Italia e Spagna. Le
cifre che mi scriveva su un pezzo di carta perché familiarizzassi
con i numeri, avevano qualcosa d'inverosimile e per questo ci
divertivamo tutti e due: gli italiani che emigravano nelle pampas
ai tempi di Miracolo a Milano e Umberto D avevano
bisogno di 500 lire per comprare un nostro peso e gli spagnoli che
scappavano da Franco, 100 pesetas, o qualcosa del genere.
Per non parlare dei
poveri giapponesi che andavano a San Luis o Montevideo per aprire una
tintoria in ogni angolo di strada senza che nessuno sapesse di chi
fosse stata l'idea che smacchiare pantaloni in Sudamerica poteva
rivelarsi un buon affare. Erano tanto laboriosi questi contadini che
arrivavano nelle nostre province, che sentivamo per loro un'infinita
compassione. E possibile che neanche noi comprendessimo esattamente
la dimensione del loro dramma.
«C'è fame in Europa»,
ci raccontava la nostra maestra che spiegava la presunta generosità
di Peron quando mandava carichi di grano gratis alle terre dei nostri
padri e nonni. Il vecchio mondo con le sue guerre e carestie, ci
appariva alla fin fine anacronistico e dolorante. Come non provare
pietà per quella gente che viveva in edifici cadenti, o in
appezzamenti di terreno senza servizi, senza elettricità, a volte
senz'acqua?
Quell'Europa «barbara»
veniva dalla guerra, ma non era stata molto brillante neppure prima
di Hitler. Noi che eravamo nati nel nuovo mondo, non immaginavamo che
un giorno saremmo stati il simbolo dell'arretratezza, il luogo della
fame, il modello della disperazione.
Appunto, dai loro
impassibili piedistalli, San Martin e Bolivar vigilavano
sull'avventura sudamericana. I nostri dittatori non erano peggiori né
più stravaganti di Mussolini. Franco o il dottor Salazar. E tuttavia
furono sufficienti due generazioni perché tutto si capovolgesse,
come se la felicità di pochi avesse bisogno della disgrazia di
altri.
In altri tempi, Bolivar
aveva già detto al suo fedele segretario José Palacios: «Siamo
sempre stati ricchi e non è mai avanzato nulla». Si riferiva alla
sua lunga campagna nella quale perdette la più grande fortuna del
Venezuela mentre guadagnava, come pure il suo disprezzato San Martin,
ingratitudine e tradimenti. Ma quando riproduce il dialogo, l'autore
del romanzo parla di questo sud di fallimenti e guerre che un giorno,
alla fine, avranno termine.
Quello di Simon Bolivar è
un mondo che iniziò a copiare l'Europa per liberarsi di essa e
terminò stretto in un bozzolo di dubbi filosofici e bancari che non
gli permisero di esprimere una propria identità.
Forse la rapacità e la
cecità delle borghesie che elevarono a idoli i dignitari
dell'emancipazione, sono la principale causa di miseria e
arretratezza.
Forse da
quest'establishment intellettuale provinciale genuflesso
verranno le critiche più dure contro il riscatto testuale di un
guerriero fondatore che non sarà un appassionante personaggio di un
romanzo, ma che aveva bisogno di prendere ancora una volta la parola
per dimostrarci che un tempo ci fu chi credette veramente nell'utopia
di un'America del sud indipendente, unica e indivisibile.
Sebbene quello fosse un
sogno vano e quella di oggi una realtà insopportabile.
“il manifesto”, 25
luglio 1989
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