11.8.14

Il diario di Vittorini e gli inverni di Fortini. Due libri del 57 (S.L.L.)

Ci sono due libri del 1957 che, meglio di molti altri, ci danno il senso delle speranze deluse della Resistenza. Sono il Diario in pubblico di Elio Vittorini e i Dieci inverni (1947 – 1957) di Franco Fortini. L’uno e l’altro erano stati protagonisti dell’esperienza del “Politecnico”, il primo da promotore e direttore, il secondo da redattore assiduo, entrambi fautori di una cultura che non si limitasse a consolare gli uomini del male, ma contribuisse a combatterlo quanto meno sul piano politico e sociale.
I libri sono l’uno e l’altro un’autobiografia politico-culturale in cui l’individualità è fortemente rilevata, ma sul versante pubblico non già su quello privato e, meno che mai, intimo; l’uno e l’altro raccolgono scritti di vario genere e natura, quasi tutti già pubblicati soprattutto in rivista (brevi saggi, recensioni, interventi critici, note polemiche), come per fissare un bilancio e rilanciare in avanti.
Il senso assai diverso che i due grandi novecentisti danno a questo bilancio è tuttavia evidente già nei sottotitoli dei due libri: quello di Vittorini si presenta come l’Autobiografia di un militante della cultura, quello di Fortini come un Contributo a un discorso socialista. Nel primo caso si conferma così il primato vittoriniano della cultura sulla politica (“la politica è cronaca, la cultura è storia” – aveva scritto in polemica con Togliatti), che esaltava, in forma un po’ corporativa, il ruolo degli intellettuali. Nel caso di Fortini non c’è, certo, lo zdanoviano, staliniano o anche togliattiano, asservimento della cultura alla “ragion di partito”, semmai l’idea di una diversità di livelli e di funzioni, che comporta una reciproca irriducibilità tra cultura e politica. Ciò obbliga i poeti, i letterati, gli intellettuali in carne ed ossa, a non cercare improbabili quadrature del cerchio, a non pretendere che “tutto si tenga”, ad accettare, con tutta la sofferenza del caso, una sorta di scissione nel loro agire, evitando sia di rivendicare una qualsivoglia primazia della cultura sia di chiudersi (o farsi rinchiudere) in una ricostruita torre d’avorio.
Succede così che la forma (sempre molto letteraria) e l’argomento (spesso letterario) dei testi si accompagni spesso in Fortini a un approccio e a un messaggio esplicitamente politico e che la compresenza dei due livelli produca conflitto e stridore. E’ tutto in questo stridere, mi pare, il rumore di fondo della prosa saggistica di Franco Fortini, insieme saggio di belle lettere ed intervento nel conflitto delle parti e delle classi. 
Il carattere politico (propagandistico, perfino) del libro fortiniano è esplicitato dallo stesso autore nella prefazione alla ristampa di Dieci inverni del 1973, quando scrive di essere «uno dei tanti che almeno dall’età giacobina hanno in Europa chiamato a resistenza e rigore (o si dica alle virtù civili) una parte del ceto intellettuale medio e piccolo borghese».  

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