Ci sono due libri del 1957 che, meglio
di molti altri, ci danno il senso delle speranze deluse della
Resistenza. Sono il Diario in pubblico di Elio Vittorini e i
Dieci inverni (1947 – 1957) di Franco Fortini. L’uno e
l’altro erano stati protagonisti dell’esperienza del
“Politecnico”, il primo da promotore e direttore, il secondo da
redattore assiduo, entrambi fautori di una cultura che non si
limitasse a consolare gli uomini del male, ma contribuisse a
combatterlo quanto meno sul piano politico e sociale.
I libri sono l’uno e l’altro
un’autobiografia politico-culturale in cui l’individualità è
fortemente rilevata, ma sul versante pubblico non già su quello
privato e, meno che mai, intimo; l’uno e l’altro raccolgono
scritti di vario genere e natura, quasi tutti già pubblicati
soprattutto in rivista (brevi saggi, recensioni, interventi critici,
note polemiche), come per fissare un bilancio e rilanciare in avanti.
Il senso assai diverso che i due grandi
novecentisti danno a questo bilancio è tuttavia evidente già nei
sottotitoli dei due libri: quello di Vittorini si presenta come
l’Autobiografia di un militante della cultura, quello di
Fortini come un Contributo a un discorso socialista. Nel primo
caso si conferma così il primato vittoriniano della cultura sulla
politica (“la politica è cronaca, la cultura è storia” –
aveva scritto in polemica con Togliatti), che esaltava, in forma un
po’ corporativa, il ruolo degli intellettuali. Nel caso di Fortini
non c’è, certo, lo zdanoviano, staliniano o anche togliattiano,
asservimento della cultura alla “ragion di partito”, semmai
l’idea di una diversità di livelli e di funzioni, che comporta una
reciproca irriducibilità tra cultura e politica. Ciò obbliga i
poeti, i letterati, gli intellettuali in carne ed ossa, a non cercare
improbabili quadrature del cerchio, a non pretendere che “tutto si
tenga”, ad accettare, con tutta la sofferenza del caso, una sorta
di scissione nel loro agire, evitando sia di rivendicare una
qualsivoglia primazia della cultura sia di chiudersi (o farsi
rinchiudere) in una ricostruita torre d’avorio.
Succede così che la forma (sempre
molto letteraria) e l’argomento (spesso letterario) dei testi si
accompagni spesso in Fortini a un approccio e a un messaggio
esplicitamente politico e che la compresenza dei due livelli produca
conflitto e stridore. E’ tutto in questo stridere, mi pare, il
rumore di fondo della prosa saggistica di Franco Fortini, insieme
saggio di belle lettere ed intervento nel conflitto delle parti e
delle classi.
Il carattere politico (propagandistico, perfino) del libro fortiniano è esplicitato dallo stesso autore nella prefazione alla ristampa di Dieci inverni del 1973, quando scrive di essere «uno dei tanti che almeno dall’età giacobina hanno in Europa chiamato a resistenza e rigore (o si dica alle virtù civili) una parte del ceto intellettuale medio e piccolo borghese».
Il carattere politico (propagandistico, perfino) del libro fortiniano è esplicitato dallo stesso autore nella prefazione alla ristampa di Dieci inverni del 1973, quando scrive di essere «uno dei tanti che almeno dall’età giacobina hanno in Europa chiamato a resistenza e rigore (o si dica alle virtù civili) una parte del ceto intellettuale medio e piccolo borghese».
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