Un bilancio sull'opera di
Le Carré di circa trent'anni fa. Il meglio lo scrittore lo aveva già
dato e quel che è venuto dopo (anche di qualità) non aggiunge
moltissimo al quadro. Quello che non regge al tempo è la qualifica
di “cinico”. Forse era esagerata anche allora. (S.L.L.)
John Le Carré |
Di spie e agenti segreti
era piena la letteratura poliziesca, e c'era già stato Conrad a
dimostrare come potessero essere gente comune, maldestra, mimetizzata
senza sforzo perché, all'apparenza, "come tutti". Ma la
prima spia moderna, prima di una lunga fila, fu Ashenden
l'inglese, nel romanzo omonimo di Maugham. Pochi in Italia lo
conoscono, lo pubblicò Garzanti molti anni fa e non l'ha mai
ristampato. Purtroppo, perché è un romanzo assai bello.
Maugham aveva fatto la
spia in Svizzera e in Russia durante la prima guerra mondiale, agli
ordini dell'Intelligence Service. Molti scrittori, prima e dopo di
lui, avevano passato informazioni, a pagamento e no, al governo di
Sua Maestà: anche Kipling. Ma dopo Maugham vennero Greene, Ambler,
Le Carré, tre ottimi scrittori, che seppero servirsi del loro
periodo più o meno breve di attività spionistica "regolare"
per derivarne idee e sfondi per tanti romanzi. Le sue caratteristiche
erano state fissate da Maugham: protagonisti ambigui e spesso
notturni, in genere mediocri; intrecci serrati e complessi condotti
con ritmo cinematografico e (Ambler) con grande uso di flashback;
riflessioni morali, insistite (Greene) o appena accennate (Ambler);
perfetta padronanza delle logiche della politica internazionale.
L'avvento di Le Carré ha
dato al genere nuovo fiato, ponendolo subito in alternativa ai
fasullissimi James Bond di Fleming, ma non si può dire che la novità
sia stata enorme, rispetto ai suoi predecessori. Semplicemente, Le
Carré ha servito la Regina dopo la guerra e non prima o durante, e
conosce meglio di Greene e di Ambler come la politica internazionale
si è evoluta, e come sono cambiati i meccanismi che la reggono: più
spietati, certamente più cinici.
L'altra novità è di
tipo morale. Di Greene, cattolico per conversione, non si può dire
certo che sia un cinico, e neanche del miglior Ambler (La maschera
di Dimitrios, L'eredità Schirmer). Di Le Carré sì. La
sua morale è semmai quella del gruppo, del "Circus"
londinese formato dai suoi superiori e colleghi e guidato
dall'ineffabile Smiley, ma non implica di per sé un'adesione ai
"valori occidentali", alla tradizione inglese, all'emblema
della Regina. C'è anzi, nei loro confronti, una buona dose di
sfiducia, e nei confronti del lavoro scelto un semplice scrupolo di
efficienza.
La spia deve lottare
contro altre spie. "Spia" non è una parolaccia, in
inglese, e in questi romanzi non lo è neanche, a ben vedere, se
riferita alle spie di altri paesi; diventa tale soltanto quando
indica dei traditori, della gente passata dall'altra parte. E che,
più che la patria, a tradito il clan. Il sottomondo che le spie
popolano s'intreccia con quello della politica, e non potrebbe essere
altrimenti, ne è la faccia più oscura. Le spie anzi, per quanto
ciniche, rischiano e spesso pagano; quelli che stanno "sopra"
non rischiano. Povera gente, gente miserabile è la loro fauna a
rendere così vivi e credibili i romanzi di Le Carré.
Le Carré è però
miglior scrittore quando ha ambizioni meglio nascoste nelle storie e
negli intrecci che non quando si diffonde a spiegarle. In alcuni casi
rivela allora anche una qualche debolezza di giudizio (per esempio in
La tamburina, che davvero non riesce a dare le loro ragioni né
a israeliani né a arabi, nella sua logica di "un colpo al
cerchio e uno alla botte"). E francamente dal punto di vista
della complessità "letteraria" Le Carré non è un Pinter,
anche se Pinter lo ha più o meno copiato nella sua sceneggiatura di
Quiller memorandum.
Non a caso, anche i film
derivati da Le Carré, pochi in confronto a quelli derivati da Greene
e da Ambler anche da altri suoi epigoni come Deighton e Forsyth, sono
più interessanti quando tratti dai primi libri (La spia che venne
dal freddo di Ritt, con un ottimo Burton; Chiamata per il
morto di Lumet, con un'indimenticabile Signoret) che non quando
tratti dagli ultimi (i televisivi con Alee Guinness nei panni di
Smiley, o l'insulso La tamburina di G. R. Hill). La forza
della letteratura di spionaggio moderna sta anche nel suo essere
“cinema” , influenzata dal cinema, e influenzante il cinema,
basata sull'azione e la velocità, pur nella complessità, della
"trama". Rinunciando parzialmente a questo, Le Carré
pretende alla grande letteratura (cioè a Conrad) ma non sembra in
grado di raggiungerla, e può perdere l'amore, l'interesse, la
passione con cui i suoi lettori lo seguono. Sono uno di quelli,
perché credo in una letteratura che abbia ancora qualcosa da
raccontare che non sia per esempio la solita autoidealizzazione
narcisistica dei letterati italiani, ma da un po' di tempo in qua mi
scopro ad aspettare con meno ansia "l'ultimo Le Carré".
“L’Espresso”, 25
giugno 1985
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