Un articolo documentato e
appassionato, nel sito di “pagina99”, ripercorre la tormentata
esperienza di una delle voci più importanti della poesia italiana
del primo Novecento. (S.L.L.)
C'è una voce che nel
florido universo poetico italiano del Novecento, brilla in tutta la
sua magnifica potenza accecante, devastante, folle. Una voce sola, a
tratti così buia da non poter essere distinta, nella notte, dalla
notte stessa. Una voce indipendente, impossibile da circoscrivere -
né scapigliata, né crepuscolare, né avanguardista - e che precede
gli immensi poeti italiani del Ventesimo secolo, Ungaretti e Montale
su tutti. Una voce errabonda, malata, avvelenata, tra le più
sofferenti e tormentate dell'intero panorama letterario, e non solo
nelle sue produzioni, ma anche, e soprattutto, forse, nella sua
singolare esistenza. Una voce che per nome ha Dino, e per cognome
Campana.
Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova nella sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide. (Dino Campana, Canti orfici)
È il 20 agosto del 1885,
quando Dino Campana nasce a Marradi, un piccolo paese in provincia di
Firenze, da Giovanni, insegnante di scuola elementare dal carattere
particolarmente remissivo, e da Francesca Luti, donna dalla
personalità complessa, compulsiva, rigida e credente nel profondo.
Dopo un'infanzia
tranquilla - l'unico periodo senza affanni dell'esistenza del poeta -
Dino è nel pieno dell'adolescenza, ha infatti quindici anni, quando
gli vengono diagnosticati i primi disturbi di carattere nervoso.
Disturbi che tuttavia non gli impediscono di portare a termine gli
studi. Dopo aver conseguito, nel 1903, la maturità presso il liceo
ginnasio statale "Evangelista Torricelli" di Faenza, torna
a Marradi. Le crisi nervose si intensificano, e, sommate ai rapporti
complicati con la famiglia, in particolar modo con la madre, e con il
paese natale, provocano sempre più frequenti e violenti sbalzi di
umore.
A diciannove anni
sostiene l'esame per sergente presso la scuola per ufficiali di
complemento di Ravenna. Il risultato della prova è amaro: bocciato.
Si iscrive dunque alla Facoltà di Chimica all'Università di
Bologna. Nel capoluogo emiliano pubblica, sui fogli dei gruppi
goliardi che frequenta, le sue prime poesie, alcune delle quali
verranno in seguito inserite nella sua più celebre raccolta di
versi, Canti Orfici. Nel 1905 passa alla Facoltà di Chimica
farmaceutica all'Università di Firenze, senza però riuscire a
raggiungere la laurea.
In questi anni
universitari inizia ad addensarsi nell'animo di Campana una nube
sinistra dalla forma inquietante, quell'angoscioso e perpetuo "male
oscuro" che non abbandonerà più il poeta, accompagnandolo fino
alla fine dei suoi tormentati giorni. Questo fosco stato d'animo
produce uno sfrenato bisogno di fuggire, un irrefrenabile desiderio
di vita errabonda. La famiglia, il paese e l'autorità pubblica
considerano subito gli atteggiamenti del giovane Campana evidenti
segni della sua pazzia. Ad ogni fuga segue - in conformità con le
barbare ed assurde regole del sistema psichiatrico di allora - il
ricovero in manicomio. Viene internato per la prima volta a soli
vent'anni, ad Imola. Nel 1906 scappa. Vuole raggiungere prima la
Svizzera, e poi la Francia, lasciandosi così alle spalle una
giovinezza troppo problematica, ma viene fermato ed arrestato a
Bardonecchia, quindi nuovamente "ricoverato" ad Imola. La
madre, logorata ed abbattuta dalle vicende del figlio, arriva
addirittura a credere di aver concepito l'anticristo. Nel 1907 esce,
grazie all'intervento della famiglia, a cui viene affidato. A questo
anno corrisponde una delle pagine più controverse della vita di
Campana, il celebre viaggio in Argentina. Intorno a questo episodio
esistono molte ipotesi più o meno reali, più o meno fantasiose. C'è
persino chi, come Ungaretti, sostiene l'infondatezza del soggiorno
sudamericano. L'ipotesi più accreditata sostiene che Campana sia
partito da Genova nell'autunno del 1907, ed abbia vagabondato per
l'Argentina fino alla primavera del 1909, l'anno in cui "riappare
magicamente" a Marradi. Viene ovviamente arrestato. Dopo un
fugace apparizione al manicomio San Salvi di Firenze, parte alla
volta del Belgio. Arrestato a Bruxelles, ed internato a Tournay, nel
1910, implora l'aiuto della famiglia, che interviene, e convince le
autorità belghe a farlo tornare nel paese natale.
Tornato a casa, vive
finalmente degli anni placidi, senza fughe, né guai giudiziari. Anni
in cui riesce a dedicarsi totalmente a quel che gli riesce meglio: la
poesia. Nel 1913 si presenta a Firenze, alla redazione della rivista
letteraria «Lacerba», diretta da Giovanni Papini e Ardengo Soffici,
cui consegna il manoscritto Il più lungo giorno. Campana e la sua
opera prima non vengono presi in considerazione, e dopo alcuni mesi
di fiduciosa e vana attesa, torna da Papini per riprendersi l'unica,
preziosissima copia del manoscritto. Papini lo manda da Soffici, che
lo ha perduto. Disperato, esasperato, il debole Campana,
colpevolmente ignorato dall'ambiente culturale fiorentino del tempo,
arriva a minacciare, coltello in pungo, l'"infame" Soffici
ed i suoi soci "sciacalli". Proponiamo una lettera del
poeta a Papini. Notate il carattere generale del testo, da invettiva
"dantesca", e le parole aspre ed amareggiate dell'uomo
tradito, e rigettato da un habitat culturale che non lo comprende.
[...] E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di càncheri che è Firenze e venite qua a Genova: e se siete un uomo d'azione la vita ve lo dirà e se siete artista il mare ve lo dirà. Ma se voi avete un qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi l'energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi? Accademia della Crusca. Accademia dei Lincei. Accademia del mantellaccio: sì, voi siete l'accademia del Mantellaccio; con questo nome ora vi dico in confidenza, io vi chiamo se non rispettate di più l'arte. Mandate via quella redazione che a me sembrano tutti cialtroni. Essi sono ignari del «numero che governa i bei pensieri». La vostra speranza sia fondare l'alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze. Sapete, essendo voi filosofo sono in diritto di dire tutto: del resto vi sarete accorto che sono un'intelligenza superiore alla media. Per finire, il vostro giornale è monotono, molto monotono: l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici: come novità: Le cose che fanno la Primavera. In verità vi dico tutte queste cose non fanno la Primavera ma l'inverno. Ma scrivete un po' a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandi qualche cosa di buono: e finitela colla critica.
Guidato da un insperato
fervore, nel 1914, nel giro di pochi giorni, in cui lavora
ininterrottamente, anche di notte, riesce a scrivere di nuovo,
appellandosi alla memoria e a disordinati abbozzi, la raccolta di
poesie, che pubblica, a proprie spese, con il titolo, splendido per
le atmosfere divine che rievoca, Canti Orfici.
Trascorre l'intero anno
1915 viaggiando senza sosta né meta: Torino, Domodossola, ancora
Firenze. Esplode e presto infuria in tutta Europa la Grande guerra e
Campana, convinto e fermo pacifista, dunque neutralista, viene
esonerato dal servizio militare con la motivazione ufficiale di
problemi di salute di natura fisica. In realtà è oramai segnalato
ovunque come malato psichiatrico grave ed irreversibile. Nel 1916
sfiora il duello con il giornalista Athos Gastone Banti, il quale
aveva scritto e pubblicato sul quotidiano «Il Telegrafo» un
articolo denigratorio nei confronti del poeta. La vicenda si conclude
con un nulla di fatto. Nello stesso anno inizia la magnifica ed
impossibile storia d'amore con Sibilla Aleramo. La relazione logora
entrambi, portandoli ad un annientamento psico-fisico-sentimentale
senza precedenti. Non aggiungiamo altro, a questa ottenebrata favola
amorosa dedicheremo presto un articolo specifico. Fu per ambedue
un'esperienza troppo grande ed importante per essere racchiusa in
poche righe.
La fine è vicina. Nel
1918 Campana viene di nuovo internato, questa volta nel manicomio di
Villa di Castelpucci, a Scandicci (Fi). La diagnosi dello psichiatra
Carlo Pariani è orribile e non ammette repliche: ebefrenia, ovvero
una delle forme più gravi di psicosi schizofrenica, impossibile da
curare.
È il primo marzo del
1932, quando il poeta muore in ospedale, probabilmente a causa di una
forma di setticemia, pare, determinata dalle ferite provocate dal
filo spinato in seguito all'ennesimo tentativo di fuga, l'ultimo,
finito male. Non c'è pace neppure per i resti di Campana. Il 2 marzo
il corpo viene inumato nel cimitero di San Colombano a Badia a
Settimo. Nel 1942 viene data alle spoglie del poeta una sepoltura
dignitosa, e la salma trova riposo nella cappella sottostante il
campanile della chiesa di San Salvatore. Il 4 agosto del 1944 i
tedeschi, in ritirata, con la coda fra le gambe, hanno la brillante
idea di far esplodere il campanile della chiesa, distruggendo così
anche la cappella che contiene le esequie del poeta. Nel 1946,
finalmente, la soluzione definitiva. Le ossa di Campana, dopo una
cerimonia alla quale partecipano molte personalità di spicco
dell'orbita letteraria dell'epoca - Montale, Gatto, Bo ecc. - vengono
di nuovo, e per sempre, collocate all'interno della chiesa di San
Salvatore a Badia a Settimo.
Fine
Fine. Ti chiederai
perché, caro Lettore, ho scritto questa parola al termine di una
biografia, come in una vecchia pellicola cinematografica, magari in
bianco e nero. Sinceramente non lo so. Il fatto è che dopo aver
ripercorso l'intera esistenza di Campana, così colma di indicibile
sofferenza, mi è venuto naturale scrivere in conclusione, nel fondo
dell'articolo, la parola fine. Forse perché personalità come
Campana - abbiamo già parlato in Freemaninrealworld di casi simili,
con Kleist e Mainländer - l'ultimo atto, l'epilogo, la morte è
l'istante, l'unico istante, in cui in tutta la loro vita hanno
provato un autentico ed immenso sollievo, forse, la più grande
gioia.
Pagina99,
18 aprile 2014
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