Carlo Levi, Tetti di Roma |
Spazio «mutevole e
immobile, fermo e fugace, labile e eterno», «centro fatale di
chiesa e corruzione»: la Roma stratificata e disorientante,
splendida e torva, passaggio cruciale per Goethe come per Stendhal,
per Hawthorne come per James, ricompare filtrata non da un’esperienza
eccezionale ma da una quotidiana intimità, in scritti di Carlo Levi
compresi tra il 1951 e il 1963 (per lo più usciti su giornali e
riviste, qualcuno inedito): ora raccolti, secondo un progetto
dell’autore, con il titolo Roma fuggitiva, in un’edizione
basata sulle carte originali (Donzelli), curata da Gigliola De Donato, illustrata da
fotografie di Allan Hailstone, e accompagnata da una presentazione e
una postfazione di Giulio Ferroni.
Come Ferroni rileva, il
titolo, ispirato a un sonetto di Quevedo (che Levi attribuisce
erroneamente a Góngora), sottende più sensi. È fuggitiva la città,
o meglio sfuggente a una definizione univoca: epicentro della
mutazione in agguato, stretta tra lunghi immobilismi e metamorfosi
incoerenti; in bilico tra la restaurazione soffocante di cui Levi
avverte la minaccia già nell’Orologio, e nuovi fremiti di
protesta; disarticolata tra la stasi del centro storico, i disagi
delle borgate in espansione e i quartieri moderni nati da un rapace
affarismo, «sfavillanti e avidi come dentiere». E fuggitiva è
altresì la scrittura, non solo perché vincolata alla misura
effimera e agile dell’articolo, ma perché anch’essa refrattaria
alla classificazione, imbastita (in linea con la tradizione
elzeviristica che fa capo ai Pesci rossi di Cecchi) su una
trama irregolare di impressioni, divagazioni e note autobiografiche,
e fluttuante lungo una gamma di toni eterogenei, che peraltro tocca
gradi di profondità ben diversi. Molti pezzi scivolano scorrevoli
tra gli aneddoti diletto continuo del Levi uomo di mondo (come
ricordano i suoi amici Sartre e Simone de Beauvoir) e i colpi
d’occhio sostenuti dalla sua esperienza di pittore, sfiorando
quindi suggestioni e paradossi della capitale con pennellate
classicamente accattivanti e provvisorie: le osservazioni di costume
sul «turismo iperbolico» delle comitive, o sulla villeggiatura
estiva non più solo rito snob di goldoniana memoria, ma anche
insofferente fuga di massa; gli avvicendamenti di tipi umani (sempre
mediati dalla prospettiva un po’ paternalista già tipica di Cristo
s’è fermato a Eboli), quali l’usciere decorato di guerra senza
averne compreso la ragione, la governante ciociara «torreggiante e
imperturbabile», il contadino lucano rapinato da finti poliziotti;
gli scorci di quotidianità, che vanno dall’eroicomico
combattimento contro cinque gatti di un topo degno del Rubabocconi
leopardiano, alla «scena hemingwaiana» di una turista che esige un
Negroni senza gin e una Roma senza italiani, all’aggressione
improvvisa e miracolosa di una primavera che «diventa insieme
foresta e architettura con l’infiorata di Piazza di Spagna».
Ma spesso la scrittura si
fa più inquieta e pungente, intercetta più da vicino le ambiguità
del tempo, serra la realtà esaminata in una rete palese o
sotterranea di nessi e contrasti. Un articolo divaga con sbrigliata
libertà associazionistica sulle Olimpiadi del 1960 (paragonando
l’atleta Wilma Rudolph alla Nataša tolstojana, immagine
antonomastica di gioia di vivere, e accostando più a sorpresa un
altro velocista, Livio Berruti, a un diversissimo esempio delle
sterminate potenzialità della giovinezza, Piero Gobetti); ma quello
successivo si ferma invece aspramente sul loro contesto, descrivendo
la speculazione edilizia che ne ha approfittato per deformare i piani
regolatori, la costruzione dell’Hilton scempio definitivo di Monte
Mario, la dilatazione della «tela di privilegio e interessi»
tessuta dai «Luigini», i benestanti e corrotti filistei presi di
mira già nell’Orologio. E la Piazza Navona adorata tappa di
ogni effettiva o cartacea passeggiata romana, figura da un lato come
fulcro della permanenza, familiare teatro di rassicuranti
consuetudini (il «frastuono pagano e agreste» della festa della
Befana, dove il mutamento inizia a insinuarsi solo attraverso i
giocattoli giapponesi), dall’altro come scenario di strappi
laceranti, teatro a sorpresa dell’efferato «delitto di classe»
commesso dal ristoratore Fernando Ciampini, che l’11 marzo 1962
uccide a colpi di pistola il ladruncolo Rossano Moscucci, sorpreso a
rubare un’autoradio: delitto di cui Levi evoca ellitticamente
protagonisti e dinamica (sarebbe stato opportuno qualche ragguaglio
in merito nell’altrove accurato apparato di note), per soffermarsi
invece sulle sue valenze, e scorgervi, sulla scia di un giudizio di
Pasolini, una spia agghiacciante del disprezzo per il
sottoproletariato e delle velleità di giustizia privata che
serpeggiano nel conformismo borghese.
Lo scavo nelle dissonanze
della contemporaneità si intensifica nei passi sulla popolazione
della città e della provincia, vista
da un lato come «populusque» compresso dall’intima
congiunzione con un potere passato per incarnazioni varie (impero,
chiesa, fascismo, governo democristiano), ma sempre incombente e
repressivo, dall’altro come agglomerato dai volti differenti:
collettività avvezza al disincanto, sia rassegnazione sempiterna o
noia moraviana; «massa inerte» per cui il voto è una nuova
articolazione del rito dell’obbedienza, che si accalca a sorbire
l’eloquenza manipolatrice di Andreotti (assimilato ai personaggi
stendhaliani imbevuti di «fredda passione del calcolo politico» e
«disprezzo fondamentale dell’uomo»); ma anche «cosa viva, piena
di forza nascosta», serbatoio di energie giovani in grado (come
dimostrano le più volte evocate manifestazioni di Porta S. Paolo,
parte della protesta contro il governo Tambroni che insanguina
l’Italia del 1960), di sfondare le «muraglie tradizionali»
dell’indifferenza.
Levi spinge
l’esplorazione dei fenomeni dell’epoca anche alla sfera a lui più
prossima, con l’articolo Calcio e letterati, divertito e
divertente racconto di una telefonata a Bassani, in cui il proprio
desiderio di dare degna voce al giudizio sull’appena comparso
Giardino dei Finzi-Contini urta contro la smania dell’amico
di tornare alla visione televisiva della partita Real
Madrid-Juventus; peraltro, rifiuta di ricavare dall’episodio
«lunghe considerazioni sugli aspetti della civiltà di massa, sui
caratteri dell’alienazione», per sottolineare invece i «risultati
quasi incredibili di umiltà» che questa civiltà può generare: non
solo canzonando così un gergo sociologico già imperversante e vacuo
quanto le mode che studia, ma anche dissacrando l’autorevolezza
ancora ambita dagli scrittori, smontando le loro pretese di
superiorità sul proprio tempo.
È appunto un implicito piglio
autodissacratorio, in fondo, il principio unificante di questi
articoli: deponendo i panni dello scrittore per quelli del
commentatore occasionale, abbandonando l’abituale tensione alle rappresentazioni
organiche e ai pronunciamenti forti, mescolando volubilmente emozioni
poetiche e engagement
indignato, fervore delle esortazioni e aporie del dubbio, Levi
insegue le contraddizioni di Roma e del periodo con un atteggiamento
contraddittorio anch’esso, riflette i cambiamenti in una scrittura
a sua volta cangiante, pone sulle transizioni in corso domande
leggere o corrosive, comunque restie a sciogliersi in conclusioni;
scontato poi aggiungere che le risposte loro fornite dalla storia ne
rendono oggi per noi il suono forse più malinconico, sicuramente più
interessante.
Alias-il manifesto, 2
luglio 2011
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