Alberto Moravia |
Ho “postato” di
recente un paio di “stroncature” di Moravia, di Fini e di
Berardinelli. Né l'uno né l'altro, tuttavia, per quanto ostili al
prolifico narratore del Novecento italiano, negavano valore agli
Indifferenti. Del ruolo che
quell'opera ebbe nella formazione intellettuale degli italiani più
giovani fino agli anni 60 del secolo scorso scrive in maniera
convincente Sanguineti nell'articolo qui postato, pubblicato da “Repubblica”
per i settant'anni di Moravia. (S.L.L.)
Edoardo Sanguineti |
Quando sono nato io, Gli
indifferenti avevano già un anno di vita. Quando li ho letti,
nell'originaria edizione Alpes, ero uno studente appena sbarcato in
ginnasio; e ricordo benissimo, naturalmente, quel compagno di classe
che aveva scovato il libro nella biblioteca di suo padre e che lo
faceva circolare, semiclandestino tra i banchi. Moravia era allora,
ancora, un autore immorale e censurato. Bene o male, in quell'età in
cui ogni lettura vera segna per sempre, come un trauma, la classe fu
spaccata in due: c'erano quelli che li avevano letti, Gli
indifferenti, e quelli che non li avevano letti; «gli altri».
Erano due vasi, ormai, che non potevano più comunicare, che non
usavano la stessa lingua. Volendo, potrei scrivere qui nome e cognome
di ciascuno di quel gruppo di ragazzi; per cui quel testo, insieme a
una dozzina di altri, collaborò a definire un tipo umano, a
fabbricare un destino. E non sto mica a raccontare, adesso, un
qualunque frammento di autobiografia: sono sicuro, infatti, che quel
che accadde in una scuola torinese, verso la metà degli anni
Quaranta, si sia verificato, in modi abbastanza affini, anche
altrove, anche in altri anni.
Gli uomini si dividono in
sette chiuse, a seconda di quelli che sono stati, secondo la formula
di Miller, i libri della loro vita. I veri stendhaliani,
naturalmente, non sono gli emuli di Del Litto, ma coloro che, tra
periodo di latenza e esplosione puberale, hanno decifrato, o, che è
lo stesso, creduto di decifrare, per la prima volta, la vita e il
mondo, attraverso una pagina del Brulard o del Rouge et
noir. Sopra quelle traumatiche letture primarie può poi
stratificarsi, ma invano, l'intera biblioteca di Babele: d giochi
sono fatti e le strutture esistenziali ormai decise.
L'eroe romanzesco
Quando si diventava
ancora autodiretti, o si cercava di diventarlo, tanto tempo fa
dunque, era sopra i romanzi, con i romanzi, in primo luogo, che tali
si diventava, o si cercava di diventare. E i romanzi erano stati
inventati apposta per questo, si sa. Insegnavano che l'«imitatio»
dell'eroe era la strada maestra per diventare quello che si è, e
cioè quello che si crede di essere. Eravamo un po' tutti, allora,
figli e nipoti di eroi romanzeschi, non senza mostruose
contaminazioni genealogiche. Ed erano gli eroi stessi, non di rado, a
suggerire, con didascalica pazienza, il procedimento, dimostrandosi,
libro alla mano, a loro volta, figli e nipotini di altri eroi
romianizeschi. Il romanzo è forma partenogenetica, e si porta
addosso la relativa bibliografìa, almeno nei casi migliori. L'eroe
romanzesco, prima di tutto, è un lettore di romanzi.
Tutto questo per dire,
insomma, che io li ho visti, in carne ed ossa, i figli e i nipotini
di Michele: li ho visti mangiare, bere, dormire e vestire panni. Così
come ho conosciuto, nel tempo, fratelli e cugini di Girolamo, di
Agostino, di Luca, a mazzi, a mucchi. E della setta degli
«indifferenti», a mio modo, ho fatto parte anch'io, ovviamente. Mi
sono trovato alle prese, ambiguo, con quell'ambiguo titolo: non
sapendo bene se di indifferenza dovevo accusare gli uomini e gli dèi,
o se dell'indifferenza dovevo gloriarmi come di una deliziosa,
nobilitante tara. Quando nel '62, scrivendo un libro su Moravia,
facevo criticamente i conti con quell'opera, ero impegnato in
qualcosa di più e di meglio che in un'analisi letteraria: ero
dedito, segretamente, anche all'esame di coscienza di una
generazione, o almeno di una setta generazionale.
Freud e Marx
Gli indifferenti,
certo, erano «un cattivo libro» proprio come l'Agostino,
secondo Saba, «un libro che non avrebbe dovuto essere scritto»:
perché «Insudicia amore» (le maiuscole sono tutte nelle
scorciatoie). La setta degli «indifferenti» era dedita con
passione, in generale, ai «libri cattivi», ai libri che
«insudiciavano», non soltanto 1' amore, ma la vita tutta, in
assoluto. Forse anche a noi «doveva essere accaduto qualcosa» in
tempi per noi «preistorici, sepolti nelle profondità di un totale
(non però irrevocabile) oblio». L'ingenuo Saba, però! A chi non è
accaduto qualcosa? Gli «indifferenti» lo sapevano, ecco tutto, o
almeno lo sentivano. E se un giorno raccontassero la loro «educazione
intellettuale», insieme con la loro «educazione sentimentale»,
potrebbero parlare di se stessi come di tanti che si trovarono a
lungo impegnati a «mutare una maledizione infantile in una
benedizione d'adulto ». Impegnati a farsi adulti. In breve, che è
poi l'unica benedizione passibile, attraverso l'«indifferenza»,
attraversando l'«indifferenza », cioè l'«educazione borghese».
Michele non aveva letto
né Freud né Marx. Nemmeno il suo autore, quando ne scriveva il
romanzo, li aveva letti. Ma noi, Gli indifferenti, ci
precipitammo a leggerli, e il Freud e il Marx. E capimmo che quel
«cattivo» libro era stato, per noi, un libro proprio buono. Anche a
quel libro, infine, dovevamo il nostro Freud, e anche, che più
importava, il nostro Marx. Perché il nostro Marx ci
spiegava tutti, nella nostra «indifferenza», nella nostra
«educazione borghese». E cominciammo a capirci. E a liberarci
dell'« indifferenza ».
Quasi mezzo secolo ci
divide, ormai, dalla formulazione di quel sogno di riuscire «tragici
e sinceri». Se oggi questa setta degli «indifferenti » sia al
tutto spenta, o se ancora abbia i suoi fedeli, più o meno dispersi,
in aule scolastiche varie, non lo so. Ma i vecchi «indifferenti»,
ancora oggi, io me li riconosco a un gesto, a una parola.
“la Repubblica”, 16
novembre 1977
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