30.8.14

Moravia e la setta degli indifferenti (Edoardo Sanguineti)

Alberto Moravia
Ho “postato” di recente un paio di “stroncature” di Moravia, di Fini e di Berardinelli. Né l'uno né l'altro, tuttavia, per quanto ostili al prolifico narratore del Novecento italiano, negavano valore agli Indifferenti. Del ruolo che quell'opera ebbe nella formazione intellettuale degli italiani più giovani fino agli anni 60 del secolo scorso scrive in maniera convincente Sanguineti nell'articolo qui postato, pubblicato da “Repubblica” per i settant'anni di Moravia. (S.L.L.)
Edoardo Sanguineti
Quando sono nato io, Gli indifferenti avevano già un anno di vita. Quando li ho letti, nell'originaria edizione Alpes, ero uno studente appena sbarcato in ginnasio; e ricordo benissimo, naturalmente, quel compagno di classe che aveva scovato il libro nella biblioteca di suo padre e che lo faceva circolare, semiclandestino tra i banchi. Moravia era allora, ancora, un autore immorale e censurato. Bene o male, in quell'età in cui ogni lettura vera segna per sempre, come un trauma, la classe fu spaccata in due: c'erano quelli che li avevano letti, Gli indifferenti, e quelli che non li avevano letti; «gli altri». Erano due vasi, ormai, che non potevano più comunicare, che non usavano la stessa lingua. Volendo, potrei scrivere qui nome e cognome di ciascuno di quel gruppo di ragazzi; per cui quel testo, insieme a una dozzina di altri, collaborò a definire un tipo umano, a fabbricare un destino. E non sto mica a raccontare, adesso, un qualunque frammento di autobiografia: sono sicuro, infatti, che quel che accadde in una scuola torinese, verso la metà degli anni Quaranta, si sia verificato, in modi abbastanza affini, anche altrove, anche in altri anni.
Gli uomini si dividono in sette chiuse, a seconda di quelli che sono stati, secondo la formula di Miller, i libri della loro vita. I veri stendhaliani, naturalmente, non sono gli emuli di Del Litto, ma coloro che, tra periodo di latenza e esplosione puberale, hanno decifrato, o, che è lo stesso, creduto di decifrare, per la prima volta, la vita e il mondo, attraverso una pagina del Brulard o del Rouge et noir. Sopra quelle traumatiche letture primarie può poi stratificarsi, ma invano, l'intera biblioteca di Babele: d giochi sono fatti e le strutture esistenziali ormai decise.

L'eroe romanzesco
Quando si diventava ancora autodiretti, o si cercava di diventarlo, tanto tempo fa dunque, era sopra i romanzi, con i romanzi, in primo luogo, che tali si diventava, o si cercava di diventare. E i romanzi erano stati inventati apposta per questo, si sa. Insegnavano che l'«imitatio» dell'eroe era la strada maestra per diventare quello che si è, e cioè quello che si crede di essere. Eravamo un po' tutti, allora, figli e nipoti di eroi romanzeschi, non senza mostruose contaminazioni genealogiche. Ed erano gli eroi stessi, non di rado, a suggerire, con didascalica pazienza, il procedimento, dimostrandosi, libro alla mano, a loro volta, figli e nipotini di altri eroi romianizeschi. Il romanzo è forma partenogenetica, e si porta addosso la relativa bibliografìa, almeno nei casi migliori. L'eroe romanzesco, prima di tutto, è un lettore di romanzi.
Tutto questo per dire, insomma, che io li ho visti, in carne ed ossa, i figli e i nipotini di Michele: li ho visti mangiare, bere, dormire e vestire panni. Così come ho conosciuto, nel tempo, fratelli e cugini di Girolamo, di Agostino, di Luca, a mazzi, a mucchi. E della setta degli «indifferenti», a mio modo, ho fatto parte anch'io, ovviamente. Mi sono trovato alle prese, ambiguo, con quell'ambiguo titolo: non sapendo bene se di indifferenza dovevo accusare gli uomini e gli dèi, o se dell'indifferenza dovevo gloriarmi come di una deliziosa, nobilitante tara. Quando nel '62, scrivendo un libro su Moravia, facevo criticamente i conti con quell'opera, ero impegnato in qualcosa di più e di meglio che in un'analisi letteraria: ero dedito, segretamente, anche all'esame di coscienza di una generazione, o almeno di una setta generazionale.

Freud e Marx
Gli indifferenti, certo, erano «un cattivo libro» proprio come l'Agostino, secondo Saba, «un libro che non avrebbe dovuto essere scritto»: perché «Insudicia amore» (le maiuscole sono tutte nelle scorciatoie). La setta degli «indifferenti» era dedita con passione, in generale, ai «libri cattivi», ai libri che «insudiciavano», non soltanto 1' amore, ma la vita tutta, in assoluto. Forse anche a noi «doveva essere accaduto qualcosa» in tempi per noi «preistorici, sepolti nelle profondità di un totale (non però irrevocabile) oblio». L'ingenuo Saba, però! A chi non è accaduto qualcosa? Gli «indifferenti» lo sapevano, ecco tutto, o almeno lo sentivano. E se un giorno raccontassero la loro «educazione intellettuale», insieme con la loro «educazione sentimentale», potrebbero parlare di se stessi come di tanti che si trovarono a lungo impegnati a «mutare una maledizione infantile in una benedizione d'adulto ». Impegnati a farsi adulti. In breve, che è poi l'unica benedizione passibile, attraverso l'«indifferenza», attraversando l'«indifferenza », cioè l'«educazione borghese».
Michele non aveva letto né Freud né Marx. Nemmeno il suo autore, quando ne scriveva il romanzo, li aveva letti. Ma noi, Gli indifferenti, ci precipitammo a leggerli, e il Freud e il Marx. E capimmo che quel «cattivo» libro era stato, per noi, un libro proprio buono. Anche a quel libro, infine, dovevamo il nostro Freud, e anche, che più importava, il nostro Marx. Perché il nostro Marx ci spiegava tutti, nella nostra «indifferenza», nella nostra «educazione borghese». E cominciammo a capirci. E a liberarci dell'« indifferenza ».
Quasi mezzo secolo ci divide, ormai, dalla formulazione di quel sogno di riuscire «tragici e sinceri». Se oggi questa setta degli «indifferenti » sia al tutto spenta, o se ancora abbia i suoi fedeli, più o meno dispersi, in aule scolastiche varie, non lo so. Ma i vecchi «indifferenti», ancora oggi, io me li riconosco a un gesto, a una parola.

“la Repubblica”, 16 novembre 1977

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