Salvador di Bahia, una madre-di-santo |
Il Candomblé è
religione afro-brasiliana fondata sulla mescolanza tra riti indigeni
o di ascendenza europea e credenze africane, giunte in Brasile con i
carichi di schiavi provenienti dal Continente Nero. Ha il suo centro
nel culto degli Orixàs, divinità di origine totemica, e si
basa sulla fede in un'anima propria della natura. Pare che la parola
Candomblé, legata alla sua
ritualità, significasse “danza”, e fosse anche il nome di
un antico strumento africano.
Bandito dalla Chiesa
cattolica, e criminalizzato da alcuni governi, il Candomblé
si è diffuso ampiamente nella cultura brasiliana, con milioni di
seguaci non solo neri e appartenenti a diverse classi sociali, e
migliaia di terreiros (il
significato proprio è “cantiere” e più che un tempio isolato è
uno spazio sacro). Sarebbero circa due milioni i Brasiliani
censiti come seguaci del Candomblé, ma
i partecipanti ai riti sono di sicuro più numerosi, perché
le religioni, in molte fasce della popolazione brasiliana, non sono
avvertite come reciprocamente esclusive. In particolare il culto
degli Orixàs venne associato per sincretismo a quello di
alcuni santi cattolici, tanto che vengono chiamati abitualmente
santos: ad Oxala, l'orixà della creatività, si fa
corrispondere addirittura Gesù.
Il Candomblé,
forse la religione americana più fedele alla matrice africana, pare
sia nato a Salvador di Bahia, ove alcuni frequentati terreiros
godono tuttora di sovvenzioni
pubbliche. A Bahia è d'uso chiamare Macumba
le pratiche rituali del Candomblé,
ma gli studiosi delle
religioni rifiutano
una totale assimilazione dei due termini sostenendo che la macumba,
più affine alle forme europee di stregoneria che a quelle africane,
nel continente latinoamericano ha diffusione e manifestazioni molto
varie. Nel Candomblé
di Bahia ha peraltro molta importanza il culto dei caboclos,
gli spiriti degli indios considerati dai primi africani
arrivati in America gli spiriti ancestrali brasiliani, pertanto degni
di essere venerati nel nuovo territorio. Nonostante il variegato
pantheon (almeno una dozzina di divinità importanti), il Candomblé
fa riferimento a un principio primo (chiamato Olorun), da cui
provengono gli orixàs a cui ha delegato il suo potere. Molti
lo identificano con il dio cristiano. Figure indipendenti dal mondo
degli Orixàs con il quale interagiscono sono l'oracolo Ifà e il
messaggero Exù (assimilato al demonio quando s'incattivisce), al
quale sono dedicati i momenti iniziali di qualsiasi cerimonia,
individuale o collettiva, pubblica o privata, perché correttamente
trasmetta alle divinità i desideri dei fedeli e non interferisca
negativamente nel rito. A guidare le cerimonie sono sacerdoti e/o
sacerdotesse detti pai de santo e mãe de santo (padri
e madri di santo)
Una forma che accomuna il
Candomblé alle ritualità
cattoliche o al paganesimo antico di tipo europeo è la “devozione”,
per cui ogni persona deve essere “votata” a un orixà protettore
(o protettrice, visto che gli orixà sono sessuati), da cui prenderà
pregi e difetti e a cui si rivolgerà per consigli e grazie.
Ci sono altri culti di
origine africana del Nuovo Continente, come il Vudù di Haiti,
la Santeria cubana, che, pur con qualche analogia, hanno
origine e vita distinta dal Candomblé e sono quasi
sconosciute in Brasile.
Il brano che segue è
tratto dal volume di Jorge Amado, Bahia (Garzanti,
1992); è ripreso dal settimanale “Avvenimenti”, che lo presentò
come anteprima. (S.L.L.)
Jorge Amado |
SALVADOR DE BAHIA,
TERREIRO DELLA GOMÉIA.
Un crocicchio segnala
l'entrata del candomblé. È un terreno enorme, su cui sorgono
una serie di piccole costruzioni. Due sono più grandi: la casa del
padre-di-santo e il terreiro dove si tiene la macumba.
Joaozihno da Goméia, con una collana di grani di cocco sopra il
camicione, ci riceve quasi di fronte alla casa di Exu, che è vicino
all'entrata del candomblé. Col suo passo saltellante ci viene
incontro la grossa Alice, molto sorridente, molto amata e rispettata
in questo terreiro. Joaozinho da Goméia è un mulatto giovane
dagli occhi languidi, corpo flessuoso da ballerino, agilissimo, la
voce morbida. È stato figlio-di-santo di Jubiabà, il grande padre
già scomparso. Jubiabà lo iniziò ai misteri della macumba e
lo consacrò al caboclo Pedra-Preta, la cui casa si trova
quasi di fronte a quella di Exu. La festa di Pedra-Preta è il due
luglio, giorno in cui tutto il candomblé si adorna. Vengono
visitatori da lontano e altri padri-di-santo danzano anch'essi nel
terreiro di Joaozinho.
In quel giorno scorre
abbondante la «jurema» una bevanda forte fatta con la
corteccia di jurema fermentata nell'alcool che il pittore Manuel
Martins ha trovato deliziosa e il cineasta Rudy Santos assolutamente
orrenda. Questione di gusti. Il guaio è che sarete obbligati a
berla, se non vorrete fare uno sgarbo ai presenti. Forse vi piacerà
di più l'inoffensivo aluà, fatto con lo zenzero o la buccia
dell'ananas, una bibita rinfrescante deliziosa. Ma io vi consiglierei
di non rifiutare la jurema, poiché Pedra-Preta è un caboclo
che va pazzo per tale bevanda, e se non bevete con lui mai più
potrete contare sulla sua protezione per i vostri amori e i vostri
affari.
La casa di Exu è piccola
e terribile. È un quadrato dalle spesse muraglie. Joaozinho apre la
porta con la grossa chiave antica, la stessa che serve per tutti gli
altri templi. Là dentro, su di un piccolo piedestallo sta il dio
nagò sincretizzato col demonio dei cattolici, il temibile Exu.
All'interno della casa del dio scorrazza un gallo spaventato.
«Dev'essere sacrificato,
Joaozinho?».
«È un lavoro che mi è
stato richiesto. Una fattura».
Il sangue del gallo
scorrerà sopra la statuetta di Exu, l'immagine non è già più ben
visibile sotto l'incrostazione sanguinolenta che la ricopre. Sangue e
olio di palma versati durante il «despacho» o «pade» con cui si
iniziano tutti i riti di condomblé acciocché
Exu se ne vada lontano, non venga a turbare il normale
svolgimento dei festeggiamenti. Sangue degli animali sacrificati
negli ebò — stregonerie, fatture - ordinati dai poveri come
dai ricchi.
Molti sono i ricchi che
si rivolgono ai padri-di-santo, alla protezione degli orixà; molti i
personaggi della buona società che vengono qui ad ordinare qualche
lavoro. Si può notare, seminascosta nel recinto sacro, una signora
bene, allarmata dagli amori adulterini del marito, che è venuta a
chiedere al padre-di-santo una prece di peso, che allontani una volta
per tutte la donna fatale. Quell'altra vuole una fattura che leghi
alla sua bellezza sfiorita il giovane amante ormai stufo. Non
crediate che l'ascendente di padre-di-santo si estenda solo sui negri
poveri, sui mulatti della città: anche i ricchi dalla pelle chiara —
bianchi baiani, che è quanto dire mulatti-chiari - della Barra,
della Graca, della Vitòria e dell'Avenida Oceanica, battono le
strade della Goméia o le vie ugualmente scomode degli altri
candomblé, in cerca di fatture, preci e pozioni, in cerca di
consolazione e di speranza.
Degli
eroi brasiliani che si sono battuti contro la schiavitù dei negri,
ben pochi sono ricordati. In ogni caso Zumbi di Palmares ( ultimo
capo di una comunità indipendente di schiavi neri evasi, ndr)) ha
infranto, grazie forse all'impatto romantico della rivolta, la
cospirazione del silenzio. Ha occupato il palco dei teatri, le pagine
dei romanzi, vive nell'immaginazione del popolo. Dell'alufà Licutà,
invece, chi conosce il nome, le gesta, la sapienza, il gesto, il
volto d'uomo?
Capeggiò
la rivolta dei negri schiavi per quattro giorni, e la città di Bahia
lo ebbe per governatore quando la nazione sudanese accese sulla città
l'aurora della libertà, spezzando i ceppi, e impugnò le armi
proclamando l'uguaglianza degli uomini. Non conosco storia di lotta
più bella di questa, del popolo sudanese, né di rivolta che sia
stata repressa con sì grande violenza.
La
nazione sudanese non era soltanto la più colta fra quante avevano
fornito merce umana per il turpe traffico, in realtà gli schiavi di
quell'etnia raggiungevano le quotazioni più alte, ed erano non solo
i più cari ma anche i più ricercati. Servivano da precettori ai
figli dei coloni, tenevano la contabilità dei padroni, scrivevano le
lettere delle padrone, intellettualmente erano ben al disopra della
scarsa istruzione dei lusitani conti e baroni, spocchiosi e
analfabeti, o della manica di banditi deportati nella lontana
colonia. Il più istruito dei sudanesi era l'alufà Licutà.
Si
sollevarono gli schiavi, dominarono e occuparono la città. Sconfitti
che furono, subito dopo, per il numero preponderante dei soldati e
con la forza delle armi, ordine dei signori irati fu quello di
uccidere tutti i membri dell'etnia sudanese, senza lasciarne uno.
Uomini, donne e bambini per dare l'esempio. Ordine eseguito con
raffinatezze orrende, acciocché l'esempio pesasse e perdurasse. Così
fu.
La
repressione fu di tale ampiezza, così smisurata, che ancor oggi la
parola sudanese continua ad essere come maledetta; ancor oggi
l'ascendenza sudanese è tenuta nascosta, passata sotto silenzio,
quando ormai le ragioni del timore sono state dimenticate.
“Avvenimenti”,
26 Agosto 1992
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