Francisco de Zurbaràn - L'assedio di Cadice |
Agli inizi del Seicento
la Spagna è simile a un edificio dall'apparenza splendente, di cui,
varcata la soglia, attraversati i primi saloni aperti e luminosi,
indoviniamo una struttura interna ancora arcaica, che si restringe
fino ad assumere le forme e le funzioni di una rigida architettura
conventuale. In quel fasto c'è un che di funerario e di illusorio
che ci invita alla prudenza.
L'egemonia politica in
Europa, l'immenso impero coloniale, i fulgori della letteratura e
dell'arte possono trarci in inganno sui veri contenuti di questa
compagine sociale quanto la favolosa ricchezza delle Nuove Indie, che
affluisce solo in parte nei forzieri del regno, potrebbe fuorviarci
da un apprezzamento esatto dell'economia. Ciò che abbiamo difronte è
il gran Secolo d'oro spagnolo. Ma questa definizione rotonda,
ormai legittimata dall'uso, sembra attingere la sua forza a un'intima
precarietà piuttosto che a un'idea di potere e di conquista. Molto
più che nell'età di Pericle o nel grand siècle di Luigi
XIV, qui l'immagine dell'oro è fasciata da riverberi oscuri, ferita
da un'imminenza di tramonto. E il suo fascino sta nelle
contraddizioni: è un impasto di "luce ed ombra", che non
emana solo dai capolavori artistici, ma si annida nei modi, negli
istituti, fin nei risvolti più segreti dell' intera società
spagnola del Cinque e del Seicento.
Così l'ha disegnata,
vincendo antiche parzialità ideologiche, la storiografia degli
ultimi decenni; e così ce la propone ancora, con qualche variante,
uno degli storici francesi più esperti di problemi ispanici,
Bartolomè Bennassar, in un' opera apparsa di recente in traduzione
italiana (Il secolo d' oro spagnolo, traduzione di Lorenza
Ruggiero, Rizzoli).
Siamo, in ogni caso,
all'ultima tappa di un cammino interpretativo complesso. Questo paese
ha soggiaciuto più di altri, in Europa, a valutazioni di parte e a
semplificazioni estreme, talora di segno opposto. Fu preconcetto
tenace, di un'ala della storiografia idealistica italiana, quello
della Spagna corruttrice del gusto e dei modi di vita, "priva di
pensiero e di filosofia", sorda all'incontro con la splendida
civiltà dei paesi dominati: esso nascondeva - anche nelle sue
espressioni più autorevoli (Croce) - un giudizio di valore
interessato e parziale, legato, forse, al risentimento della nostra
cultura borghese, di tradizione laica e classicista, verso l'antica
dominazione spagnola. In diverso modo, studiosi di parte cattolica -
inclini a esaltare, invece, negli ideali dell'impero ispanico la
custodia di un patrimonio religioso compatto ed "universale"
(culminante nella tensione ascetica degli anni di Filippo II) -
peccarono altrettanto a lungo di parzialità, fondando il loro
discorso su categorie astratte e insinuando un' unità spirituale di
cui i documenti oggettivi non danno conferma.
Confesso che a dispetto
di singole aberrazioni ho ritenuto più stimolanti, in anni non
lontani, le riflessioni di certa storiografia spagnola d'origine
"novantottista", che, affrontando i complessi labirinti
della Spagna cinquecentesca, miravano all'approfondimento degli
aspetti eterodossi, e della presenza sofferta (e sommersa) delle
minoranze etniche. Alludo soprattutto agli studi di Amèrico Castro
sugli ebrei "conversi", come protagonisti d'una cultura
"rimossa" e, di conseguenza, conflittuale. Quelle pagine mi
sembrano tutt' ora di grande intensità, anche se nel frattempo
ricerche più documentate (come quelle, fondamentali, di Marcel
Bataillon sull' influenza di Erasmo o, più tardi, di John Elliot
sull'età imperiale) davano un contributo decisivo alla conoscenza
del Secolo d'oro e ai
nuovi orientamenti della relativa tradizione di studi.
Certo, Bennassar,
esponente della più solida storiografia francese, è imparentato
alla lontana col rigore di questi ultimi (e, per la parte spagnola,
col metodo "statistico" di Vicens Vives), più che con le
teorie etico-esistenziali di Castro. Fondamento del suo libro è
quella sorta d'integralismo storico per cui i dati istituzionali, gli
indici di frequenza dell'economia e i modi della vita sociale
emergono in qualità di testimoni; tutti, in partenza, con uguale
intensità e capacità dimostrativa. Pagine come quelle sugli usi
della Corte, sui letrados o sulla vita di una piccola città
di provincia, si leggono a tratti come un racconto, con la freschezza
di fraseggio d'una relazione dal vivo. E i risultati sono
apprezzabili anche nel loro complesso. Il fenomeno spagnolo è via
via disarmato da ogni tentazione ideologica o sentimentale; ed è
ricondotto alla sua identità complessa, di organismo vivente nel
quale si confondono i valori "della grandezza, dell' apogeo e
del declino", incoraggiando una teoria della decadenza ispanica
come itinerario rovesciato rispetto a un' Europa che dà vita alla
Riforma protestante, alla Nuova Scienza e alla nascita della
borghesia imprenditoriale.
Ma non manca qualcosa a
questa singolare immagine? In verità, una così strana convergenza
di sollecitazioni opposte, una ricchezza che germoglia sempre a un
passo dalla disfatta, un ascetismo che convive con l'intrigo e col
culto delle apparenze ci invitano a riflessioni inquietanti, ed
esigono dallo storico qualcosa di più che un elegante e ragionato
inventario. Forse al quadro disegnato da Bennassar gioverebbe una
valutazione più attenta, e più giustamente perplessa, del
patrimonio letterario e artistico: che egli chiama in causa più
volte, è vero, ma come sorvolandone i contenuti profondi e tenendone
a bada i focolai di sofferenza. Un libro come quello di Maravall
sulla cultura barocca (recensito tempo fa su queste colonne da
Valerio Castronovo) la dice lunga sul risalto che acquistano le forme
letterarie in un ambito in cui pure sono emergenti, e magari
privilegiate, le implicazioni sociali. Si tratta di testimoni
atipici, naturalmente (parlo delle opere, non dei loro autori), ma
perciò più intimamente vocati al presagio e alla rivelazione, ex
interiore parte, di una determinata mentalità storica.
Pensiamo allo spagnolo
medio del Secolo d'oro, così ammantato d'albagia, così
tragicamente pervaso di "punto d'onore" e di "purezza
di sangue": questa figura patetica e perversa affida la sua
immagine al teatro e ai testi narrativi più che ai resoconti degli
archivi minori. Opere come il Lazarillo de Tormes, il Buscon
di Quevedo e lo stesso Don Chisciotte si leggono come
autentici viaggi nella società reale: nella Spagna antieroica delle
culture subalterne così come in quella, fastosa e splendidamente
futile, dei ceti alti. I nessi riguardano la generalità non meno che
i dettagli. Le radici profonde del malessere sociale, persino i germi
di quel processo di "disgregazione" politica che
accompagna, come in una sontuosa metafora barocca, il vertice della
potenza (e di cui Ortega y Gasset fu, agli inizi del nostro secolo,
il più lucido assertore) hanno nella letteratura un banco di prova
infallibile: una cassa di risonanza che è tanto più schietta quanto
più sembra puntigliosa, capricciosa, idealizzante, ironica,
distorta.
C'è un drammatico
scompenso fra il valore astratto e la fruibilità reale, fra
l'impegno e l'utile, in questa società che nel secolo della Riforma
e del Rinascimento persegue ideali di ecumenismo cristiano e sogna il
perpetuarsi della cortesia e della cavalleria. Ed è un invito
all'approfondimento anche in senso antropologico, dopo tante
speculazioni e fantasie d'origine romantica. Il geniale anacronismo
pensato da Cervantes - la rifondazione di un'eredità libresca dentro
una cornice concreta e perfettamente attuale (e dunque la sconfitta,
e la gratuità del gesto, come corollari permanenti delle azioni
umane) - non poteva darsi in nessun altro paese europeo e in
nessun'altra situazione storica. Il primo romanzo moderno nasce dalle
cure maniacali per una tradizione estinta. Anche questo fa parte del
Secolo d'oro spagnolo e delle sue contraddizioni, e ne
proietta il fascino e la curiosa ambiguità fino ai nostri giorni,
fino all'epoca del profitto e del trionfo dell'economia produttiva.
la Repubblica,14 dicembre
1985
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