Splendido articolo di
Splendore. Comincia con la gloria del tifo sportivo nella capitale
argentina, con la grande e scenografica partecipazione della città
alla partita più attesa, il Superclasico, Boca Juniors - River Plate
allo stadio della Bombonera. Poi guarda dentro, dietro e a fondo.
(S.L.L.)
Un'immagine della tifoseria al Bombonera di Buenos Aires durante la partita Boca Juniors - River Plate, il "Superclasico" |
BUENOS AIRES
Nell’Argentina dei
cassetti pieni di sogni e degli armadi pieni di scheletri, nella
Buenos Aires sempre più presa dal restauro del suo fascino un po’
parigino e un po’ americano, arriva un giorno in cui tutto si ferma
per una funzione religiosa. Il giorno di Boca-River, il derby tra le
squadre di calcio più titolate del paese, antagoniste che incarnano
quanto di più bello e di assurdo si possa immaginare del fùtbol.
L’ultimo Boca-River si
è giocato domenica 15 maggio alla Bombonera, uno stadio vestito di
leggenda non solo perché ha visto epiche vittorie degli xeneises
(ovvero i «genovesi», perché il club fu fondato nel 1905 da
emigranti italiani che parlavano solo il dialetto genovese) ma anche
perché è la miracolosa piazza dove si compie la moltiplicazione del
mito della tifoseria del Boca, guidata dalla curva degli ultras più
ortodossi. Un vulcano chiamato La Doce. Ovvero il numero 12,
il dodicesimo uomo in campo.
L’uomo in più, negli
anni 20, era davvero un tifoso in carne e ossa: si chiamava
Victoriano Caffarena, detto El Toto. Assisteva a tutto:
partite e allenamenti. Lo imbarcarono insieme alla squadra quando il
Boca fece il suo primo tour di partite in Europa. Era «El jugador
numero12». E tutto è cominciato lì, nell’oceano del calcio,
per andare oltre gli oblò, le anagrafi, le botte, il gesso, gli
aerei, le tribune, gli autogol, la fame e i giornali.
Il quotidiano inglese
“The Guardian” ha messo la voce «Boca Juniors-River Plate alla
Bombonera» nella classifica delle dieci cose da vedere prima di
morire. Le altre nove, a Buenos Aires nessuno sa quali siano.
Boca-River, detto il Superclasico, è il Louvre del calcio e te lo
consigliano pure quelli che non amano l’arte del pallone. Il
taxista di turno, con un fare alla Borges, ti incide con le sue
magnetiche parole: «Prima di infilarti il cappotto di legno, vai
alla Bombonera a vedere il Superclasico».
Tanto Buenos Aires sa
sempre come accoglierti. Può riservarti una fuga dalla banalità,
fumi di tango dai camini delle vecchie case, dulce de leche su
pane caldo, un autunno mite e molti preliminari alla madre di tutte
le partite in grado di farti capire di cosa sia fatta questa
religione di stato chiamata fùtbol. I giornali non parlano d’altro.
Nei bar non parlano d’altro. Giocano a scacchi e parlano di quello.
Bevono e discutono di Boca, pagano e ragionano sul River. E mancano
sette, cinque, tre giorni.
Il tifoso argentino vede
nella squadra la sua confessione, nei cori la sua liturgia, nelle
sconfitte la Via crucis e nelle rimonte la resurrezione più
golosa. Ebbene. Il tifoso del Boca è capace di andare oltre.
Concepisce la Bombonera, installata in un quartiere un po’
mediterraneo e molto decadente, come una specie di Taj Mahal del
pallone. Ci va, ma in pellegrinaggio d’amore. La sensazione è
proprio quella di frequentare un luogo di culto. Nel negozio dello
stadio dove vendono i gadget del Boca, c’è chi bacia la maglia,
reliquia superiore, e poi magari la compra.
Se non la compra, è
perché c’è crisi. I biglietti del Superclasico sono
maggiorati e comprarli al mercato nero costa sui 150 euro, troppo per
le tasche di un argentino medio. Poi, naturalmente, sono falsi.
Il giorno dei
Titani
Boca e River zoppicano e
il campionato se lo giocano squadre che corrono. Ora è il Velez
Sarsfield la squadra da battere. Ma un Superclasico non si
svaluta mai: partita caliente, a prescindere. Il tifoso, rifiutando
l’idea della decadenza, si aggrappa ai suoi talismani in campo. Il
calcio argentino funziona più o meno in questo modo: appena sboccia
un giovane di talento, viene venduto per fare cassa. E’ la maggior
voce delle entrate dei club. Appena un giocatore argentino che ha
fatto carriera un Europa non lo vuole più nessuno, rientra a casa.
Per esempio, nel cimitero degli elefanti è tornato quest’anno
Mauro German Camoranesi, ex Juve. Nell’ultimo Superclasico
ci sono in campo miti del Boca come Martin Palermo e Juan Roman
Riquelme; nel River Plate ecco l’ex portiere della Lazio Juan Pablo
Carrizo e l’ex Parma/Lazio Matias Almeyda.
Che cosa succede? Che
Carrizo si fa un autogol goffo e sanguinoso con quel guantone bianco
che sembra Topolino. Poi Martin Palermo, idolo della Doce,
chiude i conti facendo venire giù lo stadio, che per la sua
struttura vive di un tifo verticale. Le balconate, dette paravalanghe
(mai termine fu più azzeccato), sembra che debbano cedere da un
momento all’altro. Brivido su brivido.
Il gol di Palermo è lo
zenit della mirabile carriera del Loco, il Pazzo: con il Boca
ha vinto di tutto e ha segnato 225 gol, di cui 18 al River Plate. Per
questo lo santificano e lo porterebbero in processione, lo amano e lo
vorrebbero sposare. Il Titano a giugno smette col calcio. Sta andando
dallo psicologo. Non c’era mai andato, neanche dopo aver sbagliato
tre rigori con la maglia della nazionale in una partita con la
Colombia nel ‘97.
A proposito di maglie,
Matias Almeyda verso fine partita viene espulso e, sfilando sotto la
Doce, bacia la maglia del River in segno di sfida alla fronda
gialloblù, che gli tira di tutto. Almeyda esce sotto gli scudi della
polizia. Diciamo che ci vuole qualcosa di intimamente illogico e
guerriero per affrontare la Doce. Soprattutto da soli. I tifosi del
River ora venerano Almeyda come un santo.
Rapsodia xeneise
A parte i gol, la partita
è mediocre. E così chi è andato allo stadio a vedere all’opera
la Doce può gustarsi lo show senza tante distrazioni. Una
curva dalla bellezza brutale. Presidia il settore due ore prima della
partita e inizia a cantare, impallinando di cori la calma tesa del
prepartita. Sono canti sostenuti da un’orchestra di trombe e
tromboni e ritmati da tamburi grandi come ruote di trattore. Il
fracasso della Doce si sente negli spogliatoi sotto lo stadio,
dove i giocatori del River si sono rifugiati perché il loro bus è
stato preso a pietrate, mentre quelli del Boca ricevono l’incitamento
degli addetti del club e gli abbracci dei ministri del tifo boquense.
Un’abitudine non da poco che attesta quanto sia forte il legame tra
tifoseria e giocatori.
La Doce è il
riferimento di tutto il tifo della Bombonera. Pulsa come un
cuore e non smette di urlare. Il nucleo centrale, nocciolo duro e
violento, è di 500 unità. Tutto intorno, altri 5-6mila tifosi
scatenati. Palloncini gialli, copie di coppe intercontinentali che
camminano sulle teste dei tifosi, striscioni di quartiere, ombrelloni
da mare, liane bicolori che scendono da un anello all’altro. E
torrenti di coriandoli. Ogni foto alla Doce, ogni video, ogni
sciame di carta che arriva dall’alto come miliardi di cavallette, è
un ricordo indelebile. Uno spettatore, al suo primo Superclasico,
aggiorna la sua storia personale. I cori della Doce
infieriscono sulla delusione del settore ospite, dove i tifosi del
River, irriducibili ma sovrastati dalla passione pneumatica degli
xeneises, pensano già al Superclasico che si giocherà
in primavera nel loro stadio, il Monumental. Che è più
capiente ma meno torrido. Le chele del sole al tramonto pinzano gli
sguardi bui del tifo biancorosso, la nobiltà scalfita. La squadra
che tra il 1941 e il 1945 venne chiamata «La Maquina» tanto
era perfetta; la squadra dalla maglia bianca dalla banda rossa
trasversale che è stata indossata da Omar Sivori, Enzo Francescoli,
Hernan Crespo e Daniel Passarella, oggi presidente nei guai fino al
collo, piena di giovani mandati a una guerra più grande di loro, è
a rischio retrocessione. E gli ultimi slogan della Bombonera sono più
che sinceri: «Dai che è la volta buona che ve ne andate in serie
B». Sarebbe incredibile e inenarrabile, per tutti.
Il lato oscuro
dell’anima
Ricapitolando. La Doce è
unospettacolo nello spettacolo. Lo stadio trema e balla. Il calcio fa
sentire l’odore delle sue radici che succhiano l’anima di una
fede. Riconoscente, il mito del Boca ti accompagna all’uscita e ti
porta nei bar dove i tifosi brindano al Titano, alla squadra e alle
piume delle galline, così vengono chiamati quelli del River perché
secondo gli xeneises non hanno gli attributi.
Ma è proprio in un bar
di San Telmo, dove prendeva il caffè lo scrittore Osvaldo Soriano,
che ti svegli dal sogno e ti riprendi dall’incanto. Caro amico, hai
visto il bello. Ma ora leggi il brutto. E così avrai capito tutto.
Leggi La Doce - La vera storia della barra brava del Boca del
giornalista Gustavo Grabia, uscito nel 2009. Il suggerimento viene
dal cronista della Bbc Joel Richards, inglese
trapiantato per amore in
Argentina. Un libro coraggioso. Lo apri ed entri nell’incredibile
retrobottega della tifoseria violenta del Boca.
Piccola parentesi: le
barras, ovvero le falangi più toste, per usare un eufemismo,
del tifo argentino, sono così calde e pregne di fanatismo che al
confronto le curve di Genova e Firenze, Milano e Napoli, sono dei
salotti dove piccoli lord prendono il tè e divagano sul divenire
delle Tartarughe Ninja. Il calcio di Buenos Aires vive di derby tra
squadre dello stesso quartiere, pastosi agglomerati che compongono il
mosaico della capitale: Lanus contro Banfield, San Lorenzo contro
Huracàn, Racing e Independiente che non si possono vedere eppure si
vedono, perché i loro stadi distano meno di un chilometro. Si
odiano.
Rubarsi le bandiere è il
vizio di guerra delle barras bravas. Può essere un oltraggio
indelebile o un’impresa che fa curriculum. Questa caccia al
vessillo arma le bande prima di pugni, poi di coltelli, infine di
pistole. La violenza è la sommità di tutto questo e non c'è
inversione di marcia: almeno una volta l'anno il fùtbol argentino
piange perché qualcuno, permettete la citazione, si è infilato il
cappotto di legno. A volte senza nemmeno andarsela a cercare. Basta
un proiettile vagante.
Gustavo Grabia non ha
tralasciato dettagli, che fanno la differenza in un’inchiesta così
importante. Scrostato l’intonaco del folclore, la storia della Doce
svela il lato oscuro del fùtbol, in cui tifo è: potere. Un potere
che arriva fin dentro gli spogliatoi e l’ufficio del presidente.
Parallela alla gloriosa storia del Boca, scritta da grandi allenatori
come Carlos Bianchi e Alfio Basile, e da giocatori ultraterreni come
Diego Armando Maradona e Gabriel Omar Batistuta, transita quella
della tifoseria, scandita dalle ere di dominio dei capi della Doce.
I cui nomi a noi non dicono nulla ma che al tifoso del Boca dicono
tutto. I loro volti sono da album delle figurine.
Potere e pistole
In principio fu El Toto
Caffarena, una vita da mascotte. Tra gli anni 40 e 50 regnò la Barra
de Cocusa, dal nome del suo enigmatico leader. Che venne
rimpiazzato da Enrique Ocampo, detto Quique El Carnicero, il
Macellaio. Un nome che era tutto un programma, un’impresa autonoma
di violenza. Ma proprio sotto il suo «mandato» il tifo del Boca
registra la pagina più brutta della sua storia. E’ il 23 giugno
1968, si gioca River-Boca al Monumental. Scatta qualcosa verso la
fine della partita, una trappola. Uno dei cancelli da cui i tifosi
del Boca defluiscono sotto le tribune è chiuso, qualcuno dirà che
fu opera della polizia per ingabbiare e schedare i capi del tifo
boquense. Da sopra però cominciano a piovere pietre e drappi
incendiati. La calca diventa morte: 71 tifosi schiacciati, 64 feriti.
Il muro del pianto del Boca Juniors.
Dopo El Carnicero tocca a
Josè Barritta detto l’Abuelo, il Nonno. Un regno iniziato nel 1980
con l’ultimo regolamento di conti ad arma bianca. Poi comandano le
pistole. E le pallottole allungano l’elenco delle vittime, pro e
contro. Infine, dal 1996 al 2006 regnano i fratelli Di Zeo. Rafael è
il protagonista assoluto del decennio. Si scontra con tutti, diventa
amico di tutti quelli che contano. Lo incastrano non per atti di
violenza, propri o da mandante, ma per documenti falsi. Tra i
successori, l’ultimo nome di grido è quello di Mauro Martin,
capace di liberarsi della marcatura degli altri pretendenti al trono
come il più smaliziato degli attaccanti.
Tutti questi volti
scorrono nel libro di Grabia. Leader che cadono per deliri
d’onnipotenza o per il vento politico. Oppure per periodi di
flessione della squadra nei quali sfiorisce l’immagine vincente del
tifoso del Boca, abituato a ballare sui cadaveri dei nemici. I
fedelissimi, quando fiutano la caduta del capo, ci mettono un secondo
a cercare successori. O addirittura a candidarsi.
Incredibile la rete di
traffici della Doce. Riciclaggio di denaro, spaccio di droga,
controllo dei parcheggi a pagamento intorno allo stadio e del
merchandising non ufficiale. Persino tour operator che vendevano
partite del Boca ai turisti, nel cuore della Doce, per 100
dollari (150 il Superclasico).
Tutto denaro che serve a
sostenere le spese del nucleo lavico della tifoseria, pronto a
qualunque trasferta, come andare in Giappone a tifare Boca al
Mondiale per club o prendere un posto in prima fila a sostenere la
Selección ai Mondiali.
L’impunità dei
capi
La falsificazione di
passaporti e documenti agevola i movimenti della guerriglia. Molte
trasferte sono da «road movie», piene di botte e
pistolettate ai caselli autostradali, agli autogrill, a due isolati
dagli stadi. Bande che paiono eserciti prussiani armati e strutturati
in assetto di guerra. Possibile che la polizia non abbia mai fermato
tutto questo?
Ci ha provato. Mai
tentacoli della Doce si infilano tranquillamente negli uffici
della giustizia. Un regime d’impunità mai visto altrove. Molte
cause sono finite sui tavoli di giudici-tifosi del Boca. E per i capi
della Doce c’è quasi sempre stata una convivenza tranquilla
con denunce e processi che per chiunque sarebbero affilatissime spade
di Damocle. E’ una sequenza infinita, nonché comica in alcuni
casi, di ritrattazioni di accuse. Insolite sentenze, divieti di
ingresso allo stadio aggirati con travestimenti, sempre ben
documentati da giornali e tv. I leader più potenti hanno fatto
cambiare sede alle partite quando gli venivano vietati gli stadi di
provincia, portandole nella capitale. Gli ultrà cercano di evitare
le carceri perché non sono ben visti nelle gabbie dei derelitti. Di
quelli che sono stati condannati, molti hanno avuto il privilegio di
scegliersi la prigione. Tanti fatti, alla gente comune, sono parsi
sorprendenti. Ma nel mondo delle barras bravas non esiste la
parola casualità.
Il perché è collocato
in un'altra maglia della rete: le relazioni con i politici. In
campagna elettorale, gli ultras lavorano per il miglior offerente
nelle manifestazioni di piazza. Uno degli ultimi accordi con la Casa
Rosada, nel 2009, coinvolge l’ex presidente Nestor Kirchner: lo
stato voleva appropriarsi del diritti tv delle partite, in mano al
potente gruppo editoriale Clarin. Striscioni in curva e volantinaggio
della barra: liberate il calcio dall’oppressione di chi lo
trasmette a pagamento.
Kirchner ha vinto e il
calcio ora può vederlo in chiaro anche un povero diavolo sulle Ande.
Le partite vengono spalmate nel week-end, a tutte le ore. Tifo e
politica sono abbottonati.
Nel 2005 il lìder maximo
Rafael Di Zeo si sposa con la figlia del governatore della capitale.
Al matrimonio assistono politici, ufficiali e pure Maradona. Il quale
è riuscito a finanziare uno striscione entrato nella storia:
«Possono imitarci, ma mai eguagliarci». E certo! Come si fa ad
eguagliare tutto questo?
Harvard per gli
ultrà
La Doce è padrona
di tutto, compresa la Bombonera. I suoi ultras giocavano a pallone il
giovedì e il sabato sui campi d’allenamento del Boca, vietati a
tutti. Il sostegno con cori ai giocatori è condizionato dalla
disponibilità dei giocatori stessi a partecipare a cene con i club
che servono per raccogliere soldi per la Doce. Non dipende
dalla simpatia e dal talento, né dai gol. Chi non si è piegato a
questo schema di gioco, è stato costretto ad andarsene.
In un contesto così, è
chiaro che fa un grande effetto nei tifosi della barra la visita in
prigione dei giocatori al capo della Doce. E’ successo l’11
aprile 2007: sono andati a trovare Rafael Di Zeo, oltretutto in un
giorno in cui le visite non si potevano effettuare. Ci ha rimesso
solo il direttore del carcere, gli altri non li ha cercati nessuno.
Potere. Per il potere
sono avvenuti regolamenti di conti anche a pochi metri dai campi
d’allenamento del Boca. Tentativi di golpe per prendere il comando
della Doce e le sue uova d’oro, persino sequestri di persona
come avvertimenti mafiosi.
Diceva un capo: «La Doce
è come Harvard, un’università dove si impara a essere ultrà». E
Rafa Di Zeo, sempre lui, spiegava l’infinito: «Credete che con me
in prigione tutto si metterà a posto? Pensate che se mi giustiziano
in piazza la violenza si fermerà? No, non serve a niente. E lo
sapete perché? Perché tutto questo è eredità. Semplicemente
eredità. La violenza non la generiamo noi, solo succede. Sta lì,
nel calcio».
Siamo al punto di
non-ritorno. Perché l’odio sale dagli spogliatoi del passato. E
non si aggiusta il presente se prima non si aggiusta il passato. Lo
sa mezza Argentina, quella dei desaparecidos, che ancora non
ha ottenuto giustizia per i suoi figli spariti nel nulla sotto la
dittatura di trent’anni fa. E lo sa l’altra metà, quella del
tifo indispensabile.
Il lato oscuro della Doce
è il compendio dei corredi oscuri del tifo argentino. Esiste da
un secolo e non si cancella perché è come se raccontasse meglio di
tante altre cose, dai governi dannosi come quello di Carlos Menem
alle crisi economiche, dai lutti alle contestazioni di piazza a suon
di pentole, quanto sia fragile, contraddittoria e incorreggibile
l’anima di questo paese straordinario ma dal destino burrascoso.
“alias-il manifesto”
- 4 giugno 2011
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