Museo del Louvre, Louis-Michel Van Loo, Ritratto di Diderot |
Sul finire dell'agosto
1763, Diderot, ormai sessantenne, iniziò un viaggio lungo e
disagevole per conoscere Caterina di Russia. Voleva ringraziarla di
persona per la generosità con cui gli aveva lasciato la sua
biblioteca, dopo averla acquistata, in cambio di quindicimila lire e
di un vitalizio. Tale somma riparava l'ingratitudine degli editori
dell'Encyclopédie e la sorda opposizione del governo, sempre
pronta a ridestarsi, aggravando le fatiche del filosofo.
Con quell'aiuto Diderot
potè costituire una dote alla figlia Angélique, tanto più
necessaria vista la natura interessata del futuro genero. Arrivato a
Pietroburgo dopo un viaggio faticoso, destinato a minare
irreparabilmente la sua salute, Diderot ricevette una gelida
accoglienza dallo scultore Falconet, da lui raccomandato alla
sovrana. Nonostante le gentilezze della zarina, la vita di corte fu
fonte d'innumerevoli disagi per un uomo abituato ad ammettere solo le
gerarchie dello spirito. I cortigiani sorridevano delle sue
goffaggini.
Il modesto abito nero, da
lui indossato abitualmente, dovette essere sostituito da un
variopinto costume da corte, dono della sua protettrice. Aveva con
lei delle lunghe udienze, durante le quali parlava liberamente,
lasciando fluire l'onda dell'entusiasmo e i maligni raccontarono che
la zarina aveva dovuto frapporre tra sé e il suo interlocutore una
tavola, per sfuggire alle cordiali pacche del filosofo. In quel
periodo scrisse un ottimo, quanto inutile piano per un'università
russa e un lungo saggio politico.
La zarina raccontò al
principe de Ligne: «Siccome, più che parlare, l'ascoltavo, un
testimone ci avrebbe preso lui per un severo pedagogo, ed io per la
sua ultima allieva. Probabilmente lui lo credette, perché, dopo un
po', non vedendo realizzarsi nessuna delle innovazioni consigliatemi
nel governo, se ne mostrò stupito, con una sorta di fierezza
scontenta». Diderot rimase sordo ai richiami di Caterina al realismo
politico. «Sono convinta, confessò, che da allora provò
compassione per me, pur guardandomi come uno spirito ristretto e
volgare. Da quel momento mi parlò di letteratura e la politica
scomparve dai nostri dialoghi».
Eppure l'esperienza russa
fu fondamentale per Diderot, in quanto lo pose a contatto con uno dei
massimi rappresentanti del despotismo illuminato settecentesco, con
una donna intelligente e cinica, macchiatasi di un delitto, pur di
salire sul trono. Dalla sua esperienza di corte nacque il Saggio
sui regni di Claudio e di Nerone e sui costumi e gli scritti di
Seneca (Sellerio), con cui il filosofo identificava il suo
disagio nei confronti del potere. In questo grande saggio, tradotto,
per la prima volta Italia, con grande abilità da S. Carpenetto e L.
Guerci, preceduto dal coltissimo saggio di Luciano Canfora, Diderot
difende in Seneca il filosofo disceso nel turbinio sordido della
prassi. Nell'indifferenza dello stoico per le ricchezze elargitegli
dall'imperatore, l'enciclopedista ribadiva la sua indipendenza nei
confronti della donazione russa. La gratitudine senza sosta ribadita
per la zarina era il vano tentativo di umanizzare un rapporto
sostanzialmente fallito, di attenuare il gelo emanante dai doni
elargiti con falsa generosità da un potere sordo ai suoi doveri.
Diderot lavorò a questa difficile apologia con uno zelo reso ancora
più commovente dal declinare della sua salute. In queste pagine
l'illuminismo parla dell'inevitabilità del rapporto
dell'intellettuale con il potere e dell'orrore, del fallimento
inevitabile in esso implicito.
Tra le righe, sempre
presente, ora esplicitamente, ora mascherato, Rousseau, l'amico di un
tempo, appare, nel suo voluto isolamento, l'antitesi della generosa
implicazione suggerita da Seneca e dal suo apologista e
insopprimibile, nonostante gli attacchi, affiora il sospetto che
quella sarebbe forse stata la via giusta, la soluzione impossibile a
un problema insolubile.
“il manifesto”,
ritaglio senza indicazione di data, probabilmente1986
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