Nel portare a termine la
sua opera in quattro volumi su Gli italiani in Africa orientale,
Angelo Del Boca è arrivato con la sua narrazione all'uscita di scena
dell'Italia dall'Africa. Il volume conclusivo — dopo tanto parlare di
conquiste e di occupazioni — è soprattutto una storia di
«distacchi» o se si vuole di «liquidazioni». Il titolo riserva
però una sorpresa, se esso corrisponde a una situazione reale e a
uno stato d'animo effettivo.
Quest'ultimo volume si
chiama infatti: Nostalgia delle colonie (Laterza, 1984). Gli
italiani, dunque, non hanno subito la sconfitta con rassegnazione.
C'è chi ha cercato di salvare le colonie e addirittura chi si è
adoperato per ricostruire qualcosa che assomigliasse a un piccolo o
grande dominio coloniale.
Come si spiega un simile
atteggiamento, visto che il colonialismo non ha mai avuto in Italia
molta fortuna, non ha rappresentato uno sfogo «naturale» a
un'eccedenza di capitali o risorse economiche, è sempre rimasto
relativamente estraneo alla nostra cultura? E che implicazioni se ne
possono trarre quanto alle forme e ai modi con cui gli italiani
guardano oggi ai problemi del Terzo mondo?
La storia del
colonialismo italiano scritta da Del Boca dimostra che il
colonialismo dell'Italia non è stato «qualitativamente» diverso
dal colonialismo delle altre potenze. Se mai la differenza è
«quantitativa», nel senso che è stato debole, non è riuscito a
incidere a sufficienza nella realtà locali, non ha avuto la forza di
sopravvivere a se stesso.
Inutile illudersi invece,
come spesso in Italia si dice, che sia stato un colonialismo più
«buono» o «tollerante»: le violenze sono state efferate anche
nelle colonie italiane, un po' in tutte le fasi, anche se ovviamente
gli anni del fascismo, in Libia prima e in Etiopia poi, hanno passato
il segno.
Ma, tornando alle
insufficienze del nostro colonialismo, la considerazione che più
conta ai fini di un'analisi della «mentalità» degli italiani nei
confronti del mondo che per abitudine o brevità si chiama coloniale
(e quando si parla di Italia quest'area è costituita soprattutto
dall'Africa e dai paesi arabi), è il prodotto diretto proprio della
carenza di mezzi e di motivazioni materiali: il colonialismo italiano
era troppo superficiale per potersi riconvertire a tempo debito in
neocolonialismo e gli italiani erano troppo poco penetrati nella loro
parte di colonialisti per avere un'idea chiara di come ci si dovesse
comportare nel momento del riassetto imposto dalla decolonizzazione.
C'è una citazione nel
libro di Del Boca che è molto istruttiva. Quando l'Italia ebbe
l'amministrazione fiduciaria della Somalia per conto dell'Onu, si
apprestò all'opera con spirito teoricamente improntato ai valori di
democrazia che l'Italia repubblicana aveva fatti propri e che le
Nazioni unite appunto diffondevano nel mondo. Ma gli italiani erano
insicuri di sé. Per darsi fiducia senza avere il coraggio di fare
pronunce di tipo razzista, ricorsero a un artificio: lo stesso che si
ritrova nelle disposizioni impartite dai nostri comandi militari, che
invitavano le truppe impegnate in Somalia a comportarsi «in modo che
tutti siano perfettamente convinti della certezza della nostra
superiorità spirituale e tecnica».
L'esercizio di
quell'ultimo squarcio di potere coloniale risultò tuttavia quanto
mai approssimativo. La Somalia nacque come Stato indipendente con
tali lacune quanto alle istituzioni, all'economia e persino alla
configurazione territoriale da avere la sorta segnata. E —
paradossalmente — gli italiani non approntarono quegli strumenti
che avrebbero potuto e dovuto garantire i loro interessi.
Colonialisti senza forze
adeguate e neocolonialisti mancati, gli italiani — questa potrebbe
essere la tesi — non seppero cogliere tutto il significato del
postcolonialismo. Le comunità italiane residenti in Africa (dalla
Somalia alla Libia) furono lasciate in balìa di una politica
improvvisata, oscillante fra l'abbandono e poco credibili impennate
revansciste. La necessità di un rapporto alla pari fece fatica ad
imporsi. Fu possibile solo quando si passò alla nuova dimensione
della cooperazione allo sviluppo, utilizzando mezzi e uomini che al
limite non avevano nulla a che vedere con la rete delle influenze
coloniali, anche se la cooperazione allo sviluppo dell'Italia, così
come l'attività imprenditoriale italiana nei paesi in via di
sviluppo, si è concentrata di preferenza negli stati appartenenti un
tempo all'impero italiano (di nuovo la Somalia, la Libia,
l'Etiopica). Con una difficoltà tuttavia, che continua a pesare: la
mancata interiorizzazione delle ragioni del colonialismo (e del suo
inverso) provoca di tanto in tanto incomprensioni, fastidio, vere e
proprie crisi di rigetto.
Si pensi al rapporto
profondamente ambiguo che, malgrado tutto, gli italiani hanno con i
popoli arabi, destinatari naturalmente di un rapporto svincolato
dalle bardature del colonialismo, solo che ci si ponesse veramente in
una prospettiva postcoloniale e non coloniale, e che sono invece
oggetto di pregiudizi e diffidenze che la cultura dominante ha
cercato invano di giustificare.
In effetti, se il
colonialismo italiano si è dimostrato poco coerente con i fenomeni
«strutturali», anche la «sovrastruttura» culturale — se si
vuole usare questa espressione per comodità di argomentazione —
rivela tutti i suoi limiti. Indicazioni preziose emergono dal libro
di Giovanna Polesello, La
letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo
(Sellerio, 1984). La Polesello documenta quanto sia stato difficile
per la cultura italiana individuare uno «specifico coloniale».
Bontempelli, ad esempio, osservava argutamente che non bastava
«mettere a Tripoli un'avventura che si potrebbe mettere a Perugia,
per aver fatto un romanzo coloniale». Certo Kipling era fiorito in
altri climi. E l'imperialismo britannico, non a caso, aveva dietro di
sé ben altre spinte. Se alla Polesello interessa rimediare a un
peccato di omissione nei confronti della letteratura coloniale
(soprattutto dei tempi fascisti, quando fra l'altro il colonialismo
era il frutto più che mai di una retorica che si autocaricava),
certe conclusioni appaiono omogenee con le risultanze cui approdano
anche le ricerche di Del Boca. Fa notare in effetti, a ragione, che è
anche per questa strada che si può capire perché, contro ogni
evidenza, si sia continuato ad accreditare il mito di un colonialismo
italiano «diverso» dai precedenti, più «umano» e
«civilizzatore», a costo di condizionare anche le relazioni che con
i paesi ex-coloniali sono continuate o sono state impostate dopo la
fine del colonialismo.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1984
Nessun commento:
Posta un commento