Articolo da “La Stampa”
utile a ricordare un importante problema storiografico. La lettura
del processo di trasformazione della città sulla spinta delle nuove
presenze mi pare valida, ma la conclusione del pezzo è
eccessivamente conciliante e, perciò, non corrispondente alla realtà
dei fatti. Gli scontri di Corso Traiano (c'è tutta una letteratura
coeva a ricordarcelo) non unirono, divisero; e non secondo le linee
tradizionali. E le tensioni furono addirittura laceranti. Su quella
giornata di lotta si divisero al loro interno persino il Pci e la
Cgil. Non sono necessarie, per rendersene conto, accurate ricerche,
basta sfogliare giornali e riviste del tempo: la stessa “Stampa”
per esempio, che gli operai proprio da allora cominciarono a chiamare
“la Bugiarda”; o, sul fronte opposto, i “Quaderni rossi”.
(S.L.L.)
Che cosa sarebbe oggi
Torino se non ci fossero state, nel corso degli anni Cinquanta e
Sessanta, le grandi ondate di immigrazione meridionale? E non solo
meridionale. Un colossale trasferimento di persone, culture,
concezioni politiche, speranze e sacrifici. Che cosa hanno realmente
significato nella vita della città gli afflussi massicci, alla
stazione ferroviaria di Porta Nuova, con i «Treni del Levante» e
con il «Treno del Sole», di contadini, braccianti, sottoproletari e
disoccupati, che in quella calca iniziavano un faticoso viaggio
dentro il maggiore polo industriale italiano, tra alloggi di fortuna,
disturbi psicologici e il ripetitivo tic della catena di montaggio?
Interrogativi che hanno
avuto in genere risposte tradizionali, per cui il movimento
migratorio è stato visto come lo specchio di un paese spaccato, e
come un dato di emarginazione e povertà, non una chance ma un
handicap, fonte di stravolgimenti. Ma non sono mancate letture
trasgressive, che hanno individuato nel fenomeno una molla per la
modernizzazione del paese, e un potente fattore di trasformazione
della città verso nuove forme nella politica, nell'urbanistica,
nella funzione dei partiti, nell'organizzazione sociale.
Fondamentale in questa
linea l'uscita nel 1964 dell'inchiesta L'immigrazione meridionale
a Torino di Goffredo Fofi, inequivocabile nella rappresentazione
del fenomeno, e delle forze in campo. Avrebbe dovuto essere
pubblicato presso Einaudi, dove però apparve troppo duro rispetto a
soggetti come la Fiat o il Pci, per cui l'editore disse di no, dopo
un drammatico consiglio editoriale (l'inchiesta sarà pubblicata e
più volte riedita da Feltrinelli).
Su questo stesso fronte
di ricostruzione, l'immigrazione come moltiplicatore di sviluppo, è
arrivato nelle librerie Da Porta Nuova a corso Traiano
(Bononia University Press, pp. 263, € 25) di Michelangela Di
Giacomo, ricercatrice dell'Università di Siena, specializzatasi
nella storia delle migrazioni. Sulla base di una sterminata massa di
documenti, il libro propone l'immigrazione come motore di
modernizzazione, prima che conseguenza di squilibri.
Non che l'immigrazione
sia spogliata dei suoi aspetti più aspri e dolorosi. Il libro, per
esempio, ricorda e cita diversi diari di operai giunti alla Fiat dal
Sud. O raccoglie testimonianze direttamente dalla voce dei
protagonisti di quelle irripetibili vicende. «In linea. Io stavo
morendo in linea - confessa un'operaia. Una linea lunghissima, da
impazzire». Un altro testimone: «Diventavo pazzo. C'era una
giostra, una piccola linea che girava sempre». Di pagina in pagina
si seguono i percorsi dei nuovi arrivati alla ricerca di lavoro:
prima nei cantieri dell'edilizia, spesso in condizioni precarie, poi
nelle «boite», le piccole officine, da ultimo alla Fiat, chi ce la
faceva: «Quando finalmente, all'inizio del '62, sono stato assunto a
Mirafiori mi sembrava di aver toccato il cielo con un dito: lo
stipendio aumentava, non dovevo più considerarmi un precario, ma i
problemi sono cominciati subito, perché io non ero abituato a quel
tipo di organizzazione del lavoro».
Ma è proprio l'asprezza
dell'inserimento, è proprio il rischio dell'isolamento, con la
diffusione di microcomunità di immigrati, a spingere verso forme di
partecipazione sempre più irruente e consapevoli, su nuovi obiettivi
di grande impatto sociale. Sono gli immigrati meridionali a chiedere
che ci si batta non solo per le tradizionali rivendicazioni operaie -
salari, orari, qualifiche - ma anche per conquiste che riguardano le
condizioni di vita dei nuovi arrivati nella città. In questo
conflitto tra la vecchia aristocrazia operaia e il nuovo
operaio-massa maturavano le esperienze da cui sarebbe uscita una
nuova classe politica e sindacale.
D'altronde queste vite
che si perdevano in un nuovo mondo, di due cose erano debitrici alla
città in cui poteva capitare di vedere i cartelli «Non si affitta a
meridionali»: innanzi tutto lì, comunque, si faceva il futuro del
paese. Come si legge in una pagina della ricerca, «non saranno
proprio quelle macchinette utilitarie che lui e i suoi compagni
producono con i loro gesti ripetitivi che porteranno il benessere da
Trento a Catanzaro?». La città delle fabbriche è anche la città
del miracolo economico, che dal '53 registra crescita dei consumi,
dai frigoriferi alle radio alle automobili. In secondo luogo,
l'intera ricerca è immersa dentro il mondo del lavoro, per cui si
registrano le diverse politiche con cui, in quindici anni, comunisti
e socialisti, Uil e Acli, superando anche radicati pregiudizi,
inseriscono progressivamente le frotte di immigrati nel mondo delle
officine, e avviano una graduale ma efficace integrazione tra la
condizione operaia, dentro la fabbrica, e i bisogni degli operai,
fuori nella città. Non a caso il libro si chiude sugli scontri di
corso Traiano, che videro una fusione tra le due alternative, per una
nuova stagione politica e sindacale.
“La Stampa” 21
novembre 2013
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