Se non fosse stato amico
di Flaubert, di "un'amicizia indistruttibile", Maxime du
Camp [1822-1894], pur avendo scritto una diecina di volumi (fra cui
il primo racconto di viaggio corredato di fotografie, nonché
incursioni nella storia, nell' analisi sociale e perfino nel romanzo
e nella poesia) e per quanto fosse finito accademico di Francia,
difficilmente sarebbe emerso dalla straordinaria fioritura letteraria
che nel suo paese caratterizzò la seconda metà del secolo scorso.
Flaubert, che non era
certo un tipo di facile compagnia, si trovava bene insieme al "jeune
Maxime" - così lo chiamava, sebbene avesse solo un anno
meno di lui -; oltre a compiere insieme due memorabili viaggi, essi
si ritrovarono a Parigi nelle giornate più calde della rivoluzione
del 1848 (Maxime sarà anche ferito su una barricata), di cui l' uno
e l' altro hanno lasciato annotazioni di cose viste; più tardi,
Flaubert se ne servirà nello scrivere alcuni celebri capitoli della
Educazione sentimentale.
Adesso a Parigi si
ripubblica una scelta dai Souvenirs littèraires di Maxime du
Camp (Balland, pagg. 286, franchi 89), a poco più di un secolo dalla
prima edizione (1882-1883). Naturamente, il pezzo forte di quei
ricordi è costituito dal sodalizio con Flaubert, che Maxime ha
conosciuto una sera del marzo 1843 in casa di un amico, dove a un
tratto irrompe il giovane gigante normanno (Gustave aveva 21 anni,
allora) a disperdere con la sua "bellezza eroica" i versi
che Maxime stava scribacchiando in un angolo, nell'atmosfera creata
dal suono di una marcia funebre di Beethoven.
I due vissero per qualche
tempo in una cerchia di amici - scrittori, pittori, poeti - e, poco
dopo, prima che Maxime partisse per il suo primo viaggio in Oriente,
si scambiarono un anello di "fidanzamento intellettuale".
Du Camp scriverà da Smirne (1844) a Flaubert per assicurargli che
"tiene l' anello al dito e lo ama come un'amante".
Poco dopo (maggio 1847) i
due amici partono ("soli, indipendenti, insieme!" dirà
Gustave) per fare un lungo giro a piedi attraverso la Bretagna, non
senza aver superato iniziali difficoltà per essere stato Flaubert
colpito da un attacco del suo male (epilessia?). Ma la crisi non si
ripeterà e i due possono continuare il viaggio, "coscienti
della propria felicità, inebriati dal moto, dalla giovinezza, dalla
natura", declamando ad alta voce i versi che più amano. A
Combourg, davanti alla casa che era stata di Chateaubriand, Flaubert
impedisce a Maxime di dormire per parlare fino all'alba dell'uomo che
i giovani di quella generazione avevano circondato di un culto che in
seguito sfiorirà rapidamente.
Ma la Bretagna fu solo un
prologo. Nell'ottobre 1849 i due ripartono, questa volta per un
viaggio in Egitto e nel Medio Oriente fino in Persia (dove non
arriveranno), per ritornare da Costantinopoli e poi attraverso la
Grecia e l'Italia. L'Oriente li affascina; e del resto, l'esotismo
era allora un ingrediente assai diffuso nelle mode letterarie.
Tuttavia Flaubert, assai legato alla madre, non parte senza sospiri.
Il racconto che du Camp ci ha lasciato di questo viaggio è assai
deludente, intessuto com'è soprattutto di visite e banchetti presso
notabili del Cairo, di usi e costumi locali, di pedanti informazioni
turistiche. Maxime prende appunti come un agente di viaggi, non certo
come un visitatore appassionato, e censura tutto ciò che può
nuocere alla sua immagine di honnete homme. Qui si vede
chiaramente l'invalicabile distanza che, sotto la affettuosa
camaraderie del quotidiano, lo separa da Flaubert. Se questi
aveva spiccatissimo il senso del comico, spinto fino al grottesco, du
Camp sembra mancare totalmente di humour: si esaltava a freddo
pensando di ricalcare le orme di propri avi spagnoli (grazie ai quali
avrebbe avuto ipotetico sangue arabo nelle vene), mentre Flaubert
sarebbe rimasto "calmo", "senza curiosità":
"viveva chiuso in se stesso, come stanco e annoiato... templi,
paesaggi, moschee gli sembravano sempre gli stessi...".
Ma basta leggere le
lettere che Flaubert mandò alla madre e all'amico Louis Bouilhet
dall'Egitto e poi dall'Asia minore e dalla Grecia, per cogliere la
totale inconsistenza e falsità di questo ritratto. Di vero c' è
solo che Flaubert dovette davvero vivere quei mesi "chiuso in se
stesso", senza far partecipe l' amico delle tempeste che
sconvolgevano in lui la sensibilità e l' immaginazione. In quelle
lettere Gustave scrisse forse per la prima volta e dal vero il
"racconto orientale" che meditava da tempo: le meravigliose
immagini della valle del Nilo, il mistero della Sfinge e delle
Piramidi, il "grottesco" di una società rimasta schiavista
e feudale, vissuto e descritto in tinte rutilanti, l'esaltazione di
prodezze sessuali e, insieme, il rifiuto di esse "per
conservarne profondamente in sé l' abbagliante malinconia".
Forse fu proprio qui che Flaubert si liberò della sfiducia in se
stesso in cui era piombato dopo che gli amici (du Camp e Bouilhet,
appunto) ai quali l'aveva letta, avevano bocciato senza appello la
prima stesura della Tentazione di sant'Antonio. Maxime non
poteva capire perché Flaubert, mentre correvano a briglia sciolta,
fermasse improvvisamente il cavallo gridando: "Ho visto la
Sfinge fuggire verso la Libia; galoppava come uno sciacallo".
Simili "ossessioni" lo turbavano, gli davano forse un senso
di inferiorità, non poteva sopportare la mescolanza di "comico
e sinistro" nelle fughe visionarie dell' amico. Come quando,
rimasti senz'acqua nel deserto di Qseir, nel tormento della sete,
Flaubert si abbandonò alla voluttuosa descrizione di certi gelati al
limone che si gustavano "chez Tortoni": "lo si
schiaccia dolcemente fra la lingua e il palato; lentamente, fresco e
delizioso, comincia a fondersi; bagna il palato molle, sfiora le
tonsille, penetra nell' esofago accogliente e infine si depone nello
stomaco che ride di folle contentezza". Maxime era fuori di sè:
"un pensiero terribile mi scosse, 'lo ucciderò', mi dissi".
Non gli parlò per dodici ore, fino a che Flaubert non venne ad
abbracciarlo e gli disse: "Ti ringrazio di non avermi spaccata
la testa con un colpo di fucile; io, al tuo posto, non avrei
resistito". Poco dopo, l' acqua del Nilo "che vale i vini
più raffinati", chiuse definitivamente l' incidente.
“la Repubblica”, 20
ottobre 1984
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