Dopo aver regolato un
affranto Guillermo Vilas, nel giugno del ’74 un diciassettenne
svedese riposa solo due ore prima di spuntare una a una tutte le armi
del rumeno Ilie Nastase, per una volta più irritato che irritante.
Sui mattoni sgretolati del Foro Italico, Björn Borg incanta gli
specialisti con un gioco solido e originale: sorretti da gambe
d’acciaio e da una volontà precocissima, i suoi colpi imprimono
alle palle traiettorie micidiali e cariche di spin che
ricacciano anche gli avversari più ostinati all’ombra dei
cartelloni pubblicitari. I tifosi di Roma vanno in visibilio davanti
alle prodezze balistiche di quest’«orso nella fortezza» (così,
più o meno, la traduzione del nome finnico), consci d’assistere a
una vera e propria rivoluzione copernicana. La stance frontale
e il rovescio a due mani sono i due comandamenti principali del
tennis moderno e Borg è l’unto del Signore, il Messia. Da questo
momento, la didattica dello sport che è stato di Rod Laver e Don
Budge si stravolge. Dovunque, milioni di bambini tentano di imitare
l’estro disciplinato del profeta del Nord.
Nel 1987, a distanza di
tredici anni e dieci titoli dello Slam, il miracolo si ripete a
Itaparica, in Brasile: stavolta il giovane Cristo non ha i modi
gentili del fuoriclasse di Södertälje, ma irrompe ugualmente nel
Tempio come un ribelle dal talento smisurato e dalla tecnica
personalissima. Per Andre Agassi – classe 1970, da Las Vegas,
Nevada: posizione d’attesa della palla frontale e colpo rovescio
bimane, esattamente come Borg – è il primo titolo tra i «grandi»;
la prima stazione di una carriera che si chiuderà in casa, nel 2006,
sul cemento di Flushing Meadows, serrando in bacheca otto vittorie
nei quattro più importanti tornei del circuito (Australian Open,
Roland Garros, Wimbledon e Us Open), vinti almeno una volta ciascuno,
e una serie di numeri e record impressionanti. Non ultimo, il primato
incalcolabile di aver cambiato la percezione dello sport della
racchetta agli occhi del pubblico, specializzato e non, di tutto il
mondo: i suoi completi, come già quelli di Borg, diventano moda,
superano gli steccati dell’attrezzatura tecnica ed esprimono un
modo di essere, di vivere. Anche il gioco ne esce sfigurato,
accelerato nei movimenti e violentato nella tattica: che serve
colpire più volte se puoi colpire più forte e con maggiore
precisione? È l’apoteosi del tennis-flipper, fatto di scambi
forsennati e proietti vincenti. Ma la classe, il genio, quelli no,
non si possono imitare.
Di Agassi, come già di
Borg, si fatica a tenere il conto degli epigoni, e però il ricavato,
in termini di risultati e «imprese» sportive, è tutto dalla sua
parte, perché si può essere dei modelli ma non si può insegnare
quello che si è ricevuto in dono dalla sorte come una grazia. Nello
specifico, il dono di Agassi è la velocità: velocità di piedi, di
pensiero e di braccio: una qualità che i tennisti perdono per
ultima, come i pugili la
potenza, sì da poterla preservare, tra alti e bassi, anche per un
ventennio – dal 1986 al 2006, appunto. E proprio dal capitolo
conclusivo prende l’avvio Open. La mia storia (traduzione di
Giuliana Lupi, Einaudi «Stile Libero Extra»), il libro che nel
2009, quasi proseguendo una sfida che è stata a lungo la sfida, il
Kid di Las Vegas (tanto per attenerci a uno dei soprannomi più
longevi di Agassi) ha licenziato per i tipi di Knopf e con la
supervisione/mestiere di J.R. Moehringer, un anno dopo A
Champion’s Mid, di Pete Sampras. Pure, se quella del rivale di
sempre (i due si sono affrontati più di trenta volte nell’arco di
oltre una decade) può ascriversi al genere della classica
autobiografia-conversazione di un grande sportivo, la fatica
«letteraria» di «Andreino» occupa piuttosto il terreno della
confessione. Giocando col tempo come un elastico, Agassi ripercorre
la sua storia di uomo e di tennista scoperchiando accessi segreti,
rivelando scoop e illuminando le zone più in ombra di
quell’appendice dello star system che è diventato il proscenio
agonistico dei grandi eventi sportivi. L’effetto narrativo è
contagioso, come gli episodi scelti, i quali, sebbene echeggino
luoghi spesso comuni nelle carriere degli enfant prodige di
tutti i tempi, assumono, per il tono e la schiettezza con cui sono
affrontati, connotati tutti loro e particolarissimi.
Su ogni aspetto di
quell’abnorme concentrazione di esperienze, dinamiche, tensioni e
passioni che fa spesso indulgere nella corriva interpretazione dello
sport come metafora della vita, domina il rapporto col padre-padrone,
a conferma d’un conflitto edipico che il tennis moderno ha
ripetutamente registrato, soprattutto in campo femminile (vedi alla
voce Austin o Graf o Williams); da qui nasce gran parte
dell’irrequietezza del campione statunitense, ininterrottamente
alla ricerca di
un ambiente, una
condizione in cui ricreare l’idillio solo sognato di una famiglia
serena che lo potesse redimere, o quantomeno alleviare, dal passato e
dal ricordo dell’infanzia che Emmanuel «Mike» Aghassian, un ex
pugile di Teheran fuggito tra le mille luci della capitale mondiale
del gioco d’azzardo, imprigionò da subito tra le righe e le
invisibili geometrie di un campo da tennis. E sempre da qui nasce
quella che Andre Agassi definisce a più riprese la contraddizione
vitale e micidiale della sua intera esistenza: odiare qualcosa e non
potersene staccare, per quanto si fugga, si distrugga, ci si lasci
alle spalle affetti, amicizie e luoghi.
Probabilmente è vero che
Agassi odi il tennis – e sicuramente lo avrà odiato quando il
successo lo ha investito con una forza contro cui la racchetta e i
riflessi eccezionali non potevano nulla –, ma è anche vero che si
tratta del tipo d’odio dal quale non ci si può mai liberare,
l’odio che ci spinge a fare e a realizzare, a disfare e a
cominciare tutto daccapo: una partita che ci sembra persa oppure un
torneo che vogliamo vincere anche solo per dimostrare che la vittoria
non è tutto. Quell’odio che chiamiamo così per dargli un volto
riconoscibile, per attribuirgli un’identità che non sia sempre
quella che riconosciamo come la nostra ogni volta che ci guardiamo
allo specchio.
A volere scavare, nascono
ancora da questa contraddizione pure le «proiezioni» sentimentali
del giocatore e la sua scelta di raccontarsi attraverso le sconfitte
più che nelle vittorie. In quest’ottica, però, i dettagli tecnici
non restano mai solamente tali né la vita fuori del rettangolo di
gioco è solo ed esclusivamente privata.
Agli aficionados farà
piacere – un piacere pettegolo e stravagante – leggere del campo
di concentramento dell’Academy di Bollettieri, così come non si
possono che divorare i ritratti di colleghi e compagni (ognuno a suo
modo epitome d’un modo d’essere, d’un tipo sociale e
culturale), ma le pagine più belle di Open sono quelle in cui
Agassi, come un uomo qualsiasi, si trova solo con se stesso e con il
proprio infinito dono: quel dono che alla fine, se davvero vogliamo
trarre una morale dal suo racconto, gli ha insegnato ciò che nemmeno
Borg, probabilmente, è riuscito mai ad afferrare: e cioè che la
contraddizione è la cifra della condizione umana, ne è, anzi,
l’estrinsecazione più sincera e, tutto sommato, onesta; che, in
altra parole, è inutile fare dell’odio un
fantasma da scacciare,
perché è quello stesso odio a sussurrarci, anche dopo aver sentito
l’arbitro recitare la fatidica trimurti «Game, Set and Match»,
che l’unica serenità imperfetta cui possiamo aspirare sta nel
volere «giocare soltanto un altro po’».
“Alias – il
manifesto” 14 maggio 2011
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