9.8.14

L'autobiografia di Andre Agassi (Stefano Gallerani)

Dopo aver regolato un affranto Guillermo Vilas, nel giugno del ’74 un diciassettenne svedese riposa solo due ore prima di spuntare una a una tutte le armi del rumeno Ilie Nastase, per una volta più irritato che irritante. Sui mattoni sgretolati del Foro Italico, Björn Borg incanta gli specialisti con un gioco solido e originale: sorretti da gambe d’acciaio e da una volontà precocissima, i suoi colpi imprimono alle palle traiettorie micidiali e cariche di spin che ricacciano anche gli avversari più ostinati all’ombra dei cartelloni pubblicitari. I tifosi di Roma vanno in visibilio davanti alle prodezze balistiche di quest’«orso nella fortezza» (così, più o meno, la traduzione del nome finnico), consci d’assistere a una vera e propria rivoluzione copernicana. La stance frontale e il rovescio a due mani sono i due comandamenti principali del tennis moderno e Borg è l’unto del Signore, il Messia. Da questo momento, la didattica dello sport che è stato di Rod Laver e Don Budge si stravolge. Dovunque, milioni di bambini tentano di imitare l’estro disciplinato del profeta del Nord.
Nel 1987, a distanza di tredici anni e dieci titoli dello Slam, il miracolo si ripete a Itaparica, in Brasile: stavolta il giovane Cristo non ha i modi gentili del fuoriclasse di Södertälje, ma irrompe ugualmente nel Tempio come un ribelle dal talento smisurato e dalla tecnica personalissima. Per Andre Agassi – classe 1970, da Las Vegas, Nevada: posizione d’attesa della palla frontale e colpo rovescio bimane, esattamente come Borg – è il primo titolo tra i «grandi»; la prima stazione di una carriera che si chiuderà in casa, nel 2006, sul cemento di Flushing Meadows, serrando in bacheca otto vittorie nei quattro più importanti tornei del circuito (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open), vinti almeno una volta ciascuno, e una serie di numeri e record impressionanti. Non ultimo, il primato incalcolabile di aver cambiato la percezione dello sport della racchetta agli occhi del pubblico, specializzato e non, di tutto il mondo: i suoi completi, come già quelli di Borg, diventano moda, superano gli steccati dell’attrezzatura tecnica ed esprimono un modo di essere, di vivere. Anche il gioco ne esce sfigurato, accelerato nei movimenti e violentato nella tattica: che serve colpire più volte se puoi colpire più forte e con maggiore precisione? È l’apoteosi del tennis-flipper, fatto di scambi forsennati e proietti vincenti. Ma la classe, il genio, quelli no, non si possono imitare.
Di Agassi, come già di Borg, si fatica a tenere il conto degli epigoni, e però il ricavato, in termini di risultati e «imprese» sportive, è tutto dalla sua parte, perché si può essere dei modelli ma non si può insegnare quello che si è ricevuto in dono dalla sorte come una grazia. Nello specifico, il dono di Agassi è la velocità: velocità di piedi, di pensiero e di braccio: una qualità che i tennisti perdono per
ultima, come i pugili la potenza, sì da poterla preservare, tra alti e bassi, anche per un ventennio – dal 1986 al 2006, appunto. E proprio dal capitolo conclusivo prende l’avvio Open. La mia storia (traduzione di Giuliana Lupi, Einaudi «Stile Libero Extra»), il libro che nel 2009, quasi proseguendo una sfida che è stata a lungo la sfida, il Kid di Las Vegas (tanto per attenerci a uno dei soprannomi più longevi di Agassi) ha licenziato per i tipi di Knopf e con la supervisione/mestiere di J.R. Moehringer, un anno dopo A Champion’s Mid, di Pete Sampras. Pure, se quella del rivale di sempre (i due si sono affrontati più di trenta volte nell’arco di oltre una decade) può ascriversi al genere della classica autobiografia-conversazione di un grande sportivo, la fatica «letteraria» di «Andreino» occupa piuttosto il terreno della confessione. Giocando col tempo come un elastico, Agassi ripercorre la sua storia di uomo e di tennista scoperchiando accessi segreti, rivelando scoop e illuminando le zone più in ombra di quell’appendice dello star system che è diventato il proscenio agonistico dei grandi eventi sportivi. L’effetto narrativo è contagioso, come gli episodi scelti, i quali, sebbene echeggino luoghi spesso comuni nelle carriere degli enfant prodige di tutti i tempi, assumono, per il tono e la schiettezza con cui sono affrontati, connotati tutti loro e particolarissimi.
Su ogni aspetto di quell’abnorme concentrazione di esperienze, dinamiche, tensioni e passioni che fa spesso indulgere nella corriva interpretazione dello sport come metafora della vita, domina il rapporto col padre-padrone, a conferma d’un conflitto edipico che il tennis moderno ha ripetutamente registrato, soprattutto in campo femminile (vedi alla voce Austin o Graf o Williams); da qui nasce gran parte dell’irrequietezza del campione statunitense, ininterrottamente alla ricerca di
un ambiente, una condizione in cui ricreare l’idillio solo sognato di una famiglia serena che lo potesse redimere, o quantomeno alleviare, dal passato e dal ricordo dell’infanzia che Emmanuel «Mike» Aghassian, un ex pugile di Teheran fuggito tra le mille luci della capitale mondiale del gioco d’azzardo, imprigionò da subito tra le righe e le invisibili geometrie di un campo da tennis. E sempre da qui nasce quella che Andre Agassi definisce a più riprese la contraddizione vitale e micidiale della sua intera esistenza: odiare qualcosa e non potersene staccare, per quanto si fugga, si distrugga, ci si lasci alle spalle affetti, amicizie e luoghi.
Probabilmente è vero che Agassi odi il tennis – e sicuramente lo avrà odiato quando il successo lo ha investito con una forza contro cui la racchetta e i riflessi eccezionali non potevano nulla –, ma è anche vero che si tratta del tipo d’odio dal quale non ci si può mai liberare, l’odio che ci spinge a fare e a realizzare, a disfare e a cominciare tutto daccapo: una partita che ci sembra persa oppure un torneo che vogliamo vincere anche solo per dimostrare che la vittoria non è tutto. Quell’odio che chiamiamo così per dargli un volto riconoscibile, per attribuirgli un’identità che non sia sempre quella che riconosciamo come la nostra ogni volta che ci guardiamo allo specchio.
A volere scavare, nascono ancora da questa contraddizione pure le «proiezioni» sentimentali del giocatore e la sua scelta di raccontarsi attraverso le sconfitte più che nelle vittorie. In quest’ottica, però, i dettagli tecnici non restano mai solamente tali né la vita fuori del rettangolo di gioco è solo ed esclusivamente privata.
Agli aficionados farà piacere – un piacere pettegolo e stravagante – leggere del campo di concentramento dell’Academy di Bollettieri, così come non si possono che divorare i ritratti di colleghi e compagni (ognuno a suo modo epitome d’un modo d’essere, d’un tipo sociale e culturale), ma le pagine più belle di Open sono quelle in cui Agassi, come un uomo qualsiasi, si trova solo con se stesso e con il proprio infinito dono: quel dono che alla fine, se davvero vogliamo trarre una morale dal suo racconto, gli ha insegnato ciò che nemmeno Borg, probabilmente, è riuscito mai ad afferrare: e cioè che la contraddizione è la cifra della condizione umana, ne è, anzi, l’estrinsecazione più sincera e, tutto sommato, onesta; che, in altra parole, è inutile fare dell’odio un
fantasma da scacciare, perché è quello stesso odio a sussurrarci, anche dopo aver sentito l’arbitro recitare la fatidica trimurti «Game, Set and Match», che l’unica serenità imperfetta cui possiamo aspirare sta nel volere «giocare soltanto un altro po’».

“Alias – il manifesto” 14 maggio 2011  

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