Caspar David Friedrich - Il tempio di Giunone ad Agrigento (1830) |
Perché mai oggi dovremmo
tornare a leggere Bruno Snell? La sua idea di Classico impregnata di
universali è ancora operante dopo tanti anni, o invece è una moneta
fuori corso o, tutt’al più, un inutile oggetto d’affezione? Che
fondamento scientifico è ancora in grado di garantirci la sua
ermeneutica «dagli effetti deformanti» – come ha lucidamente
dimostrato Bernard Williams –, tesa a dimostrare che se i greci di
Omero non riconoscono un certo elemento, allora questo «per loro non
esiste»?: così, ad esempio, non avendo a disposizione
corrispondenti termini lessicali, gli eroi omerici risulterebbero
privi del concetto unitario di «corpo», di «anima», di identità
personale; sarebbero incapaci di prendere decisioni; avrebbero «una
esperienza etica primitiva, priva di moralità»...
Mettiamoci per un attimo
nei panni di uno degli studenti che in questi giorni danno la
maturità, il quale intenda proseguire nello studio delle lingue
classiche per farne il fulcro del proprio sviluppo culturale, umano,
professionale: a che altezza egli dovrà collocare l’ideologia
archetipica e grecocentrica di Snell, trovandosi viceversa nella
prospettiva di un Occidente ibridizzato che ha messo in discussione
non solo l’‘univocità’ delle proprie radici, ma la stessa
legittimità culturale delle radici?; e nel quale il Classico come
matrice primigenia ed esemplare della cultura europea ha lasciato il
campo a un ripensamento pluralistico dei modelli?
A provocare questi e
altri interrogativi è la pubblicazione inattesa di un libro del
celebre filologo tedesco (1896-1986), arrivato sulla scrivania giusto
il giorno del Venerdì Santo: con un tramonto ad Agrigento di
Friedrich su una veste dai toni bassi prettamente universitaria
(sembrano xerox-copie anni ottanta rilegate). Dunque un fatto di
ordinaria attualità, ma di un’attualità quasi senza tempo, stando
alla dedica in frontespizio (omnibus qui studia classica amant),
per la cui comprensione sarà
utile accendere perlomeno
qualche lampadina di storia della cultura.
Il volumetto in questione
riunisce per il lettore italiano due saggi di Snell mai prima
tradotti: Noi e gli antichi Greci, Nove giorni di latino (Pàtron
editore, a cura di Marilena Amerise). Si tratta di due testi di
natura diversa, entrambi risalenti agli anni cinquanta. Solo il primo
di essi, pubblicato in Germania nel 1962, è propriamente un saggio.
La sua scansione – come correttamente dichiara l’autore –
risale in parte a una serie di contributi precedentemente apparsi in
rivista o ciclostilati: «Regole e libertà nella lingua»;
«Osservazioni sulle teorie dello stile», sul relativismo storico
delle esperienze e delle teorie estetiche; «Cultura generale e
scienze naturali», sulla nozione occidentale di scienza come diretto
frutto della filosofia greca; «Sviluppo di una lingua scientifica in
Grecia», col graduale passaggio dal concreto all’astratto, e così
via. A quell’epoca, specialmente in Germania, era molto attuale –
per dirla con il discepolo Erbse – «la discussione sul valore
dell’educazione umanistica», con inevitabili ricadute soprattutto
nel campo degli studi classici. Snell, che aveva maturato
progressivamente un punto di vista anti-hegeliano, e preso le
distanze dall’influente «Terzo umanesimo» di Jaeger (come ha
spiegato molto bene Diego Lanza), vedeva negli antichi Greci
l’archetipo cui ricondurre parabole di «progresso e declino» e
schemi di stili, linguaggi e soluzioni formali sentiti però come
degli stadi evolutivi lungo un ideale vettore di sviluppo della
civiltà, dove letteratura e arti figurative si rincorrano in un
suggestivo ma rischioso testa a testa. Così, ad esempio, un cavallo
fremente del Partenone sembrerà a Snell molto più «animato» di
certe teste umane anticoegiziane, anche se i Greci – conclude con
apprezzabile cultura pittorica –, non avevano ancora imparato a
«sentimentalizzare» gli animali come farà, molti secoli dopo,
Landseer. Ecco un passo abbastanza sintomatico del suo periodare:
«Che un albero nella neve getti un’ombra blu, ciascuno oggi lo
vede, ma quando io ero un bambino molti ancora lo contestavano ai
pittori impressionisti. E così come questa parte di natura ha dovuto
essere scoperta, tutto ciò che noi chiamiamo “natura” è stato
acquisito alla consapevolezza umana nel corso della storia (…) La
natura grande, libera, il paesaggio che solleva lo spirito, c’è
soltanto da quando Petrarca per primo salì su un monte, il monte
Ventoso in Provenza (…). La natura intesa come kosmos
ordinato (…) solo da quando i filosofi greci la postularono…»
(p. 68).
Sia tatticamente, sia
stilisticamente (Erbse esalta la «chiarezza espositiva» di queste
pagine, tanto più stranianti se paragonate a certo saggismo fumoso
che ci tocca in sorte oggi), siamo insomma all’altezza dello Snell
maggiore de La cultura greca e le origini del pensiero europeo,
il famoso saggio uscito in prima edizione a Gottinga nel 1948 con un
titolo ancora ‘hegeliano’: Die Entdeckung des Geistes, ‘la
scoperta dello spirito’. Einaudi lo tradusse quasi sùbito, ma
cambiandogli l’abito. Probabilmente lo spirito in copertina avrebbe
creato perplessità e grattacapi, mentre gli inglesi se la cavarono
con il meno compromesso Mind. Una risaputa sentenza dello stesso
Hegel può aiutarci a fotografare, con un solo scatto, il background
filosofico di quel fortunato libro: «Presso i Greci ci sentiamo
subito in patria (heimatlich), perché siamo sul terreno dello
spirito… Lo spirito europeo ha trascorso la sua giovinezza in
Grecia: da ciò l’interesse di ogni persona colta per tutto ciò
che è greco». Solo puntandogli una pistola alla tempia oggi si
troverebbe qualcuno disposto a sottoscrivere quest’immagine.
Di tutt’altra natura,
come detto, è il secondo dei testi tradotti in questa occasione, e
cioè la sbobinatura di una serie di lezioni radiofoniche per il
Terzo programma tedesco, tenute da Snell a partire dalla sera del
Natale 1954, sull’importanza strategica del latino e su alcuni
aspetti rilevanti della cultura letteraria latina, da Catullo alla
retorica ciceroniana a Ovidio, fino ai Carmina Burana, con annessa
piccola antologia di esempi. Anche qui l’attitudine alla limpidezza
del dettato ci fa essere indulgenti su qualche inevitabile disaccordo
storico-critico, ma le parti più attraenti per noi restano quelle in
cui Snell si concede, sempre con stile, qualche spicchio di vissuto:
il liceo Johanneum di Lüneburg frequentato da ragazzo, «dove
sibilava la ghigliottina» della traduzione all’impronta («continua
tu ora…»); la cosiddetta battaglia delle forme, cioè le gare di
latino in classe prima dell’estate; i compiti a casa con l’aiuto
del padre, psichiatra, che però sbagliava gli accenti e gli spiriti
di greco…
Non abbiamo ancora detto
come è nato questo Snell italiano proposto fuori stagione dai
classicisti bolognesi: non è del tutto irrilevante per intuire che
alone deve avere accompagnato il grande filologo tedesco nella sua
lunga vita. Qualcosa trapela dalle pagine introduttive e si tratta,
in perfetta sintonia con la philía che impregnava le sue
ricerche, di una curiosa staffetta umanistica. La spinta a tradurre
in italiano questi testi risalirebbe infatti allo stesso Hartmut
Erbse (1915-2004), il discepolo di Snell. Erbse conobbe Snell nel
’37, rimanendone segnato per la vita, all’università di Amburgo,
dove il maestro si distingueva anche nella resistenza al nazismo.
Ormai vecchissimo Erbse ospitò a Bonn una giovane antichista
italiana, Marilena Amerise appunto, che insieme a lui, quasi cieco,
leggeva proprio queste pagine di Snell per migliorare il proprio
tedesco. Nel frattempo è scomparso Erbse e infine anche l’ultima
staffettista, prematuramente fotografata da sorella morte sulla
soglia di un convegno pontificio – come ricorda il cardinal Ravasi
nell’epicedio che apre il libro da lei così amorevolmente curato.
Nessuno dei protagonisti di questa catena degli affetti si è dato
cura però di sottoporre a una elementare verifica storico-critica i
«valori» affidati tanti anni fa a questi testi: verifica tanto più
necessaria in quanto la loro traduzione è destinata (anche) a
lettori giovani e comunque lontani dalla temperie in cui essi furono
concepiti.
La difesa strenua del
Classico come umanesimo esemplare; la Grecia crogiolo dell’uomo
europeo, e via dicendo, sono l’esito inconfondibile di una
determinata ideologia della Storia che non può certo essere
riproposta oggi tout court, senza dare conto almeno delle
obiezioni scientifiche mosse le da autorevoli antagonisti come
Lévi-Strauss o la scuola Gernet-Vernant-Detienne: a cominciare da
quel «principio lessicale» che Williams ha smontato in pagine
feroci e memorabili. Alcuni di questi dispositivi di Snell, ormai
definitivamente disinnescati, ‘tornano’ nelle pagine ora svelate
al lettore italiano. Per esempio le dimostrazioni lessicali a
proposito della ‘conquista’ dell’astratto, o sulle origini
della congiunzione causale, in greco; o ancora, quando si pretende di
abbozzare una teoria universale delle arti che arrossirebbe se
affrontata anche solo alle pagine iniziali di Arte e illusione.
Si potrebbe obiettare che
qui in fondo lo scopo dei ragionamenti è tutto nobilmente proteso a
tutelare l’appannaggio della tradizione classica nella scuola
(allora) moderna, vale a dire a difendere l’architrave dell'«uomo
occidentale» (commovente la pagina di Snell sull’influenza
esercitata dal Timeo di Platone sulla giovane mente del grande
fisico quantistico Werner Heisenberg). Non ci troviamo forse anche
noi, oggi, nella condizione persino più drammatica di dover salvare
l’insegnamento a scuola del greco, del latino e della storia
antica? Molto difficilmente però la classicità smagliante di Snell,
così univoca e archetipica, avrebbe qualche chance di essere
recepita e metabolizzata in un quadro di saperi dove la nozione
stessa di uomo occidentale – o quanto meno quella a cui si riferiva
quella generazione – è andata in frantumi. Né i testi letterari e
filosofici che Snell con trasporto encomiabile ha studiato e in
alcuni casi fissato in valorose edizioni, possono essere considerati
dei preziosi gioielli per così dire astratti dalla storia; la cui
bellezza e verità sia arrivata misteriosamente intatta sino a noi
dopo avere solcato le onde del tempo (per usare una formula
schematica: storicità vs esemplarità). È probabile che un
pregiudizio anti-marxista sbarrasse al filologo pensante Snell
l’accesso a tutta una serie di acquisizioni, dall’antropologia
alla linguistica, che poi di fatto avrebbero modificato sin dalle
fondamenta il glorioso edifico ottocentesco delle Scienze
dell’antichità, e perciò anche la definizione di Classico nel
panorama epistemologico del dopoguerra.
Oggi che si sono
raffreddati i furori ideologici, e depurati certi eccessi di
autoreferenzialità, possiamo valutarne meglio esiti e guadagni. La
lettura ‘anacronistica’ di questo libro di Snell riporta indietro
le lancette, e ci fa sedere per qualche ora, in piena Guerra fredda,
in un confortevole salotto borghese tedesco le cui finestre siano
rimaste chiuse da allora. In garage ci sarà ancora parcheggiato un
indistruttibile Maggiolino VW, o più probabilmente un’elegante
berlina con la stella a tre punte. Se non ci facciamo stordire dalla
macchina del tempo, possiamo portarci a casa l’insegna e
ricominciare daccapo: I greci e noi è ancora un buon
programma di lavoro.
Alias 2 luglio 2011
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