Il brano è tratto dal
volume L'età del romanzo e
precisamente dal capitolo Il romanziere,
testo di una conferenza degli anni Sessanta del 900, rielaborato per
la pubblicazione in volume. Un passaggio merita una piccola
riflessione. Non so se indicazione del prete o dell'ufficiale come
risposta al “cosa farai da grande?”, davvero corrispondano ai
ricordi di Simenon. Di sicuro prete o ufficiale sono le carriere che
Julien Sorel considera aperte per la ricerca dell'affermazione e del
potere nel celebre romanzo di Stendhal, il cui titolo (Il
Rosso e il Nero) allude appunto
alla porpora cardinalizia o al colore dell'uniforme nei gradi più
alti dell'esercito francese. (S.L.L.)
— Come è divenuto
romanziere? Quando, come ha avuto l'idea di scrivere dei romanzi?
Domanda classica, che
immancabilmente ci viene posta. Ora, salvo poche eccezioni, la
risposta è sempre la stessa. Penso che non avevo neanche tredici
anni quando ho deciso che avrei dedicato la mia vita a scrivere.
Perché? Non sono in grado di dirlo e sarei stato ancor più
incapace, all'epoca, di spiegarlo. Mio padre non scriveva. Nessun
parente, nessuno nella cerchia degli amici e dei conoscenti scriveva.
Nondimeno ripetevo: «Scriverò...» E dato che non immaginavo che
scrivere potesse essere un mestiere, che un'opera letteraria fosse
suscettibile di fruttare a un uomo abbastanza per vivere, annunciai
ai miei: — Voglio diventare prete o ufficiale!
Non hanno mai capito
questo dilemma. Perché prete o ufficiale? Cento volte mi hanno posto
questa domanda alla quale rifiutavo fermamente di rispondere. Per il
motivo, mi affretto a confessarvi, che il mio desiderio di scrivere
mi pareva, se non una cosa vergognosa, per lo meno uno di quei sogni
di cui non è concesso parlare. Prete o ufficiale. Vedevo il curato
della mia parocchia passeggiare nel giardino del presbiterio a passi
lenti leggendo il breviario. Vedevo gli ufficiali andare e venire
nella città, a cavallo o a piedi, a ogni ora del giorno. Avevano
quindi tempo libero, gli uni e gli altri. La professione, l'abito
anche, conferiva loro una sorta di nobiltà che, nella mia mente, ben
si accordava con il ruolo dello scrittore. Infine, considerazione più
ingenua: avevano le mani pulite, nessuno di loro era costretto a
svolgere lavori pesanti suscettibili di far venire i calli e i dolori
alle mani.
Poi sono venuti gli anni
del collegio. Come tanti, ho scritto versi esecrabili. Come tanti ho
anche fondato, in terza, un giornale ciclostilato, che ha avuto solo
due numeri e che ha rischiato di farmi espellere dalla scuola.
Inutile aggiungere che esso era irriverente nei confronti dei
professori. Se vi do questi particolari senza interesse, è perché
ho letto, come tutti, la vita della maggior parte dei romanzieri di
una volta e non ne ricordo uno che faccia eccezione alla regola:
tutti hanno provato, a un dato momento, il bisogno di fondare un
giornale e di punzecchiare i loro maestri. Tutti hanno rischiato di
essere espulsi dalla scuola e credo che alcuni di loro lo siano stati
effettivamente.
Non pretendo che questa
sia una condizione sine qua non, un segno indispensabile di
vocazione, e non vorrei scoraggiare quegli aspiranti romanzieri che,
sui banchi del collegio, non avessero fondato un giornale.
Tuttavia mi chiedo se
questa non è un'indicazione. Ciò non rivela forse una necessità di
ricreare a proprio piacimento dei personaggi osservati? Poiché, in
quel genere di giornali, non troviamo quasi mai delle idee
sviluppate. Altri studenti ne pubblicano alcuni in cui si dibattono
questioni filosofiche o politiche. Ma questi non diventeranno
romanzieri. Ciò che caratterizza il futuro romanziere, penso, è il
suo bisogno istintivo di ricreare degli esseri, o se si preferisce un
termine più pretenzioso, di lavorare l'impasto umano. Perciò
raramente esiste un modello di buona condotta. Per creare la vita,
non occorre forse anche assorbirla attraverso tutti i pori? Per saper
maneggiare gli uomini, per ricostruire degli uomini non occorre forse
essersi immischiati frequentemente con loro? Da qui, quasi
necessariamente, una terribile fame, un terribile appetito di vita,
di vita sotto tutte le forme, un bisogno di immergersi nell'umano
fino alla nausea.
A diciassette anni,
costretto a guadagnarmi da vivere, divenni reporter. Perché? Non lo
so. Non avevo mai letto un quotidiano. Non avevo nessuna idea della
politica. Non sarei stato capace di dire quali partiti si
affrontassero nella cittadina in cui vivevo. Tuttavia, il giorno in
cui dovetti cercare un lavoro, entrai molto naturalmente, stavo per
dire fatalmente, nel corridoio oscuro di un quotidiano e bussai alla
porta del direttore...
da
L'età del romanzo, a cura di Marie-José Hoyet Marsigli,
Lucarini, 1990
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