Riprendo qui la prima
parte della recensione a una nuova edizione della celebre raccolta di
massime di La Rochefoucauld, scritta da un'eccellente francesista
specializzata nella letteratura del 500 e del 600, tra l'altro
autrice della migliore (a mio avviso) tra le edizioni italiane dei
Saggi di Montaigne. (S.L.L.)
François de La Rochefoucauld |
C'è una frase, resa nota
in Italia da Giulio Andreotti, che suona: «A pensar male (degli
altri) si fa peccato ma ci si azzecca». Secondo alcuni la battuta
non sarebbe di Andreotti, che si limiterebbe a citare il cardinal
Mazzarino oppure, secondo altri, La Rochefoucauld. In realtà la
frase non si trova nel Breviario dei politici attribuito al
diabolico cardinale, e neppure nelle Sentenze e massime morali
del duca di La Rochefoucauld, ora curate con l'abituale acribia da
Carlo Carena (Einaudi, «I Millenni»). Ma potrebbe trovarcisi. Anche
un'altra nota massima andreottiana, «Il potere logora chi non ce
l'ha», sarebbe accostabile del resto a questa o quella sentenza di
La Rochefoucauld (poniamo: «La fortuna non sembra mai così cieca
come a coloro che non benefica», 391). Quanto dire la sintonia del
nostro presente con lo spirito dell'epoca di Luigi XIV - quel «
teatro della dissimulazione» indagato a più riprese da Giovanni
Macchia - e, constatazione scontata, la possibilità per noi di
riconoscerci nella cancrena cachettica d'una società dove non
scorrono più stimolanti flussi vitali.
Al limite, quella frase
avrebbero potuto firmarla anche il cardinal de Retz, o Saint-Simon, o
La Bruyère, autori compresenti nel pantheon dei «moralisti
classici» (si veda, ancora di Macchia, l'antologia dello stesso
titolo e, indietro nel tempo, le celebri e fondamentali Morales du
grand siècle di Paul Bénichou, 1948) sulla cui soglia vediamo
indugiare il nostro fine politico. Ma se tutti costoro lavorano
impietosamente sulle contraddizioni dell'animo e dei rapporti umani,
soltanto La Rochefoucauld sfaccetta in perfidi, taglienti cristalli,
luci e colori del secolo del Re Sole. Un secolo che sarebbe più
giusto definire il secolo dell'eclissi, uno dei periodi più oscuri
della storia di Francia: l'assolutismo monarchico schiaccia la vita
socio-economica (carestie, mortalità, tasse pesantissime,
coscrizione) come la vita intellettuale (le élites messe al
passo, gusti e coscienze sorvegliati, disciplinati, plagiati). Quel
che si eclissa è la morale eroica di Corneille, la morale rigorosa
di Pascal; è la fiducia nel genere umano, nella virtù stoica, nelle
gesta sfolgoranti, nell'autenticità dei sentimenti, oscurata dalla
lucida coscienza che ogni agire è doppiezza, che l'interesse per
altrui è copertura del proprio. Si eclissa anche la morale mondana
di Molière, che stornando in amara pagliacciata le artritiche
contorsioni dei sudditi di Luigi XIV, decreta la qualità di Alceste
nel rifiuto di adeguarsi al corrente istrionismo.
Esperto fin da
giovanissimo degli intrighi e delle cabale di corte, partecipe dei
complotti contro Richelieu e della Fronda, La Rochefoucauld sapeva di
cosa parlava esordendo come scrittore a quarant'anni passati, prima
con le Memorie relative al periodo della Reggenza, poi -
calmati gli spiriti e godendo della vaga protezione del re - con le
Massime in cui distilla, nei e per i salotti di Madeleine de
Sablé, di Madame de Sévigné, di Madame de La Fayette, i succhi
aspri e ironici della sua esperienza del vivere. Niente a che vedere,
ovviamente, con i vari manuali di saper vivere che pullulano
all'epoca, a partire dal Cortegiano, comune modello, e di cui
nella pratica -s tando ai giudizi dei contemporanei - La
Rochefoucauld sembra l'incarnazione.
Se alcune sue massime
trattano delle convenienze sociali e insegnano le buone creanze, fra
il Castiglione e La Rochefoucauld è passato Giansenio, la cui
visione negativa dell'uomo ha contagiato gli ambienti parigini. E
anche senza Giansenio, lo spettacolo della corruzione circostante non
poteva che persuadere della vacuità di qualsiasi ideale. L'opera,
consentanea al contesto in cui nasce, viene accolta con favore, anzi
con un entusiasmo che indurrà poi l'autore a rilavorarla a più
riprese, sfogliando atteggiamenti e sentimenti e mostrandone la
faccia nascosta. È tutto un gioco di dritto e rovescio, ogni
apparente virtù rivela la sua fodera di magagna: «La clemenza dei
regnanti spesso non è che una politica per conquistare l'affetto dei
popoli» (15); «L'attaccamento o l'indifferenza dei filosofi per la
vita non era che una propensione del loro amor proprio» (46); «La
sincerità è un'apertura del cuore. La si trova in pochissime
persone; e quella che si vede abitualmente non è che un'astuta
dissimulazione per attrarre la fiducia degli altri» (62); «Ciò che
sembra generosità spesso non è che un'ambizione dissimulata che
disprezza i piccoli vantaggi per raggiungere i più grandi» (246).
Non sempre le massime
sono geniali, alcune sono banali, ma quel che colpisce è il compatto
pessimismo del prontuario, oggetto in prosieguo di tempo di reazioni
diverse, spesso ostili: specchio perfetto dell'uomo secondo La
Fontaine (a Rochefoucauld è dedicata la «favola» L’uomo e la
sua immagine), ma «triste libro» secondo Rousseau, frutto di
«miseria» mentale per Alain, puro esercizio matematico agli occhi
di Camus.
Eppure: Roland Barthes,
che le ha lungamente frequentate, sfuma nelle Massime il loro
carattere ambiguo e benefico. Ambiguo in quanto la massima si situa
su una friabile frontiera: è la stessa società mondana che delega
l'intellettuale La Rochefoucauld a contestarla, concedendosi
attraverso di lui lo spettacolo della propria contestazione. Benefico
poiché la forma lapidaria, definitiva della massima, per quanto
negativa, è più rassicurante dell'insopportabile duplicità del
tutto.
A poco servono le
attenuazioni (spesso, quasi sempre) e le strategie di compensazione
(su cui hanno insistito vari studiosi francesi, e da noi Corrado
Rosso) messe in opera nella formula stessa della massima, tramite
l'uso di subordinate concessive («Per quanto...»), se poi la
proposizione principale cade come una ghigliottina eliminando ogni
incertezza: «Per quanto impegno si metta nel coprire le proprie
passioni con apparenze di pietà e di onore, esse traspaiono sempre
attraverso questi veli» (12); «Per quanta diffidenza abbiamo verso
la sincerità di chi ci parla, crediamo sempre che dica la verità
più a noi che agli altri» (366).
Denunciando la doppiezza
ma frequentando i salotti più eleganti dell'epoca, in perfetto
ossequio alle norme del vivere cortese, La Rochefoucauld
praticherebbe allora una morale sostitutiva, assumendo
consapevolmente una maschera, come vorrebbe Starobinski? La
questione, a dire il vero, è oziosa. Questo scrittore è un signore,
e la morale è un'estetica.
Alias-talpa-il manifesto,
28 giugno 2015
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