Il filosofo belga Raoul
Vaneigem così scriveva nel 1995 in un significativo Avviso agli
studenti: «La prospettiva di una redditività a tutti i costi è
la cortina di ferro di un mondo chiuso dall’economia. (...) Resta
da sapere se allievi e professori, dal momento che la gestione di un
universo in rovine alla quale li si invita non promette nulla di
buono, si lasceranno ridurre alla funzione di meccanismi lucrativi
senza scommettere sull'ipotesi di imparare a vivere anziché a
economizzarsi».
La scuola è al centro di
una nuova riforma che continua a sollevare proteste nell'universo
degli insegnanti e degli studenti e che sembra trovare il suo fulcro
in dinamiche di carattere economico e aziendale, basate su
«meccanismi lucrativi». Nel testo diffuso online dal Ministero
dell’Istruzione, ad esempio, la storia dell'arte dovrebbe ricevere
maggiori impulsi per creare una «capacità di produrre bellezza»,
sulla quale si dovrebbero «formare giovani capaci di ripartire dal
Made in Italy inteso nella sua accezione più ampia». («Made in
Italy?» - viene spontaneo chiedersi - si tratta della scuola o del
marchio aziendale di uno stilista?). Il mondo della scuola è quindi
tornato oggi alla ribalta, chiamato in causa da questo calderone
riformistico promosso da una nuova classe politica rampante, che si
autoproclama ‘rottamatrice’ e sembra invece guardare molto a
quegli anni ottanta del secolo scorso definiti da Paul Ginsborg come
«l'età d'oro del miracolo economico».
Capita a proposito,
perciò, l'uscita di un illuminante volumetto di Giulio Ferroni: La
scuola impossibile (Salerno editrice). L'autore, critico e
storico della letteratura, è sempre stato un acuto e lucido
osservatore non solo della «repubblica delle lettere» ma anche
della cultura e della società italiana tout court. Al mondo
della scuola e alle sue prospettate riforme, infatti, già aveva
dedicato un altro testo uscito nel 1997, La scuola sospesa.
Istruzione, cultura e illusioni della riforma. Al centro della
nuova analisi di Ferroni c'è la critica al modello economico
dominante in ogni settore della vita sociale e culturale, applicato
anche al mondo della scuola: «Tutto deve mirare all'utile, e l'utile
viene necessariamente concepito in termini puramente economici». In
questo quadro rientrano anche le formulazioni che impongono di
sezionare il sapere in obiettivi e competenze, nonché la diffusione
dell'utilizzo dei test per sondare le capacità degli studenti. Anche
l'eccessiva digitalizzazione della scuola rimanda a un modello
economico imposto dall'alto, in un contesto sociale in cui la rete
contribuisce all'evaporazione della democrazia, mentre sempre di più
vengono a mancare luoghi fisici di incontro e di confronto diretto:
la scuola appare così schiacciata dalle «esigenze di grandi
organismi economici, che impongono di essere all'altezza di un
presente disposto secondo le leggi del marketing dei modelli di vita
da esso definiti».
Diversi sono i
suggerimenti per sfuggire a questo «meccanismo lucrativo»: la
produzione di un pensiero «lento» e problematico contro la velocità
imperante, una nuova educazione alla parola, una difesa
dall'eccessiva ‘colonizzazione' dell'inglese, una rinnovata
conoscenza dello spazio, una riscoperta dei classici antichi, nonché,
naturalmente, una decisiva rivalutazione della figura
dell'insegnante. È solo con una passione viva per il sapere e con
fortissime basi culturali che si potrà ottenere, finalmente, a una
scuola «buona» davvero.
Alias-talpa-il manifesto,
28 giugno 2015
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